L’Idrogeno a bordo, il Carburante Green del Futuro
Scriveva nel lontano 1874 Jules Verne nel suo romanzo L’Isola Misteriosa “… l’acqua sarà usata come combustibile, l’idrogeno e l’ossigeno che la costituiscono, usati da soli o simultaneamente, forniranno una fonte di calore e di luce inesauribile e di un’intensità che il carbone non può avere”.
Chi vivrà vedrà, si dice in queste occasioni. Allo stesso tempo è però certo che, anno dopo anno, le parole di Verne diventano incredibilmente sempre più verosimili. Tanto da sembrare la premessa ai nuovi piani per la sostenibilità energetica e ambientale con cui la Commissione Europea punta ad azzerare le emissioni di carbonio dell’Unione entro il 2050. La notizia è di luglio.
Presentando il documento “A hydrogen strategy for a climate-neutral Europe” (strategia sull’idrogeno per il clima), l’Europa ha infatti scommesso sull’idrogeno per un futuro sostenibile. Il piano, voluto dalla commissaria UE all’energia del team di Ursula Von Der Leyen, l’estone Kadri Simson, è uno dei capisaldi del green deal europeo e ha un duplice obiettivo. Da un lato mira a estendere l’uso dell’idrogeno in sostituzione dei combustibili fossili, dall’altro a decarbonizzarne la produzione.

Per la prima volta l’Europa vira e investe sull’idrogeno che avrà un ruolo chiave e insostituibile per raggiungere gli obiettivi del green deal, ovvero un taglio delle emissioni pari al 50-55{2e3577d2bd6aebaa150c85c33fcd353783f1aa6c690283591e00ef60b3336fc8} entro il 2030 e del 100{2e3577d2bd6aebaa150c85c33fcd353783f1aa6c690283591e00ef60b3336fc8} nel 2050. Infatti, l’Europa punta a dare all’idrogeno un ruolo attivo nel nostro mix energetico già entro 10 anni, con l’obiettivo di produrre 6 Gigawatt e un milione di tonnellate di idrogeno verde entro il 2024 (oggi siamo a un Gw).

A fianco, le fonti da cui è possibile estrarre idrogeno, direttamente o indirettamente per mezzo di un elettrolizzatore. A sinistra, i possibili utilizzi dell’idrogeno, direttamente o indirettamente tramite le celle a combustibile che lo trasformano in energia elettrica.
Per passare poi a 40 Gigawatt, 10 milioni di tonnellate, nel 2030. Una strategia finanziata attraverso consistenti fondi europei che coinvolge praticamente tutti i settori industriali, dal siderurgico alla chimica fino ai trasporti su gomma, aerei e navi.
Una rivoluzione che ci riguarda tutti. Ma perché solo ora se ne parla in modo così frequente e concreto? Perché solo ora l’Europa punta in modo così importante sull’idrogeno? Eppure, sono anni che si parla dell’idrogeno come la soluzione ai problemi energetici del mondo. Lo scriveva nel 1874 Jules Verne, lo cantava Fabrizio De Andre’ nel 1971 nella sua bellissima canzone “Il chimico”:
“Ma guardate l’idrogeno
tacere nel mare
guardate l’ossigeno
al suo fianco dormire:
soltanto una legge
che io riesco a capire
ha potuto sposarli
senza farli scoppiare.
Soltanto la legge
che io riesco a capire”.
L’idrogeno energia del futuro
Il problema fondamentale è che l’idrogeno, pur essendo l’elemento più abbondante dell’universo, alla base del magico liquido che ricopre il 70{2e3577d2bd6aebaa150c85c33fcd353783f1aa6c690283591e00ef60b3336fc8} della superficie terrestre, non si trova libero in natura. Oggi, in oltre il 90 {2e3577d2bd6aebaa150c85c33fcd353783f1aa6c690283591e00ef60b3336fc8} dei casi, l’idrogeno si produce dal metano: 70 milioni di tonnellate all’anno, responsabili di 830 milioni di tonnellate di CO2, equivalenti alle emissioni cumulate di Regno Unito e Indonesia (dati dell’International Energy Agency). Così, anche se dall’idrogeno si ricava energia elettrica pulita grazie alla tecnologia delle celle a combustibile (fuel cell), per produrre l’idrogeno si inquina come un normale combustibile fossile. Se non di più.

