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Progresso tecnologico e linea d’ancoraggio: Il punto su catene e snodi

catena

L’argomento non è tra quelli più dibattuti, sebbene riguardi direttamente la sicurezza della barca alla fonda.

Misure, forme, materiali, processi di fabbricazione, persino origine geografica dei due elementi fondamentali del calumo.

Si parla spesso di ancore e della loro evoluzione ma alquanto raramente di linea d’ancoraggio. Eppure, anche in questo specifico campo, negli ultimi vent’anni sono cambiate molte cose per quanto riguarda i materiali, le tecnologie, le tecniche di lavorazione, la progettazione. Sono cambiamenti essenziali, perché avere a che fare con ancore che “tengono di più” vuole necessariamente dire aggravare potenzialmente tutto il sistema non solo di carichi di lavoro più alti, ma soprattutto di picchi di carico fino a qualche tempo fa impensabili.

Catena inox

Sebbene la maggior parte delle barche sia tuttora dotata di “ferri” nati perlopiù negli anni ’80, se non prima, c’è stata una evoluzione tale da cambiare totalmente non solo la sicurezza alla fonda, ma anche la stessa tecnica e filosofia d’ancoraggio.
Grazie alle nuove ancore si è passati da una “tenuta di catena”, che contava sull’extra peso dato appunto dalla catena filata, a una “tenuta di ancora” dove, appunto, è l’ancora che tiene.

Catena zincata
Catena zincata

È a questo punto che cambia profondamente il modo di considerare il calumo: non ci interessa più tanto il peso, ma diventa essenziale fare bene i calcoli sui carichi di rottura perché con queste ancore il lavoro potenziale inferto sull’intero sistema è appunto molto più alto.
La fortuna è che le evoluzioni tecniche ci hanno permesso di affrontare con piena efficienza questi importanti aumenti prestazionali.

Catena zincata
Catena zincata

Zincata o inox

Incominciamo affrontando l’annosa questione del dualismo catena zincata o inox.
“Affrontare” è la parola giusta perché si tratta di un prova a dir poco spinosa in quanto non è sempre facile rendere giustizia a tutti gli argomenti.

Pochi se ne rendono conto ma, negli ultimi anni, c’è stata una notevole evoluzione nella produzione delle catene. Di conseguenza molte teorie da banchina traggono origine da prodotti che, per quanto si possano trovare ancora sul mercato, sono ormai tecnicamente sorpassati. Parliamo infatti di un’enorme evoluzione sia nella qualità delle materie prime sia nelle tecniche di lavorazione, spesso protette da brevetti.

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Una catena nuova inox dopo 2 mesi sul fondo (ph_Silcio Giona).

Tali progressi hanno permesso di elevare i carichi di rottura, nonché la resistenza alla corrosione e al lavoro nel tempo, a livelli non immaginabili solo qualche decennio fa.
Altro punto importante, che spesso dà luogo a fraintendimenti, è che in questa sede parliamo di catene da usare in ambiente marino (con buona pace dei navigatori lacustri): essendo il mare un ambiente particolarmente corrosivo, i materiali e soprattutto le lavorazioni devono essere adeguati.

La legge italiana prescrive catene per ancora che abbiano un “grado di forza” (detto semplicemente “grado”) pari a 30: tale misura ne indica, indipendentemente dal diametro del filo della catena stessa, una determinata resistenza meccanica.

Il “grado” è infatti la misura della tensione media di carico di rottura minimo del materiale con cui è costituita la catena e viene espressa in Newton per mm quadrato (Grado 30 = 3.000 N/mm2). È quindi un’indicazione del “livello di resistenza” di una certa tipologia di catena, indipendentemente dalla sua misura: per intenderci, posso avere una catena di grado 30 ma con un carico di rottura e di lavoro differente a seconda delle dimensioni della maglia.

Di conseguenza, per determinare la catena dell’ancora giusta per la propria imbarcazione, bisogna assicurarsi del grado di certificazione (almeno 30 ma personalmente consiglio almeno il grado 40), della misura del filo (in dipendenza della lunghezza/dislocamento ed eventuali caratteristiche dell’imbarcazione), oltre che della lunghezza per garantirsi sempre il giusto calumo rispetto alla profondità del luogo dove normalmente si ancora (3-4 volte il fondale – tenendo conto della tipologia del fondo – più l’opera morta).

La lunghezza ci deve garantire primariamente il giusto angolo di trazione rispetto al fondo: ferma restando la profondità, più lungo è il calumo, più basso è l’angolo di tiro, migliore è la prestazione dell’ancora. Ma attenzione: se si allunga troppo il calumo, la barca tende a brandeggiare e il brandeggio, oltre che essere poco confortevole, può creare problemi.

