Evoluzione della specie: da conducente a comandante
Governare un’imbarcazione è alla portata di molti. Ma essere buoni comandanti è tutta un’altra faccenda: competenza, esperienza, sensibilità, tatto, equilibrio, intelligenza non sono in vendita.
Oltre duemila anni fa, nelle sue Sententiae, il drammaturgo romano Publilio Siro affermava: “Comandando male si perde l’autorità a comandare”. Frase semplice, nella quale si chiarisce in modo inequivocabile il principio sul quale dovrebbe basarsi qualsiasi tipo di gerarchia.
La letteratura marinaresca è ricca di esempi che ne seguono puntualmente il solco. Primo fra tutti, quello del capitano inglese William Bligh che, proprio per la sua incapacità di comandare, perse la sua autorità a bordo del Bounty, scatenando il più celebre ammutinamento della storia.
E pensare che si trattava di un eccellente marinaio, come dimostrò portando in salvo sé stesso e i suoi pochi fedeli sulla modestissima scialuppa che gli fu concessa dal capo ribelle Fletcher Christian. L’opposto di Cristoforo Colombo che, invece, proprio grazie al suo eccezionale carisma e alla sua profonda autorevolezza, riuscì a evitare la rivolta dei suoi marinai nell’estenuante viaggio verso il Nuovo Mondo. Due esempi opposti ed estremi che, studiati approfonditamente, mettono in luce quei fenomeni microsociali e percettivi che si generano tra l’individuo-comandante e il suo equipaggio.
Mai come al volante di un’automobile
Nella nautica, il termine “comandante” viene utilizzato soprattutto nell’ambito degli equipaggi professionali imbarcati sulle unità di una certa consistenza, mentre nel più ampio mondo delle imbarcazioni condotte dagli stessi armatori – e ancor più specificamente nel mondo della vela – si preferisce usare il termine, di origine olandese, skipper. Preferenze gergali a parte, lo scarso ricorso al nostro lemma favorisce l’equivoco in base al quale il ruolo corrispondente viene normalmente confuso con quello di un qualsiasi automobilista. E a ciò contribuisce l’uso del termine “patente” per definire sia il documento che abilita al comando di un’unità da diporto sia quello necessario a condurre la propria utilitaria.
Le differenze, invece, sono tante e profonde. La prima, apparentemente più burocratica, ma che invece introduce perfettamente alla vastità della materia, è che la patente automobilistica è il documento che costituisce la condizione necessaria e irrinunciabile per la condotta del mezzo stradale, mentre l’abilitazione al comando assegna al suo titolare la responsabilità della navigazione nel senso più ampio ed esteso e, perciò, gli attribuisce pure il diritto di delegare la condotta dell’unità (intesa come attività meramente pratica) a qualsiasi altro elemento del suo equipaggio (anche non patentato), assumendosene, ovviamente, tutte le responsabilità. Per essere ancora più concisi: chi siede ai comandi di un’automobile deve essere in possesso della patente di guida; chi sta al timone di una barca no, se a bordo c’è un responsabile regolarmente abilitato che lo ha delegato a tale compito.
Senza troppo addentrarci nei meandri tecnico-giuridici della questione (che sono comunque assai importanti e che, perciò, seppure in maniera molto agile, affrontiamo in un riquadro a parte), dovrebbe già essere sufficientemente chiaro che le implicazioni di questa sostanziale differenza sono molteplici. Tuttavia, quelle che ci stanno più a cuore sono quelle umane e morali, che nessun manuale di diritto è in grado di spiegare con la dovuta profondità.
Alla guida di un microcosmo
Restiamo ancora nel paragone automobilistico e immaginiamo una comoda gran turismo in viaggio da Roma a Milano, con quattro persone a bordo. Nell’arco di tutto il tragitto, le normali necessità personali – lo spuntino, il caffè, la puntatina alla toilette – sono sostanzialmente poche e facilmente gestibili dai diretti interessati: a richiesta, il conducente deve soltanto entrare nella prima area di servizio e il gioco è fatto. Persino in caso di emergenza, la situazione non presenta grossi problemi: chiunque, tra i passeggeri, può chiamare con il suo telefonino il soccorso stradale e farsi raggiungere da un carro attrezzi. Tutti, insomma, conducente e passeggeri, si muovono nell’ambiente con una certa disinvoltura.
