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La conquista della profondità: i cercatori dell’abisso perduto

sottomarino

Pesci eravamo e pesci torneremo? Può anche darsi. Nel frattempo, fin dall’antichità, l’uomo si impegna a sfidare la profondità. Una via non sempre facile.

Poiché ci piace sempre prendere le cose alla lontana, facciamo un salto nel passato remoto, ma molto remoto, per ritenere probabile che il primo impatto dell’uomo con il mondo sommerso non sia stato voluto né cercato. Nel senso: ci piace immaginare che quel primo tronco d’albero cavalcato dall’uomo per affrontare il mare non fosse molto stabile e che perciò, cercando un minimo di equilibrio a bordo del suo monocarena, quel primo antico marinaio sia finito in acqua. Poco male?

Oggi forse sì, ma all’epoca una tragedia, perché, è sempre facile immaginare che, avendo scarse nozioni di nuoto, quell’umano nel suo fare scomposto sia andato pressoché a fondo, facendo due scoperte da cui in seguito – ma molto in seguito – avrebbe avuto inizio l’evoluzione di un’attività estremamente affascinante.

Infatti, dopo la prima sostanziosa bevuta d’acqua, il nostro uomo scoprì che lì sotto non poteva respirare, così come scoprì che, pur spalancando gli occhi, tutto appariva sfuocato e indefinito. Sarà poi affogato o sarà riuscito a recuperare la superficie per raccontare la sua avventura agli amici rimasti a terra? Nessuno potrà mai saperlo ma a te, caro amico tanto antico quanto sconosciuto, diamo il merito di aver gettato il primo seme dell’immersione subacquea.

Bassorilievo assiro
Un bassorilievo assiro che mostra un primordiale mezzo di respirazione subacquea.

Una storia antica

Passando dall’immaginazione alla storia, o per meglio dire alla protostoria dell’immersione subacquea, i primi riferimenti sono ovviamente annebbiati dalla distanza temporale, anche se ad esempio abbiamo una testimonianza storica, in quanto incisa nella pietra, che ci arriva dagli antichi Assiri: un bassorilievo conservato al British Museum e proveniente dal palazzo di Assurnasirpal II mostra infatti un uomo che, munito di un otre di pelle presumibilmente pieno d’aria e con una canna collegata alla bocca, si avventura sott’acqua. I dettagli non ci sono ovviamente noti, ma possiamo osservare in primis che, data la collocazione geostorica, doveva trattarsi di acqua dolce, forse quella dell’Eufrate.

Alessandro Magno
Bassorilievo assiro

Inoltre doveva necessariamente nuotare a pelo d’acqua perché, come probabilmente scoprì presto, oltre una pur minima profondità, la pressione dell’acqua impedisce ai polmoni di espandersi. In compenso si scoprì che era possibile scendere sott’acqua trattenendo il respiro, e anche se indubbiamente le tecniche di quegli antichi subacquei dovevano essere assai primitive, i risultati non erano affatto male.

Vale infatti la pena ricordare che già nell’antica Grecia c’era chi si immergeva per pescare spugne e corallo rosso, quello che oggi si trova in dimensioni commerciali solo oltre i cento metri di profondità, ma che all’epoca doveva essere presente e abbondante già a pochi metri dalla superficie, come dimostrato dai numerosi reperti storici di epoche remote nelle cui decorazioni sono presenti inserti di Corallium rubrum.

Discorso che vale anche per le spugne, la cui storia è altrettanto antica e – ahimè – biologicamente triste, dato che nei secoli le spugne mediterranee, quelle per capirci in grado di offrirci una gradevole morbidezza nella vasca da bagno, sono a poco a poco scomparse, o quasi, per gli esuberi della pesca e per varie pandemie sottomarine, ponendo fine a una grande tradizione che, durata fino al secolo scorso, ha segnato momenti importanti nella storia dell’immersione in apnea. La storia dei pescatori di spugne è infatti affascinante e ricca di aneddoti e di uno in particolare, famoso in tutto il mondo della subacquea, parleremo più avanti.

All’antica Grecia sono anche legate imprese, più leggendarie che storiche, come quella narrata da Erodoto che racconta di un tale Scillyas che, durante la battaglia di Salamina (480 a.C.), si fece una decina di miglia a nuoto, sott’acqua per non essere visto dalle navi di Serse, usando una canna di giunco per respirare. Anche in questo caso il racconto si scontra con le leggi della fisica, perché, a meno che il buon Scillyas non fosse dotato di un’appropriata cintura di zavorra, il suo corpo sarebbe ripetutamente venuto a galla rendendosi perfettamente visibile.

