Storia delle ancore
Navigando oggi in un mare di ancore dalle mille forme, difficilmente si pensa a quanto antica sia la storia di questo semplice accessorio senza il quale la navigazione non avrebbe mai avuto, per l’appunto…storia.

Una volta scoperto il suo primo mezzo nautico e, successivamente, qualcosa di simile a un remo per farlo navigare, l’uomo primitivo dovette affrontare un altro problema. A meno di non tirarla a riva, la sua piroga era infatti facilmente preda di onde, correnti, vento e in pratica non poteva mai star ferma in un posto. Il che poneva appunto un problema sia per un’eventuale azione di pesca o di navigazione, sia per fermarsi in una deliziosa baietta per romanticheggiare con la primitiva bionda del momento.

In altre parole si trattava di inventare un’ancora (come fu poi chiamata dai Greci: ἄγκυραν), che all’inizio fu probabilmente un semplice sasso di peso e dimensioni adeguate, tutt’al più leggermente lavorato per facilitare la presa della cima, legato a un cavo di cui il tempo e la degradabilità del materiale non hanno lasciato traccia, ma che possiamo immaginare realizzato con un intreccio di fibre vegetali o di pelle d’animale e, inevitabilmente, piuttosto corto.
Poiché ogni sasso poteva andar bene, gli archeologi hanno avuto poche possibilità di individuarne e descriverne le caratteristiche, salvo appunto per quelli leggermente lavorati per creare un solco che accogliesse la cima. Dunque, per parlare di ancore in senso concreto, occorre fare un salto di qualche decina di migliaia di anni, dato che le più antiche testimonianze in materia sono costituite da alcune pitture tombali risalenti alla XII dinastia dei faraoni egizi e, perciò, a un’epoca oscillante fra il 2800 e il 2000 a.C. Certo va notato che, nella maggior parte dei casi, il loro compito era facilitato non poco dal fatto di dover svolgere la loro funzione nelle calme acque di un fiume.
Ma quando il raggio delle loro navigazioni si fece più impegnativo – e basterebbe accennare alle rotte commerciali che legavano l’Egitto al Libano, fonte di prezioso legname – le navi divennero imponenti, in grado di trasportare carichi importanti, e le rotte furono ben più complesse di quelle offerte dall’amico Nilo. Delle antiche navi egizie sappiamo molto grazie alla ricchezza dei dettagli pittorici, dei modellini votivi trovati nelle tombe e anche grazie alla famosa nave di Cheope (circa 2528 a.C.), che invece di solcare le acque del Nilo fu sepolta nei pressi dell’omonima piramide come parte del corredo funebre del celebre faraone, e da lì riemerse perfetta in ogni dettaglio negli anni ’50 per la gioia degli archeologi. Scarsi o pressoché inesistenti sono però raffigurazioni o dettagli di qualunque tipo riferiti alle ancore.

Nell’ultimo millennio a.C., tuttavia, il Mediterraneo era già un intenso crocevia di navi che, commerciali, da trasporto, o militari che fossero, dovevano tutte a un certo punto ancorarsi, e l’intreccio nautico culturale fu tale che possiamo tranquillamente immaginare che le ancore dell’epoca fossero tutte piuttosto simili. Parliamo allora di ancore litiche di cui sono stati ritrovati innumerevoli esemplari tanto da riempire le vetrine dei musei, e in qualche caso anche abitazioni private. Ed è anche facile che nel corso di qualche immersione subacquea o di una passeggiata di snorkeling ce le siamo trovate davanti senza accorgercene. Oggi, infatti, sott’acqua un’ancora litica apparirebbe come una normalissima pietra di forma più o meno modellata, ben ricoperta da concrezioni calcaree e microrganismi che il mare ha depositato nel corso dei millenni. L’unica illuminante scintilla potrebbe in realtà nascere da alcuni fori anomali, uno o più, destinati ad ospitare sia la cima del calumo sia quei travetti di legno in funzione di marre di cui non è ovviamente rimasta traccia.

