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Storia e tradizione: Un riconoscimento per la Vela al Terzo

Dopo una quarantina d’anni di dibattiti, di impegno e di lavoro, la Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio delle province di Ravenna, Forlì-Cesena e Rimini l’ha definita ufficialmente come un’espressione di identità culturale collettiva da salvaguardare.

vela al terzo

Il 13 maggio, nel Museo della Marineria di Cesenatico, la “pratica della vela al terzo” ha ricevuto un importante riconoscimento da parte della Soprintendenza. Ma che cos’è e come si definisce quest’attrezzatura velica? Essa prende nome dall’antenna a cui è inferita, che sporge verso prua solo per un terzo della sua lunghezza, a partire dall’albero. La vela, che spesso presenta anche un boma inferiore, ha quindi la forma di un trapezio. Nel complesso, rispetto a una latina di dimensioni equivalenti, la superfice velica è inferiore ma il centro velico risulta spostato verso poppa, il che ne facilita la manovra.

Questo tipo di attrezzatura viene generalmente considerato un’evoluzione, sviluppatasi nel corso del XVIII secolo, della vela latina, anche se in proposito il dibattito tra gli storici è ancora in corso. L’ipotesi più plausibile è che abbia avuto origine nell’ampia area delle lagune costiere che da Chioggia si estendono fino a Monfalcone.

vela al terzo

Qui, le imbarcazioni a vela latina si sarebbero trovate in contatto con quelle che navigavano nei fiumi della Pianura Padana e che potevano spingersi nell’interno fino a Mantova o Piacenza. Tali unità portavano solitamente un’arcaica attrezzatura di vela quadra e quindi la vela al terzo sarebbe il risultato di questa contaminazione. La sua diffusione primaria coincise, grosso modo, con l’alto e medio Adriatico, aree costiere caratterizzate da bassi fondali e da lunghi litorali sabbiosi.

Tuttavia, le distanze ridotte tra le due sponde dell’Adriatico fecero sì che molte unità con le vele al terzo fossero utilizzate anche lungo le coste rocciose e le mille isole della Dalmazia. I velieri di maggiori dimensioni, come i trabaccoli, svolgevano poi un’attività di cabotaggio che poteva estendersi fino alle coste del Tirreno e al Mediterraneo occidentale. Agli inizi del Novecento si ebbe poi una vera e propria “emigrazione di paranze” che si trasferirono stabilmente in Tirreno.

Già alla fine dell’Ottocento qualche pescatore di San Benedetto del Tronto vi si era avventurato, visto che lo specchio di mare tra la Corsica e la Toscana è sempre stato particolarmente pescoso, mentre i marinai viareggini, che pure erano degli ottimi marinai, non avevano sviluppato le potenzialità della pesca. Ma nel 1915, quando l’Adriatico divenne zona di guerra e le sue acque furono cosparse di campi minati, ci fu un vero esodo d’intere famiglie di pescatori e delle loro paranze.

Le imbarcazioni minori furono inviate a Livorno su vagoni ferroviari, mentre le paranze, cariche di masserizie e di averi di casa, fecero il periplo della Penisola per stabilirsi poi ad Anzio, Nettuno, Le Grazie e Bocca di Magra, dove fu allestita una sistemazione provvisoria, sotto tende di fortuna. Il nucleo più consistente di pescatori, tuttavia, finì per stabilirsi a Viareggio. Nell’ambiente della gente di mare, le loro capacità professionali furono ben presto apprezzate e così le vele al terzo dell’Adriatico si inserirono definitivamente anche nella tradizione marittima tirrenica.

Ancor oggi, la caratteristica più appariscente della vela al terzo è rappresentata dalle sue decorazioni: le vele sono colorate, utilizzando per lo più tinte calde, per dar vita a complessi apparati che potevano comprendere: fasce, scacchiere, strisce, stelle, figure mitologiche, oltre agli animali e gli oggetti più diversi.

La funzione era quella di poter distinguere, e individuare, una specifica imbarcazione da lontano. Ogni famiglia di pescatori componeva il suo disegno, dando vita a una specie di “araldica popolare”. Questa era conosciuta, e riconosciuta, da tutta la comunità, tanto che quando una ragazza sposava un pescatore la sua decorazione velica di famiglia poteva affiancare quella dello sposo.