Tucidide narra invece di come gli Spartani, assediati dagli Ateniesi a Pilo, furono riforniti di acqua e cibo da abili subacquei che li trasportarono sott’acqua: un’altra storia alla quale diamo il beneficio del tempo che tutto offusca e confonde, altrimenti i terrapiattisti d’oggi sarebbero dei principianti. Nei fumi dell’antica creatività finì anche Alessandro Magno, al quale viene accreditata un’immersione nelle acque del porto di Tiro (333 a.C.) utilizzando una campana subacquea.

Probabilmente un’invenzione del suo ufficio stampa al fine di accrescere la fama dell’imperatore e renderlo ancora più “magno”, ma comunque non impossibile, in linea di principio. Sorprendono i dettagli di quel primo sottomarino, che ci dicono come lo “skaphe andros” – campana di vetro o, secondo altri, botte rinforzata in bronzo e ben calafatata – misurava 3,70 metri di diametro e 2 di altezza, consentendo di osservare il mondo sottomarino. Narra la storia che Alessandro portò con sé Nearco, ammiraglio in capo della sua flotta, e una quantità di viveri, lampade a olio, coperte, viveri e acqua, per poter restare in immersione dalle dieci del mattino alle dieci di sera. Ovviamente, le leggi della fisica e del buon senso smentiscono.

Palombaro
La complessa vestizione di un palombaro.

Scendere sott’acqua con il solo aiuto dell’aria immagazzinata nei polmoni era in compenso un’attività praticata sia in Egitto sia presso i Romani, i quali, a dispetto del nome poco edificante, utilizzavano i cosiddetti urinatores per vari scopi sia civili sia militari, come ad esempio quelli di recuperare il recuperabile da navi affondate, liberare ancore incagliate, o tagliare le cime d’ormeggio delle navi nemiche.

E qui entriamo nella storia vera e propria, perché vale la pena notare che non parliamo di subacquei improvvisati, ma di una vera e propria corporazione con tanto di tariffario e di rappresentanti riconosciuti dalle autorità. Subacquei ante litteram, gli urinatores – racconta Plinio – per migliorare la visibilità sott’acqua erano soliti riempirsi la bocca di olio che poi sputavano creando una sorta di lente. Poiché Plinio ci parla anche di polpi – animali del tutto inoffensivi – che risucchiavano i naufraghi con le loro ventose per poi ingoiarli, possiamo lecitamente dubitare anche delle tecniche degli urinatores, che tuttavia erano per l’epoca apneisti di tutto rispetto, potendo operare fino a 10-15 metri di profondità.

ama giapponesi
Seguendo una tradizione millenaria, le Ama giapponesi – qui in una foto d’epoca – continuano ancora oggi a pescare ostriche perlifere immergendosi per ore a profondità di tutto rispetto.

E altrettanto importanti, facendo un salto al di fuori del Mediterraneo, erano le prestazioni delle ama giapponesi, le famose pescatrici di perle la cui tradizione è antica di oltre duemila anni, capaci di immergersi ripetutamente per ore, ieri come oggi, a profondità di 15-20 metri.

spugnari
Fino a pochi decenni fa, i pescatori di spugne greci si sono immersi in apnea o con dei narghilè alimentati da rudimentali compressori, riuscendo però a riempire la barca di preziose spugne.

Il genio di Leonardo

I secoli oscuri del medioevo sono stati tali anche per la storia dell’immersione, perché, a parte alcune documentazioni sul lavoro di recupero dei subacquei apneisti, salvo alcune geniali elucubrazioni scientifiche di Leonardo da Vinci, poco altro si sa. Il genio dei geni, infatti, si occupò anche di subacquea.

Come riporta una pagina dello straordinario Codice Leicester, fra le sue mille incredibili intuizioni Leonardo concepì anche il progetto di una sorta di sottomarino, di cui tuttavia, non curò la realizzazione considerandone il potenziale uso militare e, conseguentemente, la possibile carica di morte. Miglior sorte ebbe la sua campana subacquea, dal cui progetto fu ricavata quella con la quale, nel 1531, si immerse Guglielmo di Lorena. Con la stessa campana, Francesco De Marchi, che l’aveva costruita, esplorò le acque del lago di Nemi alla ricerca delle gigantesche navi imperiali di Caligola. A puro titolo di cronaca, ricordiamo che il recupero totale di queste navi fu completato solo nel 1932 dopo lo svuotamento del lago voluto da Mussolini e realizzato grazie alle idrovore fornite dalla Costruzioni Meccaniche Riva.