Immaginiamo ora una barca a vela in navigazione da Punta Ala a Trapani, con quelle stesse quattro persone a bordo. A meno che non si tratti di un collaudato equipaggio (circostanza alquanto rara), il percorso sarà costellato da una continua serie di problemi, alla soluzione dei quali sarà immancabilmente chiamato il comandante.
Per ciascun caso non basterà mettere la freccia e imboccare la prima area di servizio; né il singolo passeggero potrà chiamare un taxi per farsi portare a casa.
Tutti, a bordo, si renderanno conto rapidamente che la barca sulla quale si trovano è un vero e proprio microcosmo con il quale hanno poca dimestichezza. Per dire la cosa più elementare: nella toilette dell’autogrill, lo sciacquone parte automaticamente; qui, possono esserci da azionare pulsanti e levette in precisa sequenza. A chi chiedere informazioni e aiuto, se non allo skipper? Non è forse lui che, nell’immaginario collettivo, può persino celebrare matrimoni?
La trappola delle competenze
Quando, nell’ambito di un gruppo, un insieme di nozioni e conoscenze ritenute fondamentali è posseduto da un’unica persona, è naturale che ad essa si guardi sì con particolare rispetto, ma anche con un certo distacco. Perciò, capita di osservare come il comandante sia, in un certo senso, un personaggio isolato.
La dinamica è semplice: lui è uno; gli ospiti o l’equipaggio sono un gruppo. L’osservazione implica di per sé stessa l’idea dell’isolamento. Ma il motivo per cui esso non può e non deve essere colto nel suo valore negativo è insito nel fatto che, per questo tipo di comandante, la nautica da diporto è prima di tutto un hobby, cioè un’attività scelta in maniera autonoma e profondamente personale.
Insomma, il bravo skipper, così come il collezionista di francobolli, il modellista, il floricoltore, è un individuo che sta bene con sé stesso. L’unico rischio è che questa sua dolce solitudine possa consentire agli altri di farne un capro espiatorio, ovvero un raccoglitore di tutte le tensioni. Ma da che cosa può prendere avvio una tale dinamica? Anche in questo caso la risposta è semplice: tutto nasce dal fatto che egli è ciò che si definisce un “capo imposto” e, quindi, non eletto. Perciò, se egli vuole intrattenere rapporti chiari e cordiali con il suo equipaggio, deve fare in modo che esso, nel suo complesso, gli riconosca il merito del ruolo.
Autorità e autoritarismo
Nel suo libro “Psychology of Sailing”, il professor Michael Stadler, docente di psicologia sperimentale presso l’università di Brema, traccia un interessante ritratto del comandante attraverso quelle che definisce come le sue virtù ideali: aderisce alle regole del gruppo; partecipa attivamente alle attività di bordo; prende le sue decisioni discutendole in anticipo con gli altri; spiega le ragioni che determinano una scelta; lascia a ciascuno un margine di autonomia e libertà d’azione; non si pone sempre e necessariamente in prima persona per risolvere qualsiasi problema; offre a tutti l’opportunità di imparare e sviluppare le proprie inclinazioni, abilità e capacità; dà ordini chiari e comprensibili, indirizzandoli a una o più persone specifiche; evita le istruzioni multiple.
Questo comportamento – che genera autorevolezza – si sviluppa sulla base di un insieme di elementi caratteriali sui quali, a sua volta, è intessuta una specifica cultura o una particolare destrezza. Il tutto guidato da una sana autocoscienza che permette di non valicare mai i confini della semplice consapevolezza.
È interessante notare che questa autorevolezza possiede anche un suo codice non-verbale, che viene trasmesso in modo naturale dal corpo e che, nello stesso modo, viene recepito dal prossimo. Qualcuno la definisce, suggestivamente, una questione di pelle. È importante che lo skipper ne sia consapevole per ragionamento autonomo: se così non fosse, egli cercherebbe una continua conferma nell’altrui approvazione. Intendiamoci, l’approvazione non è di per sé un fattore negativo: a tutti piace ricevere i complimenti per essere riusciti a compiere perfettamente una manovra difficile.