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I principali protagonisti della conferenza stampa del 13 maggio. Da sinistra, la responsabile area patrimonio demoetnoantropologico della Soprintendenza, Romina Pirraglia; il direttore del Museo della Marineria, Davide Gnola; il sindaco di Cesenatico, Matteo Gozzoli; la soprintendente, Federica Gonzato.

Il rapporto identitario tra queste famiglie e le vele delle loro barche viene ancor oggi sottolineato in alcuni porti della Romagna, come Cervia e Cesenatico, dove il Comune ha provveduto a contrassegnare le vecchie case dei pescatori con targhe che riproducono il disegno delle vele di famiglia.

A partire dal primo dopoguerra, la motorizzazione delle flottiglie da pesca e da cabotaggio fece scomparire gran parte dei velieri dell’Adriatico. La sopravvivenza degli ultimi esemplari, a partire dagli anni Ottanta, fu dovuta alla riscoperta del valore culturale della tradizione velica da parte di associazioni che da allora organizzano regate, raduni e veleggiate di vele al terzo. Tra quelle più attive si può segnalare l’AVT (Associazione Vela al Terzo Venezia), che propone un ricco e affollato calendario di regate che si svolgono nell’affascinante ambiente della Laguna. Lungo i porti della costa romagnola, opera poi con successo la Mariegola delle Romagne, le cui flottiglie si muovono tra Cervia, Cesenatico, Bellaria, Rimini, Riccione e Cattolica.

Si può infine ricordare come la vela al terzo abbia segnato la storia dei tentativi di tutela del patrimonio marittimo del nostro Paese: nel 1998, il lancione Saviolina di Riccione fu infatti la prima imbarcazione che, grazie all’ISTIAEN (Istituto Italiano di Archeologia e Etnologia Navale) fu dichiarata “imbarcazione di particolare interesse artistico e storico” e quindi considerata meritevole di tutela da parte dell’allora Ministero dei Beni Culturali ed Ambientali,

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Il Museo della Marineria di Cesenatico

Non è un caso che il riconoscimento alla vela al terzo sia avvenuto nei locali del Museo della Marineria di Cesenatico, ma è il risultato tangibile di una quarantina d’anni di dibattiti, di impegno e di lavoro.

Risale infatti al 1977 il convegno “La marineria romagnola, l’uomo, l’ambiente” che pose le basi delle problematiche legate alla salvaguardia e alla valorizzazione della tradizione marittima della costa della Romagna e propose l’istituzione di un museo. Nelle parole di Lucio Gambi, uno dei più importanti geografi italiani, questo avrebbe dovuto diventare ”una scuola per un modo diverso di fare storia e va usato come un vivaio di cultura e di esperimenti. In sostanza, con un’istituzione del genere, noi dobbiamo riconquistare una dimensione che a noi sta sfuggendo; quella della profondità e della complessità degli spessori storici che formano la base della nostra società, e quindi della nostra realtà”.

Nel 1983 fu così costituita una prima “sezione galleggiante” del Museo della Marineria di Cesenatico. Si trattava di un’intera flotta di imbarcazioni, ormeggiata nella parte a monte del porto-canale che costituisce il cuore del centro storico. Ad oggi, costituisce l’unico esempio in Italia di presentazione al pubblico di barche tradizionali esposte in modo permanente nel loro elemento naturale. La loro scelta ha privilegiato le principali tipologie di barche da lavoro adriatiche armate con vele al terzo: tra queste si fanno notare il Giovanni Pascoli, un imponente trabaccolo da trasporto lungo 20 metri, e poi un trabaccolo da pesca, due bragozzi, una paranza, una lancia, un topo veneziano, una battana.