L’età della pietra
Entrando in un contesto più tracciabile e lasciandoci alle spalle la parte più primordiale della storia, vediamo che, al di là del loro valore archeologico, le antiche ancore – litiche incluse – possono aiutarci nel completare un discorso storico e geografico, tracciare un quadro delle navigazioni così come delle operazioni militari risalenti a un passato millenario, ma anche testimoniare il sovrapporsi di numerosi naufragi dovuti a pericoli oggi facilmente bypassabili. Non bisogna infatti dimenticare che le antiche navi avevano capacità di manovra molto limitate, ed evitare una secca o sfuggire a un vento che le sbatteva in costa non era sempre possibile. Con lo sviluppo della navigazione, tuttavia, l’ancora diventò parte integrante di qualunque mezzo che navigasse sulle acque di fiumi, laghi e mari, e non per altro la sua immagine è diventata uno dei simboli più sfruttati dalle antiche marinerie.
È però interessante a questo punto fare alcune osservazioni pratiche. Perché possa lavorare al meglio, un’ancora deve sfruttare il suo peso e la forma che le consentono di far presa sul fondale. Nel caso specifico si potrebbe osservare che all’epoca il primo era assai più importante della seconda. Le ancore litiche, soprattutto quelle di seconda generazione, si affidavano per la loro tenuta a dei travetti di legno appuntiti e temprati al fuoco, le cui possibilità di presa erano intuitivamente minime, ma anche le più elaborate ancore sviluppate poi da Fenici, Greci e Romani non è che potessero fare grande affidamento sulla forma.
Così, in attesa che comparissero Danforth, Bruce e CQR, ci si doveva affidare soprattutto al peso, il che poneva un altro problema. Se mollare l’ancora era indubbiamente operazione semplice e rapida, recuperarla era tutt’altra storia, soprattutto se bisognava operare con un mare in crescendo o con le navi nemiche all’orizzonte. Parliamo, per capirci, di ancore che potevano pesare anche più di due quintali (a titolo di cronaca a Cipro è stata recuperata un’ancora litica di circa una tonnellata), mentre i “verricelli” erano a trazione umana, talvolta argani manovrabili da più persone, ed erano per di più limitati da eventuali incagli dell’ancora, con la cima in costante tensione e la nave che non poteva certo manovrare per facilitare il recupero.

Anche per questo, in caso di emergenza, le ancore venivano lasciate a mare, tanto che ogni nave ne aveva a bordo una buona scorta. Dal famoso relitto di Uluburun, una nave probabilmente diretta in Egitto e naufragata sulle coste meridionali della Turchia, gli archeologi hanno recuperato ben 24 ancore litiche di peso compreso fra uno e due quintali. Un numero talmente elevato da far pensare, data anche la buona fattura delle ancore, a una finalità commerciale. In ogni caso, proprio per le scarse capacità di tenuta, se il caso lo richiedeva venivano calate a mare più ancore il cui peso – giova ricordarlo – cominciò a diminuire con l’evoluzione delle marre (leggi travetti di legno): inizialmente le ancore litiche erano infatti lisce e lavoravano per gravità, poi arrivò la prima marra, che in seguito venne raddoppiata, e quando le marre divennero tre o più la miglior tenuta consentì una notevole riduzione di peso.

Il grande passo
L’inserimento di un ceppo trasversale, inizialmente in pietra e successivamente in piombo, rivoluzionò non poco il discorso migliorando notevolmente le capacità di presa dell’ancora, ma senza risolvere più di tanto i problemi già espressi. Ovviamente il suo avvento fu graduale, tanto che ci sono tracce d’uso di ancore litiche che arrivano fino al primo medio evo, mentre del ceppo non si sa esattamente né dove nacque né chi lo inventò, ma l’idea semplice e geniale modificò fortemente il concetto dell’ancora, dato che in questo caso poteva lavorare sia per gravità sia in presa sul fondo.

Queste ancore presentavano un fusto in legno che si inseriva in un pesante ceppo di piombo bloccato da un perno di fissaggio, il cui peso costringeva le due marre lignee a forma di freccia, tenute in posizione da un giunto anch’esso in piombo, a mantenere un angolo di 90°, ovvero con una posizione trasversale attiva che migliorava notevolmente la presa sul fondo.