Ma esiste anche un altro sistema di produzione: l’elettrolisi, che separa le molecole dell’acqua in ossigeno e idrogeno. In pratica, applicando una tensione elettrica è possibile “spezzare” le molecole di H2O. Un processo pulito (emette ossigeno) ma energivoro, che conviene solo nelle occasioni in cui ci sia molta energia a disposizione e poco fabbisogno.
È il caso tipico delle energie rinnovabili, la cui produzione non può essere gestita secondo le necessità. Lo chiamano «idrogeno rinnovabile», una definizione piuttosto discutibile, anche se sintetica: bisognerebbe forse dire «idrogeno ricavato dall’elettrolisi tramite energia rinnovabile».
È questa la chiave del crescente interesse verso l’idrogeno che, in pratica, risolve uno dei problemi più complicati che devono affrontare i gestori dell’energia, quello dell’accumulo stagionale di energia. La rete elettrica ha bisogno di pareggiare sempre domanda e offerta. Al contrario dell’energia prodotta dalle centrali termiche, l’energia rinnovabile prodotta, ad esempio, con l’eolico o il solare, non è gestibile ma è intermittente. Per cui l’energia prodotta deve essere immagazzina per essere disponibile nel momento preciso in cui serve.
Per lo storage a breve termine, come l’energia solare prodotta di giorno ma assente la notte, ci si può affidare alle batterie di ultima generazione.
Ma per le disparità stagionali, ad esempio per compensare la calma piatta estiva con il surplus di vento invernale, la questione diventa più complicata, perché i volumi richiesti sono più grandi ed i sistemi non devono scaricarsi nel tempo, come capita alle batterie. La soluzione più pulita è trasformare l’elettricità in eccesso in idrogeno, poi stoccabile in serbatoi, per riconvertirlo in elettricità da fuel cell o da turbina quando serve. In questo modo l’idrogeno diventa un carburante green prodotto in modo green. In prima linea su questa strada ci sono i Paesi del Nord Europa, dove l’energia da idroelettrico o da eolico supera di gran lunga la domanda e talvolta si butta via. Esistono da anni impianti dove si utilizza l’energia eolica in eccesso per estrarre idrogeno dall’acqua e immetterlo nella rete come arricchimento del metano. In questo modo la rete del gas è utilizzata come buffer per la produzione elettrica incostante delle fonti rinnovabili, al posto delle batterie al litio. Impianti di questo tipo sono in costruzione anche in Italia dove importanti gestori dell’energia come la SNAM alimentano con gas naturale arricchito di “idrogeno rinnovabile” due imprese industriali nel salernitano al fine di ridurre le emissioni inquinanti. Ancora. Nelle isole Orcadi, a Nord della Scozia, esiste un impianto che produce idrogeno utilizzando l’energia ricavata dal movimento della marea. Grazie alla tecnologia delle celle a combustibile che permettono di ottenere energia elettrica dall’idrogeno, già ora gran parte di questo idrogeno è utilizzato per generare l’elettricità che alimenta le navi attraccate. Ma il futuro è più ambizioso: utilizzare quell’idrogeno in modo ancora più efficiente, alimentando direttamente i motori elettrici dei nove traghetti che collegano le 20 isole abitate.