Il problema nasce piuttosto quando il semplice piacere si trasforma in necessità. Allora, infatti, non si ammette neppure lontanamente il contrario, cioè l’eventualità di essere disapprovati. Ma questa è la negazione stessa della vita: non può che scaturirne una continua frustrazione o, peggio, un vero e proprio autorifiuto. Infatti, la preoccupazione di non essere condivisi, fa sì che il singolo individuo modifichi continuamente le sue idee o le sue decisioni, privilegiando in maniera totale le opinioni degli altri.
Questo conferire, in definitiva, maggiore importanza al prossimo piuttosto che a sé stessi può indurre la persona a comportarsi secondo modelli che, di fatto, le sono estranei. Nasce così l’imitazione di quei personaggi o persone che essa ha eletto a suoi eroi.
In questo comportamento c’è un’implicazione che ci interessa particolarmente, poiché va a delineare uno dei difetti più odiosi che uno skipper possa manifestare. Ce la suggerisce lo psicologo americano Wayne Dyer, quando afferma che il culto degli eroi è soltanto uno dei due opposti estremi di un modo di agire condizionato dall’esterno. L’altro estremo è costituito dal biasimo, cioè dall’attribuire colpe ad altri, per non volersi assumere le proprie responsabilità.
Confidiamo nel fatto che ciascuno di noi abbia assistito almeno a un episodio basato su questa dinamica, magari in quel grande teatro all’aperto che è un qualsiasi porto turistico durante la stagione estiva.
Il finto perfetto
Le due situazioni che scatenano maggiormente l’ira dello skipper sprovveduto sono rappresentate dalle manovre di ancoraggio e di attracco, durante le quali egli si sente osservato e giudicato. L’azione diventa il suo show personale: la sua voce cresce di volume e si fa secca di tono; le sue braccia mirano platealmente a un’infinità di cose; tutto il suo corpo è rigido.
Quella che lui considera come la sua “ciurmaglia” ha un atteggiamento tutt’altro che positivo. E non potrebbe essere altrimenti, visto che ciascuno è preoccupato più a non sbagliare, per non peggiorare lo stato emotivo di quella specie di capitan Uncino, che non a fare le cose per bene, cioè con calma.
L’ira è sempre un fallimento. Dal punto di vista fisiologico è causa di ipertensione, tachicardia, insonnia e spossatezza; dal punto di vista psicologico deprime la comunicativa e ingenera il senso di colpa.
L’unico risultato che ci si prefigge, ogniqualvolta si ricorre ad essa, è quello di ottenere che qualcuno rinunci ad essere come vuole. Quando qualcuno fa qualcosa di diverso da quello che ci aspettavamo, siamo soliti considerarlo come un errore e ne ricaviamo un senso di frustrazione. Quindi, analizzate le varie possibilità di reazione nei confronti di quella persona (offerta o richiesta di spiegazioni, indifferenza, persuasione, disappunto), decidiamo per quella che sembra garantirci il risultato migliore e più immediato: l’ira, appunto.
Il primo passo per liberarsi da questa pessima abitudine è prendere coscienza del fatto che è possibile ricorrere ad altri comportamenti decisamente più positivi e meno dolorosi. D’altra parte, non c’è nulla di più bello e piacevole del vivere in modo non conflittuale. E che spettacolo edificante è quello che ci viene offerto da chi si comporta con serenità, anche nei momenti difficili.
Alcune volte, per esempio, capita di compiacersi per la tranquillità con la quale un equipaggio porta il suo yacht all’ormeggio: magari non sarà una manovra da manuale, ma tutto si svolge con serenità e allegria. Sta proprio nell’abilità dello skipper determinare una situazione nella quale il grado di capacità tecnica di ogni singolo componente dell’equipaggio ha un valore sostanzialmente marginale rispetto all’entusiasmo che ne caratterizza l’azione.
Come sempre, è una questione di punti di vista: c’è chi crede che le cose debbano essere sempre fatte in modo perfetto; chi, invece, pensa semplicemente che debbano essere fatte.
Non si tratta di una sfumatura: nel primo caso si nascondono la nevrosi del successo e la paura del fallimento; nell’altro si ammette la libertà di sbagliare.
