Tutto sulle ancore, forma, peso e materiali
I turni di guardia in rada sono finiti? Chissà. Quel che è certo è che forme e materiali dei “ferri” moderni hanno subito un’evoluzione che ha rivoluzionato la filosofia degli ancoraggi.
Chi sei è occupato di progettare e costruire ancore ha sempre avuto a che fare con due elementi principali: il peso e la forma.
Nel caso delle ancore cosiddette permanenti, quelle utilizzate per mantenere in posizione una piattaforma o una nave faro, oppure, ad esempio, allevamenti ittici o boe di segnalazione, la forma passa in sottordine rispetto all’elemento peso che invece svolge il ruolo determinante.

Nel caso delle ancore destinate alle navi, quindi soggette ad essere salpate e calate più volte, il peso resta un elemento della linea di ancoraggio, ma la forma, e quindi la capacità di agguantare fondi penetrabili, assume il ruolo di protagonista.
Le forme delle ancore si sono trasformate negli anni e, soprattutto nel diporto, lo hanno fatto inseguendo l’ancora perfetta, quella che possibilmente sia in grado di penetrare tutti i tipi di fondo. Un target realmente mai raggiunto, fino a quando la sperimentazione di geometrie sempre nuove non ha condotto a scovare una forma che consente di ridurre di molto il peso necessario alla linea d’ancoraggio (ancora e, soprattutto, peso della catena) raggiungendo la “tenuta dinamica incrementale”.
Ebbene, oggi, le ancore in grado di realizzare questa condizione sono la Ultra e la Mantus, definite anche “totali” proprio perché in grado di fare testa praticamente in qualsiasi tipo di fondo penetrabile.

In sostanza, la tenuta dinamica incrementale consiste nella capacità, una volta fatto testa, di aumentare la tenuta man mano che la forza del tiro aumenta e, quando si supera la soglia di tenuta a causa di una rotazione del vento o di un suo brusco aumento, di ricostituire una nuova e più forte tenuta nel fondo creando una condizione in cui risulti praticamente impossibile la perdita di presa. Si tratta, insomma, della realizzazione del sogno di ogni diportista.
Tuttavia, per arrivare prima alla Ultra e poi alla Mantus sono stati necessari decenni di ricerca e tentativi che hanno prodotto quelle ancore che, ancora oggi, montiamo sui musoni delle nostre imbarcazioni e che solo con il tempo, forse, lasceranno il posto alle più moderne soluzioni, i cui costi sono ancora piuttosto alti.

All’origine fu un aratro
Possiamo risalire agli anni ‘30 per trovare una delle prime ancore utilizzate per il diporto, ovvero la CQR, acronimo di Coastal Quick Release. A pensarla fu un matematico americano, Geoffrey Ingram Taylor il quale, nel 1933, la disegnò destinandola agli idrovolanti che, come le barche, avevano bisogno di qualcosa di efficace ma dal peso contenuto.
Il matematico aveva derivato la CQR dall’aratro: quindi un vomere che, proprio come fa l’attrezzo contadino, si fa spazio nel terreno. Ma nella sua caratteristica principale sta anche il suo primo limite: la CQR apre il terreno, non lo taglia, e se si muove lateralmente, in assenza di un “agricoltore” che la spinga verso il basso, tende a uscire, quindi a spedare. Nel suo caso specifico, è sufficiente un giro di vento che imprima una rotazione di 60 gradi per farle perdere la tenuta statica.

Pochi anni dopo, a ridosso della Seconda Guerra Mondiale, nasce la Danforth, destinata ad uso militare, soprattutto durante gli sbarchi dei mezzi anfibi sulle spiagge del Nord Europa. Ha un’ottima tenuta statica su tiro diretto ma bastano pochi gradi di rotazione per farla spedare. Inventata da Richard Danforth, penetra male nei fondi duri e ha anche il limite di essere chiusa, ossia di avere le marre unite e quindi di non poter essere montata sulle prue delle barche.
Inconveniente che si cerca di superare disegnando la Britany (con i suoi derivati più diffusi in Francia e in Italia), le cui marre aperte, però, tendono a lavorare in modo non uniforme, con un’alta probabilità di spedare con piccoli angoli di rotazione. Gli anni successivi hanno portato alla produzione della Fortress, versione più leggera della Danforth. La suggestione del vomere rimane tuttavia ben radicata e, nel 1992, viene brevettata una delle ancore più diffuse, la Delta.
Anch’essa nasce per lavorare sulle piattaforme e per tenere fermi sistemi galleggianti ma presto si diffonde anche nel mondo del diporto grazie al fatto che è compatta, non ha cerniere né elementi a incastro, mantiene la prua appesantita come la CQR e, non ultimo, è la prima ad avere una buona penetrazione nei fondi più duri della sabbia.