Idrogeno e mobilità
Eccoci dunque a un altro importante settore di utilizzo dell’idrogeno, quello dei trasporti. Anche qui c’è molto fermento. Basta dare uno sguardo al mondo dell’auto dove le maggiori case produttrici, dopo aver continuato a investire e lavorare per anni sulle fuel cell, stanno oggi promuovendo questa tecnologia con nuovi modelli a idrogeno. Ma le auto sono solo una parte del panorama del trasporto a idrogeno. Già dalla scorsa estate sulla rete ferroviaria tedesca circolano due treni ad idrogeno, destinati a soppiantare le locomotive Diesel. Una soluzione interessante anche per l’Italia, dove oltre il 30{2e3577d2bd6aebaa150c85c33fcd353783f1aa6c690283591e00ef60b3336fc8} della rete ferroviaria non è elettrificato. Anche sulle strade di Londra da oltre un anno circolano dei nuovi bus pubblici, sempre a idrogeno. Ma c’è di più: in Svezia, a Mariestad per la precisione, dallo scorso anno è entrata in funzione la prima stazione di rifornimento di idrogeno solare al mondo che autoproduce localmente tutto l’idrogeno che viene poi erogato alle autovetture che fanno rifornimento … di idrogeno, ovviamente. A breve anche in Italia, a San Donato Milanese, aprirà la prima di una serie di stazioni di rifornimento per auto ad idrogeno grazie a un accordo tra Eni e Toyota. E nel settore marittimo? Anche qui questa tecnologia sta trovando sempre maggiore spazio. Già sono state realizzati i primi battelli per trasporto passeggeri destinati alle acque interne. Ad esempio, a Venezia già ne naviga uno. Ma si stanno progettando e costruendo anche grandi unità anche per il mare aperto. In Norvegia, la società di navigazione Norled ha commissionato la costruzione del primo traghetto al mondo con propulsione idrogeno-elettrica che sarà in grado di portare fino a 299 passeggeri e 80 automobili. Dovrebbe essere pronto entro il prossimo anno.

I problemi dello stoccaggio
Della produzione dell’idrogeno e dei problemi connessi ne abbiamo parlato: che essa dipenda da idrocarburi e combustibili fossili (il cosiddetto idrogeno grigio con tutte le implicazioni di tipo ambientale connesse) o da energie rinnovabili tramite elettrolisi (il cosiddetto idrogeno verde), si presenta comunque in modo complesso pur non comportrando, oggi, particolari criticità tecnologiche. Diverso il discorso per quel che riguarda lo stoccaggio e la distribuzione dell’idrogeno prodotto. Qui le criticità tecnologiche, che conseguentemente impattano sulla sostenibilità economica dell’utilizzo dell’idrogeno, sono ancora importanti. Allo stesso tempo è proprio in questo settore che si concentrano studi e sperimentazioni estremamente interessanti. Ma andiamo con ordine.

Gli idrocarburi tradizionali sono solitamente immagazzinati dove è previsto il loro utilizzo: nei serbatoi di benzina, gasolio e GPL il carburante è contenuto allo stato liquido; nei serbatoi di propano e metano, allo stato gassoso.
L’idrogeno, invece, risulta molto costoso da stoccare e/o trasportare con le attuali tecnologie. Il suo stoccaggio o immagazzinamento per un successivo utilizzo è infatti condizionato dalle sue caratteristiche chimico-fisiche, caratterizzate da una elevata densità di energia per unità di massa, ma scarsa densità energetica volumetrica rispetto agli idrocarburi. Significa che, rispetto alla benzina o al gasolio, per avere lo stesso contenuto energetico i serbatoi devono essere più grandi. E, quindi, anche più pesanti.

