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Pesca sostenibile, la Charfia patrimonio dell’Unesco

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Prezioso riconoscimento e nuove opportunità di sviluppo per il tradizionale sistema di cattura a mano, ancora praticato dai pescatori delle isole Kerkennah.

Nell’ultima sessione del 2020, la commissione Unesco ha promosso a patrimonio immateriale dell’umanità un sistema di pesca tradizionale, ancora praticato in Tunisia, alle isole Kerkennah. È la cosiddetta “charfia” (o “charfiya”), una tecnica di cattura passiva su bassi fondali, che sfrutta i movimenti marini e impiega materiali naturali per la sua tipica costruzione.

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Ha un’origine antichissima, probabilmente risalente al periodo punico. Il nome, apparso nei documenti ufficiali solo intorno al XXVII secolo, deriva dal termine arabo charaf (nobiltà) ed è legato al nome della famiglia Charfi (i fratelli Ahmed e Ali Charfi), proveniente da Sfax, che deteneva il monopolio per lo sfruttamento del demanio marittimo. Nel 1772, il bey di Tunisi Ali Pasha Bin Hussein Bin Ali, tolse tale diritto alla famiglia Charfi, per assegnarlo ai soli abitanti di Kerkennah.

La charfia è costituita da un labirinto di fronde di palma incastonate nel fondo marino antistante la battigia, in modo da comporre una barriera triangolare che blocca il percorso dei pesci, poi trascinati dalla marea di riflusso verso reti o nasse terminali, intrecciate da abili mani isolane con foglie di palma. Un sistema ingegnoso e sostenibile, perché, a differenza dello strascico, che raschia i fondali prelevando tutto ciò che incontra, è fisso e mantiene il pesce vivo.

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Tra le prede principali ci sono quelle indicate come “pesce povero”, ma che non mancano di esprimere ricercati sapori quando vengono cucinate direttamente in loco dai pescatori stessi. Si tratta di salpe, cefali, sciarrani, perchie, sogliole, tordi, molluschi quali polpi e seppie, ma anche specie di maggior valore, quali triglie, saraghi, orate e spigole.
È consuetudine installare e gestire le charfie tradizionali solo tra l’equinozio d’autunno e giugno, per garantire alla fauna marina un periodo di riposo biologico, rispettoso dei tempi di riproduzione.

Esse vengono ricostruite ogni anno (a differenza delle charfie moderne, in rete e struttura fissa, che possono rimanere in mare fino a tre anni consecutivi), seguite da pratiche sociali che coinvolgono le comunità locali di pescatori. In tanti partecipano alle diverse fasi del processo, dall’installazione ai rituali del sollevamento delle trappole, rendendolo un elemento unificante per gli isolani, anche attraverso la condivisione dei pasti.

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Molti degli abitanti delle Kerkennah imparano a pescare fin dalla tenera età ed è uso comune che un padre lasci il suo impianto al figlio maggiore, per perpetuarne la proprietà e i segreti, anche in termini di conoscenza di fondali, correnti e venti dominanti. Il dossier è stato presentato all’Unesco su iniziativa dell’Istituto Nazionale del Patrimonio tunisino e della Delegazione permanente della Tunisia, con il contributo dell’associazione Jeunes Science di Kerkennah, il cui comitato scientifico ha sostenuto la candidatura con diverse iniziative.

La prima è il progetto “Tnagem”, mirato a sviluppare intorno alla charfia l’ecoturismo e la gestione sostenibile delle risorse naturali. Il progetto, è entrato nel programma europeo Switch Med, dedicato all’economia circolare delle risorse del Mediterraneo meridionale. Nel 2016, è arrivato l’inserimento nel programma Slow Fish di Slow Food, volto a sostenere le comunità di pesca artigianale e promuovere un consumo di pesce consapevole, non distruttivo e impattante per l’ambiente. Che ha trovato la sua celebrazione nel Festival Charfia, presso il villaggio Ouled Ezzeddine, la cui prima edizione si è svolta nel settembre 2016.

“Chiunque abbia assaggiato il pesce catturato con la charfia concorda: è più buono, perché il pesce “aspetta”, tranquillamente e senza ferite, il passaggio dei pescatori che lo raccolgono”, hanno sostenuto gli esperti di Slow Food. Il riconoscimento Unesco, potrà fornire un valido sostegno allo sviluppo sostenibile e socio-economico di un’area caratterizzata dallo sfruttamento incontrollato delle risorse ittiche del golfo di Gabes.<p style=”text-align: center;”></p>

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