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Sfide agli oceani: i navigatori dell’impossibile

Nella mente dell’essere umano, l’ignoto sembra esistere per essere sfidato. E cosa c’è di più ignoto dell’oceano? Un’attrazione fatale che, navigazioni storiche a parte,
ha sedotto e continua a sedurre tanti coraggiosi. Forse anche un po’ incoscienti.

C’era una volta l’oceano, immenso e misterioso, e di certo faceva paura. Poi ci sono stati uomini che sulla paura hanno costruito il proprio coraggio accettando la sfida, e l’oceano è diventato un po’ meno misterioso. “Hic sunt leones”, dicevano gli antichi di fronte all’ignoto. In oceano i leoni non c’erano perché sarebbero affogati, ma c’era qualcosa di peggio: un’immensità liquida e indecifrabile di cui si conosceva l’inizio ma non la fine.

Per quanto ne sappiamo, il primo a sfidarlo, oltrepassando le Colonne d’Ercole, fu un certo Pitea, un po’ greco un po’ fenicio, un po’ geografo un po’ matematico, comunque gran viaggiatore, che pare risalì le coste atlantiche dell’Europa fino alla leggendaria “Ultima Thule” (probabilmente l’Islanda). Ma quello fu solo l’inizio di quel gusto per la sfida che è sempre stato il motore principale dell’evoluzione umana e di fronte al quale anche l’oceano dovette poi levarsi il cappello. Non esiste un elenco completo di tutti quei pazzi temerari che vi si avventurarono con le loro macchine naviganti. Di sicuro ce ne furono molti e, altrettanto certamente, la maggior parte è rimasta sconosciuta.

Di molti si hanno certezze non documentate, come nel caso dei Vichinghi che raggiunsero l’America, o dei cannibali sudamericani che – come sostenne l’esploratore norvegese Thor Heyerdhal – dal Cile arrivarono in Polinesia. Il più famoso di quei temerari però cambiò il mondo e scrisse la storia, perché nel bene e nel male, si può dire quel che si vuole del personaggio, ma di certo, per affrontare l’ignoto con quei catafalchi di caravelle, Cristoforo Colombo doveva saperla davvero lunga. Che poi fosse arrivato in America convinto di essere in India è tutta un’altra storia.

Non è stato possibile tracciare con il GPS le sue imprese transatlantiche – era la fine dell’800 – ma non abbiamo ragione di dubitare del valore di Joshua Slocum e del suo Spray.

Personaggi leggendari

Come già detto, non è possibile fare un elenco che attraversi i secoli. Ma, a ben vedere, non sarebbe neppure conveniente, poiché per capire cosa spinga un uomo a fare certe pazzie è ben più interessante e comprensibile guardare ai giorni nostri, o quasi, dove la sfida diventa spesso una via di mezzo tra l’impresa sportiva e il fatto personale.

E in molti ci hanno lasciato le penne. Come nel caso dell’americano Joshua Slocum che, a cinquant’anni suonati, fra il 1895 e il 1898, fu il primo a circumnavigare la Terra in solitario con il suo sloop di 36 piedi, il mitico Spray, la stessa barca con cui quindici anni dopo salpò per le Indie Occidentali senza fare più ritorno: una delle innumerevoli vittime eccellenti dell’oceano.

Spray

Ma se Slocum è diventato una leggenda onorata da tutti i velisti, ben pochi ricordano il Fox di Frank Samuelson e George Harbo, due pescatori norvegesi naturalizzati americani che attraversarono l’Atlantico, da Brooklyn a Le Havre, in 57 giorni…a remi! Probabilmente la prima di tante pazzie che seguirono, ma che merita qualche riga di notorietà.

Fox di Frank Samuelson e George Harbo

La loro barca, il Fox (dal nome del loro principale sponsor) era un gozzo di 18’ realizzato in fasciame a clinker e costato all’epoca 289 dollari.

Fox di Frank Samuelson e George Harbo

Un’impresa simile fu compiuta con successo settant’anni dopo, nel 1966, da Charles “Chay” Blyth e da John Ridgway i quali però, per raggiungere l’Irlanda da Terranova a remi, impiegarono 92 giorni superando avversità di ogni tipo. Blyth e Ridgway erano due paracadutisti dell’esercito inglese decisamente ben temprati alle difficoltà, considerando che per sfidare l’Atlantico utilizzarono un lancione aperto di 6 metri, battezzato English Rose III.

Chay Blyth è stato una leggenda della vela, soprattutto se si pensa che all’inizio non ne aveva che poche scarse cognizioni. Meno celebrata la sua traversata dell’Atlantico a remi, compiuta in coppia con John Ridgway impiegando 92 giorni.

A rendere mitico il nome di Blyth (oggi Sir Chay Blyth) furono però le sue successive imprese veliche: nel 1971 fu il primo a compiere a bordo del suo British Steel di 59’ un giro del mondo in solitario non stop navigando verso Ovest, in 292 giorni.