In ogni caso, “poca cima, poco marinaio”, per cui consiglio di mettersi a bordo le seguenti lunghezze di catena/tessile: non sotto i 50 metri per barche inferiori a 10 metri; intorno ai 75 metri per barche fino a 15-17 metri; 100 metri fino a 23-24 metri e via dicendo. Intendiamoci, non è legge ma un’indicazione di massima che va accolta e sulla quale ragionare tenendo conto di molte altre varianti.

Una delle più discusse diatribe, dicevamo, è quella sull’uso della catena zincata “contro” la catena inox.

La voce di banchina più insistente è quella secondo cui le catena zincate sono migliori perché godono di carichi di rottura maggiori. Non è vero: diciamo che a parità di filo, salvo qualche eccezione di catene speciali apparse sul mercato, una catena in zincato ha un carico di rottura più basso di una corrispondente in acciaio inox.

Infatti, storicamente, le catene zincate sono di grado 30; oggi, come dicevo, sono consigliabili quelle di grado 40; eccezione fanno alcune rare catene in acciaio zincato legato che arrivano a grado 65. Ma le catene in acciaio inox (AISI 316 L) partono dal grado 50 e salgono al 60 e 60 Plus (le rare AISI 318 LN).

La più importante differenza sta nell’elasticità: le zincate sono infatti più “elastiche” delle inox. Questo è un aspetto molto importante perché nella lunghezza della catena l’elasticità fa gioco positivo ammortizzando i picchi di tensione: questo è indubbiamente un punto a favore della zincata.
Inoltre, considerando che una catena zincata costa circa 1/3 se non 1/4 di una catena in inox, si giudica spesso e giustamente più conveniente l’adozione della prima.
Per contro, la zincata dura di meno: diciamo 8-10 anni, se trattata bene, prima di perdere la zincatura e sviluppare ruggine. Quando questo accade conviene cambiarla piuttosto che imbarcarsi in una nuova zincatura.

Quindi la catena zincata richiede periodici attenti controlli delle singole maglie perché, se salta la zincatura (per esempio contro un scoglio), lì si potrebbe innescare un pericoloso processo di corrosione.

Al contrario, una catena inox di ottima fattura è più resistente all’usura meccanica e può durare per due decine d’anni o anche di più.
Il più noto svantaggio delle zincate a bordo di una barca è che, avendo la superficie ruvida, si accumulano nel gavone dell’ancora fino a bloccarsi, costringendo spesso le persone a lavorare scomodamente e a sporcarsi.

Invece, le catene in acciaio, avendo la superficie liscia, scivolano distribuendosi meglio all’interno del gavone di prua: questa è la prima ragione per la quale molti armatori optano per la inox.

Vantaggio non da poco delle zincate è che NON sono soggette a “cricche” (micro fratture che si possono invece creare nell’acciaio inox) e risultano meno soggette ai rischi legati alla cattiva lavorazione in fabbrica o alla materia prima di bassa qualità.

Le “cricche” si possono creare nell’acciaio inox a causa di tre ragioni: la qualità della materia prima, la lavorazione dell’acciaio stesso (e delle saldature) e la lucidatura finale della catena.
In mare si usa acciaio inox a basso contenuto di carbonio: quello privilegiato è l’AISI 316L che può sviluppare cricche in acqua marina stagnante con temperatura sopra i 27.5 gradi C. Si tratta quindi di una condizione difficile da trovare sott’acqua, perlomeno nel Mar Mediterraneo.

Attenzione però che si trovano catene in acciaio inox AISI 304, 304L e 316 di resistenza alla corrosione marina sicuramente inferiore e che l’acciaio INOX, anche se AISI 316L, deve essere di qualità. I migliori acciai al mondo non si trovano in Asia, bensì in Europa.

Esistono poi pochi produttori in grado di fornire catene nautiche in acciaio inox AISI 318LN che non solo sono di grado 60 Plus ma godono di una resistenza alla corrosione che le rende pressoché inattaccabili in ambiente marino.

Bisogna inoltre considerare che l’acciaio inox è più difficile da lavorare e soprattutto da saldare rispetto allo zincato. Quindi è il produttore che fa la differenza: nell’acquisto di una catena in acciaio inox è fondamentale scegliere il catenificio giusto, che sia a mio avviso perlomeno Europeo così da garantire e certificare non solo la qualità della lavorazione (saldature e lucidatura) ma anche quella della materia prima.