Questi ceppi, soprattutto quelli in piombo di cui si comincia a parlare fin dal IV secolo a.C., sono una delle tradizionali immagini legate alle ancore antiche, dato che per le caratteristiche del materiale sono sopravvissuti senza problemi fino ai nostri giorni arricchendo musei e ville al mare, ed è interessante notare che, considerando la totale degradazione del materiale ligneo, per capirne bene la struttura si dovette aspettare fino al 1930, quando durante il recupero delle famose navi del lago di Nemi, volute da Caligola non si sa se per piacere o per devozione, fu scoperta un’ancora lignea con ceppo in piombo perfettamente conservata.

La variabilità dimensionale dei ceppi in piombo dell’antichità è molto ampia, andando da una lunghezza di poche decine di centimetri nel caso di piccole imbarcazioni da pesca o da diporto, fino agli oltre tre metri delle grandi navi onerarie. Ma il Guinness dei primati è in questo caso detenuto dal gigantesco ceppo plumbeo conservato nel Museo Archeologico di La Valletta, a Malta, le cui misure lasciano senza fiato. Difficile infatti immaginare quale nave potesse gestire un’ancora il cui solo ceppo era lungo 4,20 metri per un peso di circa 1.860 chilogrammi. Di questo antico reperto si sa in realtà molto poco, ma si pensa che più che appartenere a una nave fosse utilizzato per ancorare grandi reti da pesca o sbarramenti ad uso militare.
Di certo nella norma non doveva essere facile stivare a bordo ancore che oltre a pesare qualche quintale risultavano molto ingombranti. E se le antiche ancore litiche erano spesso appese al di fuori dei masconi di prua, nel caso di ancore di piccola o media dimensione, i ceppi fin dai tempi dei Romani potevano essere mobili facilitando lo stivaggio a bordo.
Spesso, quando le grandi dimensioni lo consentivano, i ceppi in piombo erano comunque ricchi di informazioni in quanto potevano riportare incisioni di vario tipo: dal nome stesso della nave o dell’armatore, a quello del fabbricante o del porto di armamento, a dediche di vario tipo, votive o apotropaiche. E ricordando che ogni nave per questioni di sicurezza aveva a bordo diverse ancore, le invocazioni apotropaiche in particolare erano incise su quella di maggiori dimensioni, la cosiddetta “ancora di misericordia”, che veniva calata come ultima risorsa quando le condizioni meteo avverse facevano presagire un imminente naufragio.

L’ultima evoluzione
Il ceppo veniva realizzato con una colata di piombo, materiale perfetto per questo uso abbinando il notevole peso specifico alla facilità di lavorazione (il piombo fonde a 327,5 C°), e in piombo era realizzato anche il giunto che ospitava le marre in legno, spesso protette in punta da un rivestimento metallico: il tutto nelle ancore di maggior dimensione arrivava come detto a pesare qualche quintale.
Nato in età ellenistica e messo ulteriormente a punto dai Romani, questo tipo di ancora rimase in uso per secoli, pur non arrivando a monopolizzare la tipologia. A seconda delle situazioni, infatti, l’andar per mare richiede spesso un adattamento pratico ed economico. Le prime ancore litiche, per capirci, ovvero delle semplici pietre legate a una cima, hanno continuato ad essere utilizzate non solo durante il medio evo ma in qualche modo fino ai giorni nostri in quanto praticamente a costo zero: col nome di mazzere, ad esempio, grosse pietre erano utilizzate per mantenere in posizione le reti delle tonnare, ma sassi ben più piccoli legati a una cima erano fino a qualche anno fa utilizzati anche dai piccoli gozzi delle isole per ancoraggi temporanei e, volendo, a perdere.