Seguirono poi svariati successi in regate oceaniche, incluso nel 1973 un terzo posto alla Whitbread Round the World Race con il Great Britain II e un equipaggio di paracadutisti e la vittoria nel 1981 della Two-Handed Trans Atlantic Race in coppia con Rob James, a bordo di Brittany Ferries GB. Quando, nel 1984, il suo trimarano Beefeater II scuffiò al largo di Capo Horn durante il tentativo di battere il record sulla New York – San Francisco, Chay trascorse diciannove ore in acqua prima di essere soccorso da un peschereccio di passaggio e, in quel drammatico lasso di tempo, pensò bene di cambiare genere.

Lo fece a modo suo, ovviamente. Infatti, non essendo esattamente un tipo tranquillo, l’anno dopo accettò di fare da co-skipper a Richard Branson sul Virgin Atlantic Challenger II, lo speciale offshore di 22 metri che il 29 giugno 1986 stabilì il nuovo record della traversata atlantica in 80 ore, 31 minuti e 35 secondi, alla media di 35,69 nodi. Per la cronaca, il record fu nettamente battuto nel 1992 dal nostro Destriero che, issando il guidone dello Yacht Club Costa Smeralda, compì la traversata di 3.106 miglia in 58 ore, 34 minuti e 50 secondi alla media di 53,09 nodi.

A forza di braccia

All’opposto delle imprese che coinvolgevano uomini e mezzi al massimo livello tecnologico, si affiancarono presto e sempre più numerose le imprese che nella loro apparente semplicità costituivano una sfida estrema e quasi impensabile. Metaforicamente parlando, vere e proprie mancanze di rispetto nei confronti degli oceani e, più in particolare, dell’Oceano Atlantico. Non furono pochi, ad esempio, quelli che sfidarono quest’ultimo a nuoto.

Il francese Guy Delage, pur essendo un esperto velista, fu il primo nel 1994, a 42 anni, a nuotare da Capo Verde a Barbados coprendo 2.400 miglia in 55 giorni. Il fatto che si sia avvalso di un buon supporto galleggiante poco toglie al valore della sua impresa. Discorso che vale anche per il 31enne anglo-francese Benoit Lecomte, che compì la traversata al contrario, partendo dal Massachusetts per arrivare stremato in Bretagna. “Mai più!”, aveva esclamato appena messo piede a terra. Invece, vent’anni più tardi ci riprovò cambiando oceano: il Pacifico al posto dell’Atlantico, ipotizzando una percorrenza di quasi 5.000 miglia, incluso il passaggio attraverso la mitica Great Pacific Garbage Patch, l’immensa isola dei rifiuti formata dalle correnti.

L’americana Jennifer Figge attraversò l’Atlantico a nuoto; qui in foto in allenamento lungo la costa delle Bahamas.

A tale proposito ricordiamo che se queste imprese sono in primis delle sfide personali, vengono pure utilizzate per compiere osservazioni e ricerche sull’ambiente e sul corpo umano nel suo complesso. Imprese da veri uomini…o no? Anche no. Ricordiamo infatti che, nel 2009, l’americana allora cinquantaseienne Jennifer Figge fu la prima donna ad attraversare a nuoto l’Atlantico da Capo Verde a Trinidad, percorrendo la distanza in 24 giorni, nuotando una media di 8 ore al giorno. Impresa peraltro ripetuta nel 2013 in 32 giorni… ma a sessant’anni compiuti!

Va ricordato che, come in altri casi analoghi, anche stavolta l’atleta aveva potuto contare su una barca-appoggio per riposare, rifocillarsi e dormire: intervalli durante i quali venti e correnti continuavano comunque a spingere verso la meta, rendendo la cosa un po’ più umana ma di certo non meno straordinaria. Fatica a parte, quali i più grandi nemici incontrati in queste imprese? A detta dei protagonisti il freddo e le meduse, mentre a tener lontani gli squali pare abbia funzionato bene un braccialetto magnetico. Imprese comunque titaniche, pur non avendo avuto neanche un decimo della risonanza che ebbe Beppe Grillo quando, nell’ottobre del 2012, traversò a nuoto lo Stretto di Messina.

Il fascino dell’estremo ha sempre attratto coraggiosi e incoscienti. Tra i protagonisti più celebrati delle traversate atlantiche a remi certamente Gerard D’Aboville.