La lucidatura dell’acciaio inox è l’aspetto più importante ai fini della resistenza nel tempo all’usura e alla corrosione: i catenifici importanti investono continuamente in risorse per migliorare questo processo fondamentale. Una lucidatura eccellente si distingue grazie alla bassissima o nulla porosità della superficie e per la distribuzione compatta e uniforme in ogni punto di ogni singola maglia.

Attenzione quindi ai diversi produttori europei, americani e canadesi che, in realtà, fanno produrre le catene in Asia: insomma, accertarsi sempre della provenienza.
Tornando ai vantaggi, oltre a essere più belle e a durare di più, le catene inox di ottima manifattura sono più facili e rapide da controllare, non portano a bordo tanto sporco e comunque si lavano con più facilità.

Qualcuno si arrischia a ipotizzare che lo zincato, grazie alla sua superficie ruvida, faccia più attrito sul fondo contenendo così il brandeggio, ma non esiste alcuna evidenza scientifica in proposito.
Altro vantaggio della zincata rispetto alla inox è che la materia prima e la qualità di lavorazione incidono di meno sulla resistenza e sull’affidabilità.

Desidero sottolinearlo: quel “meno” non significa che non incida affatto. Personalmente non comprerei mai per la mia barca una catena in zincato che non fosse di un rinomato catenificio italiano (siamo bravissimi con le catene zincate e bisogna riconoscerlo).

Come sappiamo infatti, il paradosso della catena è appunto che basta un solo “anello debole” per spezzarla.

Insomma, analizzando un po’ tutto, come spesso succede a bordo non esiste una tipologia di catena perfetta per ogni esigenza ed uso.

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Ancora con calumo di cavo tessile

Catena, tessile, misto

L’altra longeva diatriba è calumo in catena, tessile o misto?
Qui apparentemente c’è da sbizzarrirsi ma in realtà ci sono degli esperimenti storici e dei dati precisi che limitano molto il dibattito.

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Ancora, snodo e catena a riposo

Intanto il punto centrale da considerare è ancora una volta il carico di rottura.
Considerando che si parla di nautica da diporto, come calumo tessile si usano normalmente cime in poliestere ritorte a tre legnoli per le seguenti ragioni:
1. Hanno un carico di rottura più alto e sono più resistenti all’abrasione delle corrispondenti cime in poliestere con anima e calzate.
2. Vengono accettate e fanno attrito all’interno del barbotin del verricello salpancora.
3. Il poliestere affonda.
4. Il poliestere gode di un medio carico di rottura e di una buona elasticità (soprattutto con questo tipo di treccia).

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Uno snodo di vecchia concezione

Secondo uno studio storico americano si è visto che filare in tessile dà diversi vantaggi con barche fino ai 10 metri: poi diventa negativo. La barca incomincia a brandeggiare troppo.
Il problema vero è che, in ogni caso, anche se non consideriamo più la catena per il suo peso ma per il carico di rottura, il suo peso funge comunque da ammortizzatore (è intuibile che ci voglia più energia per mettere in tensione una catena sospesa rispetto a una cima sospesa della stessa lunghezza). Un calumo in tessile non riesce a svolgere questa funzione, aumentando il brandeggio e garantendo dei ritorni elastici anche forti in caso di vento “rafficato”.

In ogni caso, per barche di dimensioni di lunghezza superiore ai dieci metri incomincia a diventare critica la possibilità di poter utilizzare delle cime di carico di rottura adeguato mantenendo un diametro – non so come dire – consono, utilizzabile, non esageratamente grosso.

Faccio un esempio personale: posseggo una barca a vela storica di 15 metri e, per alcune ragioni, non posso avere più di 40 metri di catena 10×30 mm. Ho dovuto quindi aggiungere altri 40 metri di tessile da 24 mm che, benché impiombato direttamente sulla catena, non ha un carico di rottura sufficiente: ma oltre quella misura i trefoli diventano troppo grossi per entrare nelle maglie della catena da 10 mm e l’impiombatura non passa nel barbotin orizzontale in dotazione.

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Snodo con guance in torsione

Di conseguenza ho creato una seconda linea parallela che assicuro alla catena con un apposito gancio ad alto carico (Aisi 318LN): le due cime lavorano quindi in tandem e ho un sistema sicuro.

È chiaro che questa soluzione è un compromesso, ben lontano dall’essere una soluzione ideale.
Per barche di misura più piccola c’è anche chi sostiene la possibilità di utilizzare un calumo solamente tessile: qui trovo principalmente un rischio. Il tessile può essere reciso facilmente dagli scogli per cui, almeno i primi metri (5 per barche molto piccole, almeno 10 per unità più grandi) devono essere in catena.