Facciamo qualche esempio. A temperatura e pressione ambiente, l’idrogeno puro è un gas con una densità scarsissima: se da una parte un chilo di idrogeno sviluppa tre volte l’energia di un chilo di benzina, dall’altra la benzina ha una densità superiore ai 710 kg/m3, mentre la densità dell’idrogeno è 0,09 kg/m3. Quasi diecimila volte più bassa. Una densità 8 volte più bassa anche rispetto al metano (densità di 0,72 kg/m3) per il quale lo stoccaggio in auto è già relativamente critico. È utile ricordare che proprio per questa sua proprietà, nei primi decenni del secolo scorso, l’idrogeno è stato utilizzato per riempire e far volare i dirigibili. Fino al tragico incidente del dirigibile Hindenburg che, il 6 maggio del 1937, prese fuoco e venne completamente distrutto nel giro di circa mezzo minuto, mentre cercava di attraccare al pilone di ormeggio della Stazione Aeronavale di Lakehurst nel New Jersey, causando la morte di 36 persone.
Questa tragedia, determinata anche da un’altra caratteristica dell’idrogeno – la sua alta infiammabilità – ebbe un impatto notevole sull’opinione pubblica di allora, contribuendo non poco alla fine dell’epopea di questi mezzi di trasporto e alimentando per decenni la “paura” dell’idrogeno.
Questo, insomma, per essere utilizzato, dovrà essere immagazzinato in modo tale da aumentarne considerevolmente la densità. Chi ha un minimo di nozioni di fisica sa che, per aumentare la densità di un gas, si può comprimerlo aumentando la pressione e facendone entrare una maggiore quantità nello stesso serbatoio. Oppure si diminuisce la temperatura, portando il gas a liquefazione: una soluzione che determina una elevata densità volumetrica di energia. Non a caso è il sistema utilizzato per mandare in orbita lo Space Shuttle. In entrambi i casi, però, sia la compressione sia la liquefazione sono operazioni che comportano tanto spreco di energia. Senza parlare dei problemi connessi alla conservazione dell’idrogeno ad alta pressione o liquefatto: nel primo caso sono necessarie bombole capaci di sopportare pressioni di esercizio nell’ordine dei 700 bar. Per dare un’idea, gli attuali serbatoi di metano per autotrazione, realizzati in lamiera d’acciaio, hanno pressioni di esercizio pari a 220 bar e, con una capacità di 85 litri – che equivalgono a circa 14-15 kg di metano immagazzinati – pesano quasi un quintale. Nel caso dell’idrogeno liquefatto il problema è quello di mantenere il gas a una temperatura inferiore a -253 °C. Oltre questa temperatura l’idrogeno, infatti, evapora.
Ma parliamo di una temperatura appena 20° C sopra il cosiddetto “zero assoluto”, il limite minimo di temperatura raggiungibile in natura, al disotto del quale ogni atomo, in pratica, “congelerebbe”. È facilmente intuibile che conservare l’idrogeno a temperature di quest’ordine, dette criogeniche, non è un gioco da ragazzi.

Senza entrare in dettagli per addetti ai lavori, basti sapere che si utilizzano bombole non molto diverse da un thermos, con due serbatoi separati da una camera d’aria, magari rarefatta o, addirittura, sottovuoto. Ma non basta. È necessario sistemare all’interno di queste bombole degli impianti che continuamente sottraggano calore all’idrogeno per mantenerlo a quelle temperature bassissime che garantiscono lo stato liquido (in pratica dei potenti frigoriferi). Quindi impianti complicati e delicati che assorbono molta energia.
Oltre ai problemi di natura tecnologica, la necessità di comprimere l’idrogeno per il suo stoccaggio ha determinato anche una diffusa paura circa la pericolosità, alimentata tutt’oggi dal ricordo della tragedia dell’Hindenburg, nonostante che siano passati quasi 100 anni e che oggi le cose siano molto diverse. È infatti provato che una automobile alimentata a GPL o a metano, con il suo bel bombolone ad alta pressione, in caso di incidente è molto più sicura di un’auto con un serbatoio di benzina. Ma esiste anche una terza via per immagazzinare l’idrogeno, derivata dalla sua capacità di legarsi con altre sostanze.
Stoccaggio per assorbimento in altri materiali
Oggi si stanno mettendo a punto nuove tecnologie che puntano sulla capacità dell’idrogeno di legarsi con altre sostanze, liquide o solide. Parliamo di idruri metallici o chimici, nano tubi e nano fibre in carbonio, microsfere di cristallo, olii organici o sintetici. E chissà quanti altri sistemi sono allo studio. Sì, perché è proprio in questi ambiti che ci si aspetta novità importanti, capaci di essere un punto di svolta per l’uso dell’idrogeno a bordo dei mezzi di trasporto, in particolare quelli navali che non hanno la possibilità di far rifornimento con la frequenza di un’automobile ma dovranno, invece, stoccare a bordo grandi quantità di idrogeno.