Da Leonardo in poi arriviamo agli inizi del diciassettesimo secolo, ovvero nel 1624, quando un ingegnere olandese, Cornelius van Drebbel, costruì quello che può essere considerato il vero primo sottomarino… a remi, della storia. Realizzato in legno e cuoio e dotato internamente di una “vescica” d’aria, navigò con successo nel Tamigi di fronte a sua maestà Giacomo I. Prima che la conquista della profondità si concretizzasse, sfilò nella storia una quantità di strane macchine subacquee, spesso più immaginarie che reali, anche se qualcuna, nonostante la sua improbabilità, pare abbia funzionato…almeno per qualche ora.

scafandro
Leonardo arrivò anche a concepire una sorta di autorespiratore subacqueo, qui ricostruito.

Primi passi in fondo al mare

Perché l’immersione subacquea avesse un fine operativo e non puramente avventuroso e speculativo, occorreva però che l’uomo fosse libero di muoversi sott’acqua, utilizzando braccia e mani. Dopo numerosi e fantasiosi esperimenti, prima di arrivare ai palombari e poi agli attuali autorespiratori, ci fu una tappa importante nella storia dell’immersione, che però di subacqueo aveva poco. Per facilitare la costruzione di ponti, porti e opere subacquee in genere, verso la fine del Settecento si cominciò infatti a utilizzare dei “cassoni” che venivano calati in mare capovolti e alimentati da potenti pompe in grado di emettere aria a pressione.

cassonisti
La vita dei “cassonisti” era particolarmente dura, ma soprattutto fu esposta per decenni a problemi fisicamente distruttivi, se non letali. Tuttavia fu dallo studio di queste patologie che si individuarono per la prima volta i fenomeni embolici.

All’interno di questo scatoloni gli uomini potevano in pratica lavorare all’asciutto, anche se in condizioni deprecabili: erano infatti a contatto diretto con il fondo marino, in un ambiente umido e costretti a un lavoro faticoso sotto la sola luce delle lampade a gas. Finito il turno, questi operai venivano riportati in superficie e…e qui arrivavano i dolori, in senso letterale, perché spesso accusavano forti dolori articolari, formicolii, paralisi degli arti, vertigini, nausea e spesso si arrivava al decesso. Per arrivare alla soluzione del problema ci vollero anni e studi approfonditi, finché si arrivò a comprendere che il problema non era nella profondità o nella durata del lavoro all’interno del cassone, ma nella rapida risalita in superficie. Si era in pratica scoperta la genesi dell’embolia, quella che oggi viene tranquillamente gestita dai subacquei sportivi grazie a sofisticati computer da polso, problema che all’epoca fu superato effettuando una risalita lenta e calcolata che consentiva il riassorbimento dell’azoto sciolto nel sangue dalla pressione idrostatica.

Vale la pena notare che le prime tabelle di decompressione furono messe a punto nel 1907 dal fisiologo inglese John Scott Haldane e che, sebbene i moderni computer subacquei si basino su una serie ben più complessa di parametri, quelle tabelle hanno accompagnato nei decenni a seguire le immersioni di centinaia di migliaia di subacquei.

Superato almeno concettualmente l’ostacolo dell’embolia, l’esigenza di rendere l’uomo autonomo nello svolgimento del lavoro subacqueo passò per un’altra era gloriosa, quella delle cosiddette “teste di rame”, ovvero i palombari. Oggi molti di quei stupendi e pesantissimi caschi indossati dai pionieri dell’immersione fanno bella mostra di sé nei salotti degli appassionati di mare, ma il cammino, anche in quel caso, fu lungo e non privo di problemi.

Elmo da palombaro
Un elmo da palombaro, oggi ricercato oggetto di antiquariato nautico.

Il primo elmo da palombaro fu realizzato nel 1837 dalla tedesca Siebe Gorman& Co ed era collegato con dodici bulloni a una tuta impermeabile stagna. L’elmo era collegato con la superficie attraverso una manichetta, il cosiddetto cordone ombelicale, che portava l’aria a pressione attraverso una pompa che, nei primi tempi, veniva operata a mano manovrando una grande ruota: come a dire che la vita del palombaro, oltre che alla robustezza del materiale, era legata alla resistenza fisica di chi azionava questo meccanismo.