L’evoluzione tecnica dell’ancora finisce quindi per fondersi in un qualunquismo tipologico che per secoli non ha visto grandi rivoluzioni. Fermo restando che il ceppo, fisso o mobile che fosse, cominciò ad essere eliminato nei primi decenni dell’’800, per essere del tutto dimenticato con il brevetto dell’ancora Hall (1910) e di tutti i modelli che seguirono. Per curiosità possiamo ricordare che due ancore ancor oggi usatissime sono di poco posteriori: la CQR vide la luce nel 1933, la Danforth nel 1939.
Il tutto, tornando ai secoli passati, senza sensibili miglioramenti dal punto di vista della tenuta, se non con l‘avvento delle ancore a rampino realizzate in ferro e già presenti in età romana, che però avevano, ieri come oggi, il piccolo difetto di incagliarsi con grande facilità e spesso senza possibilità di recupero. Interessante tuttavia notare che già al tempo dei Romani molte ancore presentavano sotto il diamante un anello con funzione di grippiale, il che facilitava, spesso ma non sempre, il recupero di un’ancora incagliata. E altrettanto interessante ricordare che ancore a rampino di ridotte dimensioni potevano avere un uso… molto alternativo: venivano infatti utilizzate in battaglia per abbordare le navi nemiche.
Qualunque fosse il tipo di ancora, dai tempi degli antichi Romani al tardo medio evo, il problema principale delle ancore è sempre stato indubbiamente quello di calarle e soprattutto di recuperarle. Va detto che non esistono molte notizie in proposito, quindi non resta che affidarsi all’immaginazione e al senso pratico delle proprie esperienze di mare. Difficile ad esempio immaginare il recupero a mano di un’ancora di oltre due quintali, difficile anche immaginare come quest’ancora potesse essere issata a bordo facendole scavallare l’impavesata, e se lasciata fuoribordo doveva di certo essere fissata più che bene per evitare che sotto mare formato sfondasse lo scafo. Se poi si immagina questa manovra praticata in condizioni meteo avverse, viene quasi da ridere pensando a chi al giorno d’oggi, a causa di un verricello in avaria (a chi non è capitato?), ha dovuto recuperare a mano la propria ancora da 12-15 chili con improba fatica. Di certo questa manovra veniva comunque effettuata con ben altri pesi, e di certo se le cose diventavano troppo difficili l’ancora veniva abbandonata, il che giustifica in parte la gran quantità di ancore – o meglio di ceppi, dato che il legno è andato in pasto al tempo – rimaste in fondo al mare per la gioia degli archeologi subacquei. Che poi l’ancora sia stata fra i simboli più utilizzati, ieri come oggi, dalle incisioni sui ceppi di piombo alle decorazioni di vasi, dalle suppliche votive a quelle scaramantiche, dalle monete agli anelli, dai tatuaggi ai fregi di grado militare, dimostra quanto importanza abbia avuto nella storia della navigazione.

Tanta storia, quindi, segnata per secoli da una scarsa evoluzione, fino ad arrivare in senso generico al secolo scorso, tenendo l’ancora tipo ammiragliato e il grappino con i suoi vari modelli come ponte fra l’antico e il moderno. Un moderno che vede invece una grande applicazione tecnica che ha portato a decine di modelli diversi, ciascuno con la sua logica e la sua specifica destinazione d’uso, con divertenti e curiosi estremi. Magari per ricordare che l’ancora centrale del Titanic, che di ancore ne aveva a bordo cinque, pesava 15.000 chili e lavorava con un cavo di 7,7 cm di diametro lungo 320 metri. Tuttavia in tema di record il podio spetta a quella che viene, o meglio veniva considerata, l’ancora più grande al mondo: l’imperfetto è dovuto al fatto che la superpetroliera giapponese Seawise Giant, a cui l’ancora apparteneva con le sue 36 tonnellate, fu definitivamente demolita nel 2010 dopo essere stata semiaffondata da un missile iracheno durante la Guerra del Golfo, aver cambiato più volte proprietario, essere stata più volte modificata, essere comunque diventata un po’ obsoleta a causa del suo scafo singolo quando il doppio scafo divenne obbligatorio, senza contare le sue ingombranti dimensioni (458,45 metri di lunghezza con 26,61 metri di pescaggio). In ogni caso, di questa incredibile nave oggi non resta che, orgogliosamente esibito all’ingresso dell’Hong Kong Maritime Museum, il suo simbolo più significativo: l’ancora.