Facciamo qualche esempio. Per quanto riguarda la nautica esiste una realtà tutta italiana che ha sviluppato un sistema che mette insieme diversi impianti e diverse tecnologie per utilizzare in modo realistico l’idrogeno, fino a rendere una barca energeticamente autosufficiente. Parliamo di h2boat, una start-up innovativa e spin-off dell’Università di Genova che ha messo a punto il sistema Energy Pack per le barche da diporto e un sistema di integrazione dei sistemi fuel cells per gli yacht più grandi, le cosiddette navi da diporto. L’Energy Pack di h2boat (che, per inciso, sta per hydrogen to boat) è un sistema nel quale diverse tecnologie, esistenti e collaudate, sono integrate in modo efficiente in un unico prodotto e adattate all’utilizzo in barca.
Parliamo di celle a combustibile, di elettrolizzatore, del sistema di stoccaggio agli idruri metallici. Quest’ultimo è costituito da bombole piene di polvere metallica che assorbe l’idrogeno negli interstizi metallici e lo trattiene in modo sicuro ed efficiente (basse temperature e basse pressioni). Per le barche a vela il sistema è particolarmente vantaggioso, sia perché una barca a vela notoriamente consuma meno energia sia perché gli ingegneri di h2boat hanno avuto un’altra idea vincente che fa diventare quello che generalmente è un problema – lo stoccaggio, appunto – in un vantaggio: il pesante bulbo diventa un serbatoio di idrogeno grazie gli idruri metallici che sono posizionati al suo interno, mentre la deriva contiene tutte le connessioni necessarie per il loro funzionamento.



Una soluzione brevettata che permette non solo di non occupare spazio prezioso a bordo ma trasforma in peso “utile” le centinaia di chili che una barca a vela si porta dietro per avere sufficiente coppia raddrizzante. Integrando il sistema con fonti di energia rinnovabili a bordo (fotovoltaico, generatori eolici e idrogeneratori) è poi realmente possibile perseguire l’obiettivo di una barca energeticamente autosufficiente senza però rinunciare a tutti quei comfort “elettrici” minimi a cui oggi è difficile rinunciare.
Il sistema, però, non è limitato alle barche a vela.
Variando semplicemente le dimensioni dell’impianto in funzione delle necessità dell’utilizzatore e degli spazi disponibili a bordo, con l’Energy Pack è possibile produrre energia per i servizi ausiliari di natanti, imbarcazioni e navi (potenze da 5 a 60 kW), nonché per fornire la potenza sufficiente a garantire una propulsione ausiliaria per gli yacht non troppo grandi. E, per fare il pieno di idrogeno bastano alcune ore in banchina per permettere all’elettrolizzatore di produrne la quantità necessaria. A meno di avere un distributore di idrogeno in porto … ma qui siamo ancora nella fantascienza.

Un altro sistema innovativo per stoccare l’idrogeno a bordo si basa su i cosiddetti olii organici che, grazie alle loro caratteristiche fisico-chimiche, permettono di utilizzare gli impianti di distribuzione e stoccaggio esistenti per i normali carburanti fossili. Parliamo dei Liquid Organic Hydrogen Carriers (LOHC), una miscela liquida di idrogeno e metalli dove è possibile immagazzinare chimicamente l’idrogeno stesso, in sicurezza ma con elevate densità di stoccaggio e in condizioni ambientali. In pratica, l’LOHC può assordire e rilasciare l’idrogeno con delle opportune operazioni e macchinari.
Il prodotto è un olio minerale con caratteristiche fisico-chimiche simili a quelle del Diesel, tra cui la bassa infiammabilità, per la quale è possibile utilizzare la normale rete di distribuzione di bordo e gli stessi serbatoi. Dallo studio eseguito dal neo ingegnere Lorenzo Lippi per la sua tesi di laurea, che ha avuto per argomento “New Era – Sviluppo tecnologico di uno yacht ad idrogeno di 50 metri”, anche in termini di volumi imbarcati, la quantità di miscela LOHC necessaria a bordo risulta pressochè la stessa del gasolio previsto per lo yacht originario.