L’idea dell’artiglio: la Bruce
Vent’anni prima della Delta, con una visione molto diversa da quella suggerita dall’aratro, l’ingegnere navale Peter Bruce progetta l’ancora che porta il suo nome. Pensata all’origine per l’ancoraggio delle piattaforme petrolifere, sfrutta il suo enorme peso e la possibilità di riempire la sua forma concava di sedimenti, una volta adagiata sul fondo. In breve tempo si diffonde nel mondo del diporto e ancora oggi è molto usata (e copiata).
La tenuta statica sulla sabbia è ottima, ma crolla sui fondi di alghe o di materiale misto. In quest’ultimo caso, infatti, lungo il “percorso” necessario a far testa, tende a raccogliere sassi, alghe, ciottoli creando così le condizioni per non seppellirsi correttamente. I vari test cui è stata sottoposta ne evidenziano la tendenza a sfuggire dal fondo con rotazioni intorno ai 130 gradi.

La testa concava
Gli anni ’90 sono quelli in cui si registra una forte accelerazione nella modifica delle forme. Il navigatore tedesco Rolf Kaczirek è il primo a occuparsi del problema del raddrizzamento, ossia di quella proprietà che permette all’ancora, a prescindere dalla posizione con cui tocca il fondo, di disporsi correttamente per far testa. Disegna la Bugel, con la quale introduce un design completamente nuovo: marra piatta e un rollbar che consente all’unghia di agguantare il fondo in qualsiasi posizione si appoggi l’ancora e di autoraddrizzarsi.
Nel 1996, Alain Poiraud disegna la Spade, la prima ancora ad avere una forma concava in grado di garantire una tenuta statica molto elevata. È l’ancora perfetta? Non ancora, perché quando gira il vento, a circa 90 gradi di rotazione tende a spedare, con il rollbar che addirittura accentua questa propensione. Una nuova strada verso le moderne ancore è stata però aperta.

La rivoluzione
Nel 2004, infatti, proprio la Spade viene presa come riferimento per realizzare 14 diversi modelli di acciaio inox in scala. Fra le diverse combinazioni, viene realizzato un modello che eredita dall’originale la superficie concava della marra a vomere capovolto e che, grazie al fatto che in essa si concentra il 60{2e3577d2bd6aebaa150c85c33fcd353783f1aa6c690283591e00ef60b3336fc8} del peso totale, ha una notevole capacità di autoraddrizzamento: è la Ultra Anchor.
Questo risultato si ottiene grazie all’infusione di piombo attraverso un foro praticato nella parte concava. Soluzione che impone la realizzazione in acciaio inox in grado di sostenere questa infusione, al contrario di quanto potrebbe fare l’acciaio zincato.

Inoltre, le marre sono disegnate con inviti che le permettono di far testa nello spazio della sua lunghezza e di penetrare progressivamente nel fondo man mano che la trazione aumenta. Si tratta, infatti, della prima ancora a tenuta dinamica incrementale, capace di garantire una tenuta pressoché totale ma che ha il problema, come detto, di dover essere costruita in acciaio inox, il quale ha un carico di rottura certamente più alto dell’acciaio zincato, ma che, per contro, può subire la formazione di cricche nei mari caldi, in particolare nell’acqua stagnante al sopra dei 27,5 gradi centigradi.

Inoltre, sotto trazione, le curvature che caratterizzano la forma delle marre generano dispersione di energia: tutti gli “inviti” che sono stati creati per spingerla verso il fondo, disperdono energia attraverso la forza centrifuga. Ma la rivoluzione ha avuto inizio: l’ancora non può spedare da sola e può essere salpata solo ponendosi sulla sua verticale ed esercitando una trazione fra gli 80 e i 90 gradi.
Nello stesso periodo viene prodotta l’ancora che conquista il primato tra quelle a tenuta statica: la Rocna. Ha le marre concave come la Spade, il rollbar come la Bugel ma, alla prova dei fatti, non riesce a resistere alle rotazioni, a causa delle quali, raggiunti circa i 90 gradi, tende a spedare.