Il programmatore
Tracciare una rotta sul plotter e seguirla con una certa puntualità è un’ottima cosa. Tuttavia alcuni skipper fanno molto di più: ritengono di poter aggirare ogni genere di imprevisto, dedicandosi a una rigida pianificazione che si estenda fin nei minimi dettagli. Essi, cioè, intendono davvero impedire il verificarsi di qualsiasi sorpresa, sfruttando quella che considerano una loro peculiarità esclusiva: il saper prevedere ogni cosa.
Non meraviglia, quindi, che questi soggetti non ammettano alcuna forma di improvvisazione, in quanto, inevitabilmente, essa manderebbe in “tilt” tutto il loro sistema.
Il limite del lecito viene superato quando lo skipper attribuisce al suo programma un valore superiore rispetto a quello della fantasia. Poco male se si tratta di un solitario. Ma se a bordo ci sono altre persone, queste sono sicuramente destinate a diventare vittime di un sistema perverso, in quanto non rivolto al raggiungimento di una meta comune, bensì atto unicamente a soddisfare la fame di sicurezza di un solo individuo.
Ecco scoperta la vera natura del nostro skipper super-programmatore: un uomo che non si fida di nessuno e, tanto meno, di sé stesso. Per questo motivo, ogniqualvolta egli si trova al di fuori dei rigidi schemi che si è costruito, si scatena la sua nevrosi. Non a caso, egli non tollera che qualcuno metta in discussione le sue regole, poiché, ai suoi occhi, questa è una minaccia per la sua sicurezza.
L’indeciso
Diversamente dallo skipper programmatore, l’indeciso è un tipo che sembra non possedere alcuna regola alla quale appellarsi. Ma anche se ne avesse, la situazione non cambierebbe, poiché l’indecisione non è un fatto mnemonico: è, piuttosto, l’espressione di una profonda angoscia.
Quando un individuo è condizionato dal desiderio di essere sempre nel giusto, tende a rimandare qualsiasi scelta per non correre il rischio di sbagliare.
Nella sua mente, infatti, l’errore è un evento imperdonabile: causa di rammarico, se riferito a episodi passati, e contemporaneamente di angoscia, se proiettato in ipotesi future.
Tale dinamica spiega perché questo personaggio tenda, nei suoi ragionamenti, a ridurre radicalmente tutte le cose in definizioni inesatte e autodistruttive, quali “giusto o sbagliato”, “buono o cattivo”, “irrilevante o fondamentale”.
E questa incapacità di giudizio, che si esprime nella totale mancanza di mezzitoni e nel contraddittorio passaggio da un estremo all’altro, gli rende assai difficile coltivare buoni rapporti interpersonali, a bordo come sulla terraferma.
Durante la navigazione, l’indeciso tende continuamente a demandare agli altri il compito che gli è proprio. E tutte le volte pretende di giustificare il suo atteggiamento ricorrendo alla simulazione: in un’occasione pretenderà di farlo apparire come un disinteresse; in un’altra reciterà la parte dell’individuo stanco. Tuttavia, poiché non può demandare del tutto quella che è la sua specifica ed esclusiva funzione a bordo, questo genere di skipper finisce per sentirsi sempre più inadeguato, provocando nei suoi compagni un profondo senso di disorientamento e una crescente preoccupazione.
Il procrastinatore
Se il giorno previsto per la partenza c’è ancora da rimontare il frigo, da mettere sotto carica le batterie, da aggiustare la sirena, da gonfiare il tender, da sostituire l’olio del motore, da pagare l’assicurazione eccetera, allora vuol dire che lo skipper è senz’altro un perfetto procrastinatore.
Se gli si domanda “ma fino ad oggi che cosa hai fatto?” egli risponde con frasi evasive del tipo “ah, se sapessi…non puoi capire”.
Ovviamente, la verità è che è stato fatto davvero molto poco.
In una sua felice definizione, lo psicologo americano Donald Marquis afferma che la procrastinazione è “l’arte di stare al passo con lo ieri”. Chi ne è malato aggiorna continuamente la lista delle cose da fare, traendone una dolorosa angoscia: infatti non depenna le voci, ma le trasferisce da una pagina all’altra dell’agenda di bordo.