La miscela LOHC può essere imbarcata già idrogenata (arricchita di idrogeno) direttamente dalla rete di terra (ovviamente quando sarà disponibile) oppure a bordo grazie a un elettrolizzatore che produce idrogeno dall’acqua marina dissalata utilizzando l’energia elettrica fornita dalla banchina o dalle fonti rinnovabili di bordo. Quando serve energia elettrica è possibile estrarre l’idrogeno dall’LOHC (deidrogenazione) e utilizzarlo per le fuel cell che produrranno energia elettrica per le esigenze di bordo, la propulsione e l’hotel. Ovviamente saranno sempre necessari pacchi batterie per far fronte ai picchi di richieste di energia.
Conclusioni
Da questa pur breve, sommaria panoramica, dovrebbe essere chiaro che l’idrogeno rappresenta il futuro energetico del mondo anche in chiave green.
È tuttavia altrettanto evidente che la strada è ancora lunga poichè i problemi da affrontare e risolvere sono innumerevoli prima che la visione di Jules Verne diventi realtà. Ma è solo questione di tempo.
Energy Observer
Molti sono coloro i quali hanno sognato e predetto la rivoluzione che l’idrogeno sta originando. In particolare, il team di Energy Observer, progetto ideato dall’istituto di ricerca Cea-Liten, insieme alla Fondazione dell’ambientalista francese Nicolas Hulot e l’Unesco, che ha costruito una barca unica al mondo, alimentata esclusivamente con energie rinnovabili e idrogeno che sta facendo il giro del mondo.

Un catamarano di 31 metri di lunghezza per 12,80 di larghezza per sensibilizzare il grande pubblico sul tema della sostenibilità ambientale e del cambiamento climatico.
Partito nel 2017, in 6 anni toccherà 50 Paesi e 101 porti contando esclusivamente sull’energia del sole (attraverso una superficie di 130 metri quadrati di pannelli solari), del vento (grazie a due pale eoliche verticali) e del mare (sfruttando un sistema per dissalare l’acqua e produrre idrogeno tramite elettrolisi). Una volta dissalata mediante un processo di osmosi inversa, l’acqua viene scomposta in idrogeno e ossigeno attraverso un elettrolizzatore.
L’ossigeno viene rilasciato nell’aria, mentre l’idrogeno viene immagazzinato ad alta pressione (350 bar), in serbatoi da 62 kg (per dare un’idea delle proporzioni, con 1 kg di idrogeno si percorrono 100 km in auto). L’idrogeno alimenta pile a combustibile che producono calore, da riutilizzare nel catamarano, ed energia per i due motori elettrici di propulsione.
Un grande esperimento per dimostrare che, con l’idrogeno, è possibile avere una barca a impatto zero al 100{2e3577d2bd6aebaa150c85c33fcd353783f1aa6c690283591e00ef60b3336fc8}, nel senso che, oltre a non emettere inquinanti, l’energia utilizzata è pulita e rinnovabile perché proviene esclusivamente dal sole, dal vento e dal mare.
Una barca che, nell’estate dello scorso anno, è stata la prima nave al mondo alimentata da energia rinnovabile e idrogeno a raggiungere il circolo polare artico.
Certo, Energy Observer è un’unità parecchio strana, un esperimento, ma sta dimostrando che una barca a idrogeno è possibile.<p style=”text-align: center;”></p>