In ogni caso, avendo un peso specifico alto, la catena aiuta l’ancora a far testa più facilmente.
Ricapitolando: calumo totalmente tessile direi di no; misto cima-catena ok fino a certe misure.

Ma attenzione: la cima deve essere impiombata direttamente alla catena, così si calcola il carico di rottura della cima abbassandolo solo del 30{2e3577d2bd6aebaa150c85c33fcd353783f1aa6c690283591e00ef60b3336fc8} (con un nodo si deve abbassare del 50{2e3577d2bd6aebaa150c85c33fcd353783f1aa6c690283591e00ef60b3336fc8}) e si eliminano terze parti come i grilli che, anche se di alto carico, sono sempre potenziali punti deboli. La regola generale in ogni linea di forza, infatti, è che più elementi ci sono, più sono i punti deboli potenziali.
Insomma, tutto deve essere sempre il più pulito e lineare possibile.

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Snodo Mantus

La “girella”

Tecnicamente si chiama cardine di connessione fra ancora e catena, da molti soprannominato “girella” o “snodo” oppure all’inglese “swivel”.
Qui mi diverto perché abbiamo degli indiscutibili criteri scientifico/tecnici di cui tener conto.
Iniziamo quindi da una importante legge fisica: “su una linea continua ed omogenea, il carico di lavoro si distribuisce in maniera uniforme. Ma se inseriamo un punto di discontinuità lungo questa linea, quello diventa il punto in cui si concentra il carico”.
Tradotto: la nostra catena è “la linea continua ed omogenea”, mentre il cardine è “il punto in cui si concentra il carico”.

Mi spiace per questa piccola lezione, necessaria per capire immediatamente quanto questo sia un argomento importante e sensibile: con i cardini non si può scherzare.
I cardini di connessione devono possedere un carico di rottura superiore a quello delle catene a cui sono collegati.

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Snodo Mantus

Ora: i cardini sono e devono essere in acciaio inox (AISI 316 L oppure AISI 318 LN). Non possono essere in zincato perché devono ruotare (lo zincato fa attrito), devono avere una lavorazione molto fine (quella dello zincato è forzatamente grossolana) e devono garantire la massimizzazione dei carichi di rottura (lo zincato come abbiamo visto ha un carico di rottura più basso dell’inox AISI 316 L).

Ci scontriamo quindi con i problemi che abbiamo già visto a proposito dell’uso dell’acciaio inox in ambiente marino.

Abbiamo infatti già accennato che il problema enorme dell’acciaio inossidabile marino può essere rappresentato dalle “cricche” che – lo ripetiamo – possono crearsi a causa di tre ragioni fondamentali:
la scarsa qualità della materia prima, la cattiva lavorazione dell’acciaio (e delle eventuali saldature) e l’approssimativa lucidatura finale. In mare si usa acciaio inox a basso contenuto di carbonio: quello privilegiato è il già nominato AISI 316 L che può sviluppare cricche in acqua marina stagnante con temperatura sopra i 27.5 gradi C.
Attenzione ancora una volta, perché si trovano pessimi lavorati in acciaio inox AISI 304, 304L e 316.

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Pin a sezione ovale

Essendo l’acciaio inox difficile da lavorare, fondere e saldare, è il produttore che fa la differenza: nell’acquisto di un cardine di connessione è fondamentale scegliere il produttore giusto, che garantisca e certifichi la qualità della lavorazione e della materia prima. Non faccio nomi per evitare di essere accusato di favorire qualcuno a danno di qualcun altro ma un’attenta ricerca su Internet porta senz’altro a buoni risultati.

Voglio spendere qualche parola sui processi in fusione: affinché l’acciaio fuso mantenga le sue caratteristiche, deve essere fatto raffreddare secondo un ben determinato e lungo processo controllato, in maniera da permettere la migliore stabilizzazione dei legami molecolari.

Nei processi di produzione massiva (soprattutto nelle aziende terziste asiatiche che producono manufatti in acciaio per clienti dei più svariati settori) questo processo viene spinto al limite, spesso oltre, in maniera da ridurre i tempi di produzione e liberare le linee produttive. Ciò avviene a discapito della nostra sicurezza.

Infine è la lucidatura dell’inox l’altro aspetto importante per garantirne la resistenza nel tempo all’usura e alla corrosione: deve essere omogenea e non leggera.