Il casco era dotato di oblò che consentivano la visuale esterna e di due valvole per il carico e lo scarico dell’aria, che venivano comandate dal palombaro con il movimento della testa. Con piccole modifiche, questa attrezzatura, che era completata da una pesante piastra di piombo appesa al collo e da scarponi anch’essi dotati di una pesante zavorra per garantire l’assetto sul fondo, è rimasta in uso fino agli anni ’80 del ‘900.

Un subacqueo, all’interno del suo scafandro rigido articolato, e un palombaro si preparano a scendere sul relitto del RMS
Lusitania (1935).

Passaporto per il futuro

Il passaggio dall’immersione professionale a quella ludica e sportiva è legato alla realizzazione di un sistema in grado di gestire l’erogazione e soprattutto la pressione dell’aria in modo da neutralizzare la tossicità dell’ossigeno, che avviene oltre una certa pressione, ovvero oltre una certa profondità. I primi autorespiratori furono però proprio i cosiddetti ARO, peraltro messi a punto dalla Regia Marina Italiana per scopi prevalentemente militari: l’ARO è infatti un apparecchio a circuito chiuso che non emette bolle, rendendo quindi invisibile l’avvicinamento e l’azione del sub.

Maiale della Marina
Un “maiale” come quelli utilizzati dalla X Flottiglia MAS nell’epica impresa di Alessandria.

Una caratteristica che fu utilizzata già durante la prima guerra mondiale a spese della flotta austro-ungarica, ma che fu esaltata nel corso della seconda guerra mondiale dalle azioni della X Flottiglia MAS, e in particolare dall’impresa che, nella notte fra il 18 e il 19 dicembre del 1941, portò tre SLC (Siluri a Lenta Corsa, più noti come “maiali”) ad attaccare e affondare le navi britanniche ormeggiate nel porto di Alessandria piazzando potenti cariche esplosive sotto le loro carene.

Jacques Cousteau
Jacques Cousteau, indimenticabile pioniere
della subacquea, con il suo primo autorespiratore.

Dopo la guerra, l’ARO fu utilizzato anche per l’immersione sportiva ma con diversi limiti, poiché la preparazione tecnica necessaria per il suo utilizzo e, soprattutto, le limitate quote operative (oltre i 12 metri l‘ossigeno diventa tossico) non ne consentirono la diffusione nonostante la sua grande autonomia. Anche perché nel frattempo era nato l’ARA, l’autorespiratore ad aria, che utilizzava un erogatore in grado di portare l’aria compressa delle bombole a una pressione respirabile adattata alla profondità. La nascita di quella che è oggi l’attrezzatura che ha aperto le porte del turismo subacqueo a milioni di appassionati è tradizionalmente assegnata a un ufficiale della marina francese, Jacques Cousteau, e ad un ingegnare canadese, Emile Gagnan, che nel 1943 brevettarono il primo autorespiratore ad aria. Lo stesso che, con poche modifiche, utilizziamo ancora oggi. E se il primo non ha certo bisogno di presentazioni, al secondo non è rimasto che appena un pizzico di gloria.

Un moderno scafandro per immersioni ad alta profondità.

La storia dell’immersione subacquea si divide a questo punto in diverse direzioni. Quella tecnologica segue il costante ammodernamento delle attrezzature; quella della ricerca scientifica si divide dicotomicamente fra la ricerca fisiologica e quella naturalistica. Una terza via segue la costante sfida dell’uomo alle profondità marine ed è l’affascinante storia dei record in apnea nelle varie tecniche del profondismo, che ha portato a exploit impensabili solo pochi anni fa. Impossibile seguire questa evoluzione dell’immersione subacquea che si articola in un continuo succedersi di eventi e scoperte, ma possiamo fissarne alcuni episodi significativi.

Dell’immersione in apnea parliamo in un riquadro a parte. Di quella con autorespiratore possiamo qui ricordare la discesa record di Ahmed Gabr che nel 2014, al largo di Dahab, nella penisola del Sinai, è sceso alla profondità di 332,35 metri: 14 minuti per raggiungere la quota record e 13,50 ore per risalire in superficie dopo aver eseguito le varie tappe di decompressione. Altrettanto straordinaria la discesa dell’americano Victor Vescovo che, il 28 aprile 2019, è sceso con il suo sottomarino nella Fossa delle Marianne – il punto oceanico più profondo al mondo – toccando i 10.928 metri, scoprendo tre nuove specie di gamberetti e…un sacchetto di plastica. Meditate, gente, meditate!