Questo atteggiamento rappresenta un’autentica fuga dal presente, che spesso si accompagna al caratteristico tratto nevrotico e che, quasi sempre, presenta due livelli di gravità. Il procrastinatore incallito giustifica la sua totale mancanza di azione affermando che non ha un briciolo di tempo a causa del sovraffollamento di impegni. Generalmente incarica altri di assolvere i suoi doveri e si riserva poi il diritto di criticare la qualità del lavoro svolto. Si tratta sempre di critiche manipolative, cioè non costruttive, tendenti a diminuire il valore degli altri per non sentirsi troppo al di sotto del loro livello.
Il procrastinatore parziale è invece quello che, dopo aver rimandato per un certo periodo di tempo, passa personalmente a un’azione frettolosa, imponendosi una scadenza troppo breve. In questo modo soddisfa la sua pigrizia e la sua approssimazione, attraverso un lavoro generalmente di pessima qualità ma che può essere presentato agli altri – e quindi giustificato – come risultato imposto dal troppo poco tempo a disposizione.
Una volta in mare, lo skipper procrastinatore può determinare a bordo uno dei peggiori stati d’animo: la noia.
La sua incapacità di impiegare il tempo, rimandando continuamente al domani, evitando di prendere decisioni, abbandonandosi alla sua inattività, può coinvolgere gli altri impedendo anche a loro di vivere il presente.
Una situazione tipica di questa condizione è riconoscibile quando, ormeggiati forzatamente in un determinato posto (in quanto c’è sempre un buon motivo per non prendere il largo), il personaggio in questione pronuncia frasi tipo “qui non c’è proprio niente da fare”, “stare in cabina mi deprime”, oppure, più smaccatamente, “avrei fatto meglio a restarmene in ufficio a lavorare”.
In casi come questi, la nostra piena solidarietà va all’ospite che decide di sbarcare anzitempo, dando un nuovo corso alla sua preziosa vacanza.
COMANDO E CONDOTTA
Il nuovo Codice della nautica da diporto non ha modificato le già conosciute prerogative del comandante di un’unità da diporto. E qui giova ricordare quelle che ci interessano nello specifico: il titolare dell’abilitazione al comando – detta anche patente – è il responsabile della navigazione (intesa come attività intellettuale) e, come tale, può assegnare il compito della condotta (intesa come attività meramente pratica) a qualsiasi altro elemento del suo equipaggio (anche non patentato), assumendosene tutte le responsabilità.
A questo punto, la differenza tra la patente nautica – che preferiamo continuare a chiamare “abilitazione al comando” – e la patente automobilistica è palese: nel caso delle quattro ruote, infatti, il documento costituisce la condizione necessaria e irrinunciabile per la condotta del mezzo. L’unica eccezione, che in qualche modo potrebbe suggerire una lontana analogia con il mondo del mare, è costituita dalla scuola-guida, laddove l’istruttore, pur non essendo fisicamente al volante ma sedendo necessariamente a fianco dell’allievo non patentato, assume “il comando” della vettura e, di conseguenza, le relative responsabilità.
Dunque, la frase “comando e condotta di un’unità da diporto”, per quanto possa essere criticabile sotto il profilo della inequivocabilità, deve essere intesa come la semplice definizione di uno stato di consuetudine, per il quale è frequente – ma non necessario, lo ribadiamo – che le due figure coincidano.
Nelle sedi più varie, si continua a discutere se questa particolarità del ruolo nautico (presa dal codice della navigazione) sia adeguata alle problematiche del diporto oppure se non costituisca una pericolosa concessione. Certo, quel che succede a bordo di una nave commerciale è ben diverso da quel che succede a bordo di un’imbarcazione da diporto: l’esperienza (poca o tanta che sia) di chi tiene la ruota del timone di un porta-container è comprovata da una speciale documentazione; nulla si sa, invece, del pur volenteroso amico non patentato che impugna temporaneamente il volante di un potente motoscafo.
Per questo motivo, la situazione è assai diversa sotto il profilo assicurativo. Cioè, in caso di incidente, la compagnia pagante si cautela accertando chi e con quali abilitazioni effettivamente si trovava ai comandi. Ecco perché, nelle situazioni più critiche e nelle manovre in porto, è sempre bene che il timone sia nelle mani responsabili e capaci del comandante.