In poche parole, prima di decidere di acquistare un cardine di connessione bisogna guardare:
1 Che il carico di rottura sia superiore (non uguale) a quello della catena al quale è connesso.
2 Che sia di acciaio inox AISI 316 L o AISI 318 LN.
3 Che sia costruito bene e, se in fusione, che non derivi in maniera evidente da produzioni massive. Quindi è fondamentale assicurarsi che sia di un produttore riconosciuto, insomma uno che si occupa specificatamente di linee d’ancoraggio e che faccia di questo prodotto uno dei suoi punti di forza.
4 Che sia lucidato bene.
5 Che sia disegnato correttamente.
A proposito di quest’ultimo aspetto, va detto che il punto debole di ogni cardine è il “pin” che ferma la catena: questo piccolo oggetto è limitato nelle misure dalle dimensioni interne dell’anello della catena entro cui viene montato. È di fatto lui che determina il carico di rottura dell’intera girella.

Quasi tutti i “pin” sono a sezione circolare perfetta, per cui possono godere del carico massimo dato dalla sezione interna della catena stessa. Questo non è sufficiente per raggiungere un carico di rottura adeguato.

La soluzione è venuta da un paio di produttori che hanno realizzato tale “pin” in sezione ovale il quale, bloccato nella giusta posizione, offre un più ampio spessore sulla linea di tiro della catena garantendo un carico di rottura molto più alto.

Altro punto tipico di rottura sono le guance che trattengono il pin, a volte incredibilmente disegnate con sezioni minori del pin stesso! Bisogna porre molta attenzione.

La maggior parte degli snodi è infatti dotata di guance che avvolgono il fusto dell’ancora: queste guance possono aver senso solo negli snodi raddrizzanti (che fanno girare l’ancora nella posizione d’entrata nel musone) proprio per non dare stabilità dinamica all’ancora e farla quindi ruotare se appunto arriva al contrario.

Queste guance hanno però un doppio limite: in caso di tiro della catena non in linea (per esempio se l’ancora è incagliata), il cardine non può ruotare e lavora quindi pesantemente su angoli sbagliati fungendo da leva. Ogni snodo è stato disegnato per lavorare esclusivamente in una linea di tiro retta; non può fare angoli, neppure quelli che hanno una testa pivotante in grado di fare al massimo 30° sono sufficienti in questi casi. Tradotto: non solo il cardine lavorerebbe male rischiando di deformarsi, ma fungerebbe da prolunga del fuso dell’ancora, aumentandone la leva, e mettendo quindi in crisi la resistenza stessa del fuso fino a piagarlo.

La soluzione sta in quegli snodi che abbiano un attacco all’ancora che permetta loro di ruotare completamente di 180 gradi o più, in modo appunto di lavorare sempre in linea e di non allungare il braccio sul fusto dell’ancora: come un grillo a forma di omega, per intenderci.

Infine, si perdoni il gioco di parole: le girelle devono girare. Devono essere in grado di girare soprattutto quando sono sotto carico per eliminare qualsiasi leva derivante dalle eventuali “cocche” (i giri, gli arrotolamenti) della catena.

Infatti, per quanto possiamo sforzarci di metterla in linea, la catena avrà sempre dei giri: se va in tiro (cosa che può succedere sicuramente con le nuove ancore ad alta tenuta in condizioni di vento forte), questi giri arrivano fino allo snodo che deve così ruotare liberamente per eliminarne la derivante pericolosa torsione.

Per questo non si devono usare i grilli: perché appunto, non potendo ruotare, si spaccherebbero a causa della torsione inferta dalla catena (o spaccherebbero l’ultimo anello della catena stessa).

Uno snodo, per poter ruotare bene sotto carico, deve avere un carico di lavoro adeguato: non può avere quindi la testa ruotante piatta, ma piuttosto a sfera o mezza sfera per ridurne appunto la frizione.

Un ultimo inciso sul raddrizzamento dell’ancora. C’è un trucco per non far arrivare l’ancora al contrario ed evitare quindi l’adozione dei pericolosi cardini raddrizzanti: basta non continuare a muoversi in avanti quando l’ancora è salpata ma ancora in acqua. È infatti il flusso dell’acqua sull’ancora che ce la dispone al contrario: è sufficiente accostare di qualche grado a sinistra o a dritta per angolarla a sufficienza per poi, se dotata di un buon cardine, ruotare ed entrare ben dritta nel musone.

Riassumiamo quindi le caratteristiche del perfetto snodo:
1 Acciaio AISI 316 L di provata qualità o AISI 318 LN.
2 Carico di rottura più alto della catena a cui va collegato.
3 Produttore non massivo.
4 Buon sistema di rotazione (carico di lavoro alto).
5 Attacco all’ancora senza guance in modo che possa lavorare in linea.
Buona fonda a tutti.

di Ezio Grillo Rizzi

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