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Storie di mare: il prezzo dell’oceano

oceano

L’oceano, come immagine di immensità e di sfida aperta per chiunque abbia nelle vene un eccesso di acqua salata, ha visto e vede tutt’oggi innumerevoli protagonisti. Alcuni, però, hanno pagato cara la loro passione. 

Ci sono domande alle quali è difficile dare risposte; altre per le quali la prima risposta appare banale anche se poi tanto banale non è. Ad esempio, osservando come l’oceano sia ormai ben frequentato da velisti solitari, e come non tutti partano con la giusta preparazione e con i giusti mezzi, ma soprattutto dato che purtroppo molti partono ma qualcuno non torna, la domanda diventa: ma chi glielo fa fare? La risposta banale la conosciamo tutti, o almeno la conoscono quelli che provano l’irresistibile attrazione per quegli orizzonti di mare oltre i quali c’è solamente il mare.

Poche cose possono affascinare quanto l‘oceano, ma affrontarlo non è uno scherzo, e a volte non basta l’esperienza. Timothy Shaddock, nella foto con la sua Bella, forse non aveva tutte le carte in regola, ma ha avuto dalla sua un po’ di fortuna, molta resistenza e una fantastica compagna.

 

Quell’improvvisa sensazione, una volta lasciata alle spalle l’ultima linea di costa, di essere improvvisamente soli in una natura apparentemente amica, anche se queste splendide sensazioni che sconfinano nella più suggestiva introspezione appartengono alle brezze leggere che gonfiano di felicità le nostre vele, perché poi, quando il mare cambia umore, le onde si ingrossano, il vento ci costringe a ridurre tela e soprattutto fa volare in mare il cappellino che proteggeva la nostra pelata, ci si comincia a preoccupare. E se le cose peggiorano, mentre sottocoperta scoppia il caos e il mare comincia a prenderci a schiaffi, torna insidiosa la stessa domanda: ma chi me lo ha fatto fare?

 

Timothy Shaddock

 

Tutto questo, però, accade ai solitari per caso, perché poi ci sono quei solitari per vocazione, quelli capaci di dare del tu al mare e dominarne i capricci e le sfuriate, preparati ad ogni evenienza, con barche appositamente studiate e preparate per affrontare l’oceano sia quel che sia, quelli i cui nomi leggendari hanno lasciato tracce pesanti nella storia della vela diventando fonte di ispirazione e a volte di pericolosa emulazione. Però…però in mare c’è sempre un però, e se volete anche un tuttavia, nel senso che a volte l’oceano non guarda in faccia nessuno e se decide che qualcuno gli sta poco simpatico lo fa fuori senza farsi problemi.

Tanto che l’elenco dei solitari scomparsi in mare è purtroppo lungo e, se nella maggioranza dei casi si tratta di nomi del tutto sconosciuti, non mancano personaggi iconici che, nonostante la loro straordinaria preparazione e capacità, sia fisica che tecnica, hanno pagato caro il prezzo dell’oceano.

Le poche pagine concesse da una rivista ci costringono a limitare l’elenco di queste storie, ma per ricordare quanto il gran largo oceanico non faccia differenze, parleremo sia di grandi nomi sia di illustri sconosciuti, soprattutto di quelli che hanno lasciato aperti inquietanti enigmi, tutti comunque uniti da un destino per cui forse, dall’alto delle praterie celesti, continueranno a chiedersi: ma chi me lo ha fatto fare? Domanda sempre sensata quanto inutile, perché sappiamo tutti che poi alla fine se il mare chiama è peggio delle sirene di omerica memoria, e cedere è umano quanto affascinante.

Bella, il cane di Timothy Shaddock, ha conquistato l’equipaggio della tonnara che li ha salvati e che alla fine l’ha adottata.

 

E proprio per questo ci piace iniziare questo racconto con una storia recente che, nonostante il protagonista sia un illustre sconosciuto, ha recentemente guadagnato gli onori della cronaca ed è stata benedetta da un lieto fine. ’unico dubbio, dato che parliamo di solitari, è se Timothy Shaddock possa essere considerato un vero solitario, perché a dire il vero sul suo poco rassicurante catamarano non era in realtà solo, e se ha resistito alla fame, alla sete, e alla disperazione di certo molto deve alla sua fedele compagna: Bella, un meticcio dalla faccia simpatica, che ha condiviso con lui tanti momenti di felice navigazione, ma anche il dramma di una burrasca che ha messo fuori uso le attrezzature della barca, lasciando per fortuna a galla lo scafo.

 

Joshua Slocum e il suo Spray, la leggenda delle leggende, scomparso in mare all’età di 65 anni.