L’era della Mantus
Se l’avvento della Ultra Anchor ha rappresentato l’inizio della rivoluzione, introducendo il concetto di tenuta dinamica incrementale, è nel 2014, con l’invenzione della Mantus, che il processo si compie definitivamente. La realizza la funzionaria della Nasa Deneen Kutsen, ingegnere strutturale che, insieme con il suo compagno Greg, ama navigare lungo le coste dell’America latina. Osservando quello che di meglio c’è in giro, in particolare l’Ultra Anchor, Deneen ha l’intuizione di applicare al progetto i principi della geometria vettoriale.
Spariscono le curve che caratterizzano l’Ultra e, attraverso i vettori che definiscono fuso e marre, realizza un’ancora in cui tutta la forza applicata al fuso si trasferisce sull’unghia senza alcuna dispersione. La prima Mantus è la M1. Anche in questo caso la marra è concava e per il raddrizzamento è stato studiato un rollbar molto efficacie ma troppo ingombrante, al punto da poter creare qualche problema di installazione sulle prue delle barche da diporto dotate di delfiniera o di bompresso.

Per questo motivo, nel 2018, esce la M2. In questo modello scompare il rollbar, la cui funzione di autoraddrizzamento viene trasferita al fuso, che subisce un’accentuata curvatura. In questo modo, il problema dell’ingombro è risolto ma, per contro, si perde l’eccellente caratteristica della M1, ossia quella di fare testa immediatamente, in un rapporto tra calumo e fondale di poco superiore a 1:1, che nel caso della M2, proprio in virtù del braccio arcuato, diventa di circa 2:1.
A determinare le qualità della Mantus, concorrono anche i materiali che hanno già fatto la loro apparizione su ancore precedenti. Per i modelli in acciaio inox viene utilizzato l’AISI 316L per le marre e l’AISI 318LN per il fuso; per le ancore zincate, viene utilizzato l’A36 per le marre e l’HT ASTM514 per il fuso: sigle che per i non addetti ai lavori voglio dire poco ma che stanno a indicare alti carichi di rottura.

I materiali
Dalla Rocna in poi, oltre alle qualità di tenuta statica e dinamica, si incomincia a parlare di qualità dei materiali, che diventa più alta. Inoltre, maggiori carichi di lavoro e di rottura, associati alle nuove forme delle ancore, modificano completamente la filosofia dell’ancoraggio. Le catene utilizzate normalmente hanno un grado (ossia la capacità di sostenere carichi di lavoro) più alto che nel passato. Parliamo di catene di grado 40, come minimo, ma anche più alto, contro il grado 30 previsto precedentemente. È stato calcolato che una catena da 8 millimetri di grado 40 ha un carico di lavoro di 1.000 chilogrammi e un carico di rottura di 4.000.

La stessa catena, con lo stesso peso, se di grado 60, ha un carico di lavoro di 1.400 chilogrammi e un carico di rottura di 7.000.
Vien da sé che l’importanza del peso da calare sul fondo, con le nuove ancore e i nuovi materiali passi in secondo piano, trasferendo il compito della tenuta alle capacità di carico dei materiali e alle forme delle ancore.

Inoltre, con le ancore a tenuta dinamica incrementale, può andare in soffitta quel carico di apprensione che tutti i comandanti del diporto provano durante soste all’ancora in condizioni non ottimali. Attenzione, perizia, qualità della manovra sono tutti elementi superati? Assolutamente no. Ad ogni comandante resta il compito e la responsabilità di realizzare un ancoraggio a regola d’arte e di verificarne sempre la tenuta.

Un’ultima nota a proposito dei prezzi che, nel mondo delle ancore, presentano differenze a volta abissali. Se si vuole puntare al risparmio, in commercio si può trovare una falsa Bruce anche a 30 euro. Agli antipodi, si possono spendere anche 2000 euro per una Rocna originale, o superare gli 800 per una Mantus da 20 chilogrammi. Ma la sicurezza ha un prezzo?