Umberto Pellizzari
Umberto Pelizzari in risalita da uno dei suoi numerosi record.

La favola dell’apnea

La discesa in apnea è solo un aspetto della storia dell’immersione subacquea, ma forse la più affascinante perché mette l’uomo libero da ogni orpello a diretto confronto con le profondità marine. Ed è una storia che parte da un’impresa straordinaria ma quasi casuale, per poi passare a un susseguirsi di incredibili exploit sportivi.

Degli antichi tuffatori abbiamo già detto, ma in tempi più moderni e quindi dichiaratamente storici non si può non citare quanto avvenne il 4 agosto 1913, quando un pescatore di spugne greco, Gheorghios Hadji Statis, si offrì di recuperare l’ancora persa dalla nostra corazzata Regina Margherita nella baia di Karpathos. Hadji Statis, un pescatore di spugne locale dal fisico mingherlino, mezzo sordo e accanito fumatore con tanto di enfisema polmonare, all’asciutto non riusciva a trattenere il respiro per più di un minuto, ma compì quattro discese a profondità comprese fra i 45 e gli 84 metri per imbragare la catena dell’ancora incagliata a 77 metri con tempi di apnea di oltre tre minuti. Scendeva utilizzando come zavorra una lastra di pietra di 14 chili (la cosiddetta skandalopetra) e risaliva attaccato a una cima recuperata dalla superficie: visitato dai medici di bordo dopo la sua impresa fu trovato perfettamente normale.

Questa storia, documentata nei registri della nostra Marina Militare, è necessariamente credibile nonostante possa sembrare leggenda. Lascia invece perplessi, ma non poi così tanto, la richiesta che fece Hadji Statis come ricompensa per la sua impresa, e che raccolsi personalmente diversi anni fa da uno degli ultimi testimoni diretti. Hadji Statis non chiese infatti un premio in denaro, ma solo il permesso di pescare con la dinamite: permesso che gli fu accordato e che diede il via a un vizietto che in Grecia è durato a lungo.

Alessia Zecchini
La nostra Alessia Zecchini, straordinaria campionessa dell’apnea profonda.

Dopo le prime epiche imprese di Raimondo Bucher (-30 metri nel 1949), di Falco e Novelli (-41 metri nel 1956) e di Amerigo Santarelli (-44 metri nel 1960), la conquista della profondità ha vissuto anni di grande popolarità sia durante la lunga ed epica sfida tra il francese Jacques Mayol e il nostro Enzo Maiorca, sia durante quella successiva tra Francisco “Pipin” Ferreras e Umberto Pelizzari, in cui si inserì anche Gianluca Genoni.

Tempi in cui nel profondismo esistevano solo tre specialità: l’assetto costante, in cui si scendeva senza alcun ausilio; il variabile regolamentato, in cui si scendeva con l’aiuto di una zavorra e si risaliva con i propri mezzi; il variabile assoluto, detto anche “No Limits” dallo slogan del suo maggiore sponsor, in cui per la discesa venivano utilizzate sofisticate zavorre mentre per la risalita ci si poteva affidare a una sacca d’aria o a una muta gonfiabile.

Jacques Mayol
L’immagine di un giovane Pelizzari accanto a Jacques Mayol, che fu sempre il suo idolo.

Erano i tempi in cui questi record facevano notizia nei TG serali e l’interesse per i personaggi travalicava le pur straordinarie imprese sportive. Poi, il progressivo allargarsi delle specialità, un po’ di confusione nelle omologazioni e il conseguente distacco degli sponsor hanno portato a un certo disinteresse, nonostante che, nel frattempo, le quote raggiunte fossero assolutamente straordinarie.

Sicuramente pochi al di fuori degli addetti ai lavori conoscono, ad esempio, Herbert Nitsch, un apneista austriaco che una decina di anni fa, a Santorini, scese in No Limits alla pazzesca profondità di 253,20 metri, record a tutt’oggi imbattuto. E pochi di più conoscono la nostra Alessia Zecchini, che lo scorso anno è scesa in assetto costante a 105 metri conquistando il primato mondiale. Sottolineando che l’apnea profonda è una ricerca più spirituale che materiale, a questi cercatori dell’abisso spettano tutta la nostra ammirazione e il pizzico di gloria che si sono guadagnati.

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