 

Sei zampe alla deriva


Anche Timothy Shaddock, nonostante i suoi 54 anni, aveva il sogno di navigare in solitario fra gli oceani del mondo, e aveva deciso di cominciare dal Pacifico, che spesso purtroppo tanto pacifico non è. Per altro, come traspare dalle sue dichiarazioni, non sembra avesse in merito grande esperienza, anche perché altrimenti avrebbe organizzato diversamente la sua esperienza. A partire dalla scelta della barca, un vecchio catamarano di 30 piedi acquistato in Messico dove, lui australiano, ha vissuto gli ultimi tre anni prima di partire verso la Polinesia. Lui e Bella, una meticcia randagia che aveva deciso di adottare e di portare con sé nella sua avventura. Partita da La Paz con meta la Polinesia francese distante più di 3.300 miglia, la barca ha navigato felicemente spinta dai venti e dalle correnti favorevoli finché una burrasca ha messo a dura prova le capacità di Timothy, quelle della sua barca e quelle di Bella.

Tutto sommato un’esperienza fortunata, dato che pur mettendo fuori uso tutte le attrezzature e l’equipaggiamento di bordo, dalla radio alla cambusa, dalle vele agli strumenti di navigazione, la burrasca ha lasciato a galla lo scafo. E qui comincia l’avventura, perché, perso nell’immensità dell’oceano, al di fuori delle rotte commerciali, Shaddock e Bella sono andati alla deriva per più di due mesi nutrendosi di qualche pesce pescato di fortuna e bevendo acqua piovana. Un forzato test di sopravvivenza dove, come ammesso da Timothy, la compagnia di Bella è stata fondamentale per vincere la solitudine e la disperazione.

Il felice finale della storia si chiama Andrès Zamorano, il pilota dell’elicottero di una tonnara volante che lo scorso 12 luglio, sorvolando la zona alla ricerca di banchi di tonni, ha avvistato il catamarano (a 2.200 miglia dalla costa più vicina) e chiamato in soccorso la sua nave di riferimento. Shaddock e Bella sono stati recuperati in discreto stato di salute, ma una volta a terra Timothy non se l’è sentita di far patire a Bella il lungo viaggio di ritorno (senza contare le difficoltà delle severe leggi australiane sull’immigrazione di animali), e ha preferito lasciarla all’equipaggio della tonnara che aveva già dimostrato di adorarla. L’unica perplessità di Bella, immaginiamo, dev’essere stata: “Sono due mesi che mangio pesce e sono finita, ahimé, su una tonnara…ma su questa nave ci sarà pure un pezzetto di carne?”

 

Spray

 

Un incredibile marinaio


È uno dei grandi miti della vela anche se, per una questione puramente cronologica, dato che parliamo di fine ‘800, non possiamo sentircelo vicino più di tanto. Joshua Slocum era un calzolaio americano di origine canadese, ma a dargli fama imperitura più che le scarpe fu il fatto di essere stato il primo a circumnavigare il globo percorrendo 46.000 miglia da Est a Ovest in tre anni, due mesi, e due giorni (1895-1898), dopo aver vissuto avventure di tutti i tipi, dai pirati alle tempeste.

Se poi si pensa che la sua barca, lo Spray, era un vecchio sloop di 11,20 metri in disarmo, da lui stesso ricostruito nel 1894, non si può non ammirare ancor di più la sua impresa. Impresa che tuttavia all’epoca, data la concomitanza con la guerra ispano-americana, non ebbe grande eco in patria. Eppure Joshua fu sicuramente un grande marinaio, considerando quali erano all’epoca le possibilità di calcolare la rotta e prevedere il meteo, e senza dimenticare in tutto questo che… non sapeva nuotare.

Nel 1909 Slocum aveva 65 anni, ma l’età non gli aveva portato la necessaria saggezza, visto che, assetato di nuove avventure, dopo aver dedicato all’oceano le sue forze migliori, decise di esplorare l’Orinoco e il Rio delle Amazzoni. Non fu una decisione brillante. Slocum partì il 14 novembre dal porto di Vineyard Haven, nel Massachusetts, ma da quel giorno di lui e della sua barca non si seppe più nulla. Solo nel 1924 fu ufficialmente dichiarato morto, ovvero scomparso in mare.

 

Difficile immaginare un marinaio più marinaio di Eric Tabarly, che ha regalato alla vela le sue più belle pagine e che è rimasto sempre legato al suo Pen Duick. Beffardo l’oceano, che a chi l’aveva domato riservò un destino banale.

 

Forse il più grande


Eric Tabarly, il bretone d’acciaio, il mito dei miti, la divinità più alta della vela francese. Taciturno e un po’ ombroso ma sentimentale fino al punto di restare legato tutta la vita alla sua prima barca, per altro ereditata dal padre: il Pen Duick, su cui era salito la prima volta alla tenera età di sette anni. A Babbo Natale Eric non chiedeva il Meccano o il cavalluccio a dondolo, ma preferiva barchette a vela per cominciare a sognare quello che sarebbe stato il suo futuro, quello di un regatante che avrebbe vinto tutto quello che c’era da vincere nelle grandi competizioni oceaniche, fino a guadagnarsi la Legion D’Onore.