Da allora, le loro vele colorate hanno rappresentato il simbolo della tradizione marittima locale, così come un’importante attrattiva per l’immagine turistica di Cesenatico; per questo, sono mantenute a riva per tutta la durata della bella stagione e alcuni marinai sono incaricati di intervenire immediatamente, nel caso di improvvisi colpi di vento. Nel periodo natalizio, infine, sui ponti delle unità maggiori viene allestito un “Presepe della marineria”, costituito da figure in grandezza naturale che sono sapientemente valorizzate da fasci di luce. Nel corso degli anni, nonostante le difficoltà e i costi che presentava il mantenimento di una simile flottiglia, le unità in esposizione sono così cresciute, fino a diventare una decina.

vela al terzo

Nel 2005 fu poi finalmente inaugurata la “sezione a terra” del Museo della Marineria, che si affaccia sul porto-canale ed è costituita da una ricca collezione di reperti relativi alla storia marittima locale, oltre ad attrezzi di carpenteria e filmati d’epoca. Sotto la volta di un ampio salone, essa ospita poi diverse imbarcazioni, tra cui un trabaccolo e un bragozzo, muniti della loro attrezzatura velica. Nel corso degli anni, si è posto come un centro culturale dinamico, che ha incentivato l’organizzazione di convegni, dibattiti, collegamenti internazionali e feste del mare. Tra le diverse attività di formazione svolte, si possono ricordare i “Corsi di vela e navigazione tradizionale” che sono stati curati per molti anni dagli studiosi dell’ISTIAEN.

Una decina di anni fa, un ulteriore passo ha consolidato il rapporto del museo con la comunità marittima locale: Davide Gnola, direttore del Museo della Marineria, a seguito dei rapporti consolidati con diverse realtà museali del nord Europa, ebbe modo di conoscere il fenomeno dei “porti del patrimonio”, tra i quali il più conosciuto è Nyhavn di Copenaghen.

Questi riservano l’ormeggio nel cuore dei porti storici ai velieri tradizionali di proprietà privata, in modo da ricrearne un completo contesto storico. Gnola ottenne così che una parte della banchina del porto-canale davanti al Comune fosse riservata alle barche tradizionali dei privati.

Questa operazione voleva sottolineare che anche le più modeste unità da lavoro, che fino a quel momento venivano considerate dai loro armatori prive di particolare interesse e valore, ne avessero al contrario tanto da meritare una collocazione prestigiosa. Ne conseguì che molti proprietari restaurarono le loro vecchie imbarcazioni semi abbandonate, riattrezzandole con la vela al terzo originale.

Da allora, a cadenza biennale, queste unità vengono sottoposte a un’ispezione per controllare che rispettino sempre i parametri della tradizione e di un’attenta manutenzione. Il successo ottenuto è attestato dal fatto che queste imbarcazioni hanno ormai superato il numero di trenta unità, rendendo così il porto-canale di Cesenatico un importante esempio di “porto del patrimonio” nel nostro Paese.

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Il patrimonio culturale immateriale

Come anticipato, il 13 maggio scorso la Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio delle province di Ravenna, Forlì-Cesena e Rimini, nel corso di un’affollata conferenza stampa che si è svolta nei locali del Museo della Marineria di Cesenatico, ha definito “La pratica della vela al terzo come un’espressione di identità culturale collettiva da salvaguardare”, facendo riferimento all’articolo 7 Bis del Codice dei Beni Culturali.

Tale articolo ha introdotto nel Codice “Le espressioni di identità culturale collettiva contemplate dalla Convenzione UNESCO del 2003 per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale e per la promozione delle diversità culturali”, adottate a Parigi e che, per essere assoggettabili alle disposizioni di tutela, devono essere rappresentate da testimonianze materiali. Nel caso del Museo della Marineria, queste sono state individuate in tre imbarcazioni tradizionali: il trabaccolo Barchét, il bragozzo San Nicolò e la battana Vanessa.

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Va sottolineato che si tratta della prima volta nel suo genere di un’applicazione dell’articolo 7 bis del Codice dei Beni Culturali e quindi di un’importante svolta nelle politiche di salvaguardia del patrimonio galleggiante del nostro Paese. Non a caso, questa è stata definita da Luigi La Rocca, direttore generale Archeologia, Belle Arti e Paesaggio del Ministero della Cultura come “una buona pratica che risponde in pieno ai principi enunciati dalla Convenzione UNESCO del 2003, che apre la strada alla valorizzazione di altre testimonianze del patrimonio immateriale e che favorisce la diffusione della consapevolezza, a livello locale, nazionale e internazionale, dell’importanza di tale patrimonio”.

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