Forse amava più la vela che il mare e, se non fu in effetti un solitario come Moitessier, nel mondo della vela più che una scia ha lasciato una vera e propria autostrada a quattro corsie, senza tralasciare in forza alla sua grande esperienza anche una fase didattica.

Strano a volte il destino, e quasi una beffa della storia quella che nel 1998 vide Tabarly dirigere la prua del suo primo Pen Duick (in totale i Pen Duick furono sei) verso il cantiere che lo aveva progettato e varato nel 1898, quello di William Fife, per un grande raduno celebrativo del centenario del cantiere scozzese.

Tabarly
Pen Duick

Forse l’equipaggio a bordo non aveva grande esperienza, ma quel 12 giugno la navigazione al largo delle coste gallesi era tranquilla, e solo un destino beffardo ha voluto che durante una manovra per ridurre la randa, un’onda imprevista o forse una manovra errata del timoniere, fece finire in acqua Tabarly, per altro privo di salvagente. E forse proprio l’imperizia dell’equipaggio, oltre all’oscurità (erano circa le 22,30), non consentì di recuperare quello che era stato definito il “Miles Davis” della vela, il cui corpo fu ritrovato da un peschereccio bretone solo il 17 luglio, a 43 miglia dal punto in cui era caduto in mare. Oggi la sua comunque grande avventura velica è celebrata dalla Cité de la Voile, un centro polifunzionanle dedicato alla nautica, che i francesi hanno voluto dedicargli.

 

Ad Alain Colas, con Eric Tabarly, va la palma non solo per aver sfidato più volte l’oceano, ma anche per averlo fatto in solitario con la barca più incredibile che si possa immaginare.


Un sognatore sfortunato


Velista per caso, o quasi, Alain Colas era in primis un amante dell’avventura, viaggiatore e aspirante giornalista, nato a Clamecy Nièvre, in Borgogna, ma finito a soli 22 anni a fare il docente di letteratura francese a Sydney. Era sicuramente un sognatore e come detto un amante dell’avventura, ma responsabile del suo grande amore per la vela fu proprio Eric Tabarly, incontrato nel 1967 durante la Sydney-Hobart, e che poi seguì divenendo parte dell’equipaggio sul Pen Duick IV, barca che poi acquistò non senza difficoltà dallo stesso Tabarly.

Con questa barca, Colas guadagnò grande fama stabilendo nel 1972 il record della transatlantica in solitario da Plymouth a Newport (20 giorni, 13 ore, 13 minuti). Non mancarono poi altri successi velici, ma di certo grande celebrità gli venne dall’aver realizzato un quattro alberi a vela di 72 metri ad alta tecnologia, studiato per essere condotto in solitario nel corso della Transat del 1976. Un progetto reso possibile dall’importanza dello sponsor di cui inevitabilmente portava il nome: Club Mediterranée. La regata, a causa anche di una burrasca che mise in luce le difficoltà di condurre in solitario una simile nave, non fu un successo, e il Club Mediterranée fu poi venduto e ribattezzato Phocea.

 

Colas & Tabarly

Per prendere parte alla Route du Rhum del 1978, Colas tornò perciò al suo Pen Duick IV, il trimarano in alluminio di 20×10 metri ad alberi rotanti progettato da Tabarly e ribattezzato Manureva, con cui si ritrovava in grande sintonia. Non sappiamo se fu la barca a tradirlo quando, doppiando le Azzorre, incappò in una fortissima burrasca. “Sono nell’occhio del ciclone, non vedo neanche il cielo, intorno ho solo montagne d’acqua”, disse nel suo penultimo messaggio trasmesso il 16 novembre. Seguì un lungo silenzio radio, rotto il 3 dicembre quando alcuni radioamatori captarono un nuovo messaggio: “Qui Manureva, sono in difficoltà, chiedo assistenza”. Fu il suo ultimo segno di vita, e le ricerche protratte fino al 2 dicembre non dettero alcun esito.

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Dalla storia di Donald Crowhurst, che poco ebbe di eroico, sono stati tratti due film. La testardaggine di questo navigatore della domenica non bastò però a vincere l’incoscienza e l’improvvisazione che lo portarono alla sua misteriosa fine.


Quelli che la vela…


Se giustamente la scomparsa in mare di grandi nomi della vela ha guadagnato i titoli di testa sui grandi media, di quei tanti sconosciuti o quasi che hanno vissuto la stessa sorte poco sappiamo, se non per qualche caso particolare che accende ancor oggi la fantasia. Uno dei più singolari fu quello di Donald Crowhurst, un ingegnere elettronico inglese ma nato in India, che di vela sapeva poco ma che fu attratto dalla sfida oceanica, anche per motivi economici, senza forse rendersi conto di quello a cui sarebbe andato incontro. Così, nel 1968, si iscrisse alla Golden Globe Race, regata intorno al mondo in solitario a cui partecipavano altri otto concorrenti, uno più tosto dell’altro: per capirci, da Chay Blyth a Bernard Moitessier, da Robin Knox-Johnston al nostro Alex Carozzo. Sei di questi si ritirarono; uno, Nigel Tetley, affondò e fu salvato; l’unico che portò a termine la gara fu Knox-Johnston. Donald Crowhurst era partito senza neanche aver finito i lavori sulla sua barca, un trimarano di 12 metri: il Teignmouth Electron. Un’improvvisazione che generò presto una sequela di problemi, a cui Crowhurst cercava di volta in volta di porre rimedio, fino al punto di ammettere: “Questa barca può andar bene solo in piscina”.

Il catamarano di Donald Crowhurst

Oltre alla barca, tuttavia, a non star bene doveva essere anche il suo cervello, che cominciò col dare alla giuria false comunicazioni sulla sua posizione, dichiarando un’inesistente avaria alla strumentazione di bordo e percorrenze poco credibili che mettevano in crisi gli altri concorrenti, ma seguendo poi con messaggi farneticanti che chiamavano in causa diavoli e sirene.

Arrivò al punto di invertire la rotta e, anziché doppiare Capo Horn, iniziò a risalire la costa brasiliana, forse con l’idea di accodarsi furbescamente al gruppo dei partecipanti sulla via del ritorno, fino al suo ultimo appunto: “Non ho bisogno di prolungare il gioco. È finita. È la grazia”. Nessuno può dire con esattezza cosa sia successo, anche se l’ipotesi più plausibile è quella del suicidio, avvenuto probabilmente – stando alle note riportate sul suo libro di bordo – il primo luglio del 1969, perché l’Electron fu poi ritrovato nove giorni dopo in deriva al largo delle Bermuda e in ottimo stato.

Come detto, la regata fu vinta da Robin Knox-Johnston che poi donò il cospicuo premio messo in palio dal Sunday Times alla vedova di Crowhurst. Benché la storia del Teignmouth Electron e del suo improvvisato skipper non abbia niente di epico, questa folle avventura è stata immortalata in due film: “The Mercy”, del 2017, e “Il mistero di Donald C.” del 2018.

Il catamarano di Donald Crowhurst

Una storia incredibile


Di tutte le vittime dell’oceano poco è rimasto oltre il ricordo, anche se di qualcuno è stato recuperato in modo occasionale qualcosa di più. Perché c’è anche chi in mare è scomparso senza scomparire del tutto, come Manfred Fritz Bajorat, un nome sconosciuto ai più ma protagonista suo malgrado di un fatto più unico che raro: questo navigatore solitario tedesco, di cui si erano perse le tracce fin dal 2009, fu infatti ritrovato nel 2016…mummificato!
Bajorat non era un marinaio improvvisato e, all’età di 59 anni, aveva alle spalle migliaia di miglia in vari mari del mondo.

Conosceva quindi bene la navigazione oceanica ed aveva piena fiducia nella sua barca, il Sayo, uno Jeanneau Sun Magic 44’. La barca, già precedentemente incontrata per puro caso da un racer della Round the World Yacht Race che, dopo aver verificato la situazione e avvisato le autorità la lasciò al suo destino su loro stesse indicazioni, fu poi ritrovata da alcuni pescatori locali 40 miglia al largo delle coste occidentali delle Filippine.

Quando le autorità marittime di Barobo salirono a bordo, lo spettacolo che si presentò fu però assolutamente incredibile. A parte uno strato d’acqua che copriva il pagliolo, tutto era perfettamente in ordine, anche il corpo di Bajorat, seduto al tavolo da carteggio come se, stanco, si fosse appena addormentato. Per quanto ben conservato, Bajorat era indiscutibilmente morto, anzi per essere più precisi, mummificato.

Percorso Golden Globe

Se in base alla singolare posizione del corpo il medico legale ipotizzò un improvviso attacco di cuore, lo stato di conservazione dopo tanto tempo sembra essere dovuto a una serie di concomitanze, fra cui temperatura, umidità e salsedine. La macabra analisi di un anatomopatologo forense dell’Università di Tübingen descrisse nei dettagli il fenomeno: “In questi casi, dopo la morte, la pelle si ingiallisce e si indurisce diventando una sorta di cuoio che impedisce l’attacco di batteri e di insetti, innescando poi un processo di mummificazione. Lo strato grigiastro che ricopriva il corpo di Bajorat era semplicemente muffa”.

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