Se dal nuoto estremo a base di pinne e maschera passiamo a qualcosa di più simile a un mezzo nautico, inevitabilmente torniamo alle barche a remi di cui abbiamo già parlato, anche se stavolta in chiave più moderna. Sarebbe perciò grave non ricordare un personaggio come Gerard d’Aboville, un francese trentaseienne che nel 1980 l’Atlantico l’attraversò da Cape Cod alla Bretagna in 72 giorni con una barca a remi di legno, il Capitaine Cook, da lui stesso costruita. Una sfida ritenuta impossibile, che tuttavia non frenò la sua sete d’avventura, visto che dieci anni dopo decise di riprovarci con il Pacifico. Volendo compiere la traversata dal Giappone a Washington, coprendo una distanza di oltre 6.000 miglia, questa volta scelse una barca molto più tecnica. Il “Sector”, dal nome del suo unico sponsor (nessun altro intese dargli fiducia), era un 26’ costruito in carbonio, attrezzato per affrontare tutte le difficoltà del viaggio, che non furono poche considerando i 3 tifoni e i 36 capovolgimenti che ne fecero parte.

Maud Fontenoy traversò a remi anche il Pacifico.

A seguire le tracce lasciate da Gerard, che “da grande” divenne un importante personaggio politico, fu la sua figlioccia, Maude Fontenoy. Maud, praticamente appena nata (aveva 7 giorni), era stata imbarcata sulla goletta di famiglia per la sua prima traversata dell’Atlantico. Come a dire che il suo DNA era fortemente salato. Fatto sta che a 25 anni decise di attraversarlo a remi seguendo la rotta settentrionale da Ovest a Est, ovvero dal Canada francese alla Spagna: la peggior scelta possibile, considerata la frequenza di depressioni e correnti contrarie che avrebbe scoraggiato chiunque.

Ma a poco valsero i tentativi di dissuasione avanzati dallo stesso D’Aboville, né servì a molto ricordarle che su quella stessa rotta erano già falliti ben sei tentativi, con conseguenze tragiche. Maude partì il 13 giugno del 2003 con il suo Pilot e, dopo essere sopravvissuta a una quantità di burrasche, vari rischi di collisione, 17 capovolgimenti in una sola notte con 50 nodi di vento, e dopo che il 18 settembre smise di funzionare anche il secondo dissalatore costringendola a bere acqua di mare, il 9 ottobre atterrò a La Coruña, sulla costa nord-occidentale della Spagna.

Non contenta, due anni dopo decise di traversare a remi anche il Pacifico, partendo il 12 gennaio del 2005 da Lima sul suo Oceor – una barca ovviamente un po’ speciale ma di soli 7,5 metri – e raggiungendo il 26 marzo, in una notte di luna piena, dopo quasi 4.500 miglia, l’isola di Hiva Oa, nelle Isole Marchesi, in Polinesia. Ad accoglierla, con il bagliore di un suo bengala rosso, una vedetta della Marine Nationale.

Coraggio e follia non hanno età, come ha dimostrato Aleksander Doba che con il suo kayak decisamente speciale ha attraversato l’Atlantico in direzione Est-Ovest a 65 anni e Ovest-Est a 71.

Sognatori di ogni età

Se veniamo a tempi ancora più recenti troviamo altre imprese, in alcuni casi rese sensazionali soprattutto dall’età dei protagonisti, che sembra non costituire un deterrente. Guardiamo allora con grande rispetto a un avventuroso viaggiatore polacco, tale Aleksander Doba, che nel 2010, all’età di 65 anni (la stessa di Francis Chichester quando circumnavigò il mondo), decise attraversare l’Atlantico in kayak. Manco a dirlo, in solitario. Ingegnere meccanico, Doba aveva già una certa esperienza di navigazioni estreme sul Baltico e lungo i fiordi norvegesi. Partito da Dakar, in Senegal, raggiunse il Brasile dopo 99 giorni e 2.910 miglia con il suo Olo, un kayak di sette metri.

Nel corso della traversata, percorsa a una velocità media di 1,22 nodi, e con un incredibile exploit di 68 miglia in un solo giorno, Doba perse 14 kg. Non contento, ripeté l’impresa nell’ottobre del 2013 traversando l’Atlantico nel suo punto di maggior larghezza (da Lisbona alla Florida, 6.747 miglia) e, infine, ripetendo l’impresa al contrario nel maggio del 2017, alla veneranda età di 71 anni. L’ultima sfida, il 22 febbraio 2021: subito dopo aver raggiunto la vetta del Kilimangiaro, Aleksander Doba si sedette su una roccia addormendosi, per non più risvegliarsi.

Una vita incredibile, quella del navigatore polacco, romanticamente spentasi sulla cima del Kilimangiaro.

Tornando ai remi e a quel 2017, merita sicuramente una citazione la traversata atlantica compiuta Chris Bertish sul suo SUP (Stand Up Paddleboard). Certo, parliamo di un mezzo assai diverso dalla tavola con cui pagaiamo lungo le nostre spiagge, tuttavia a rendere gloriosa questa navigazione di 4.040 miglia da Agadir ad Antigua è la determinazione con la quale il surfista sudafricano l’ha organizzata e condotta, portandola a compimento in 93 giorni. Parliamo dunque di questo SUP, chiamato I’Mpossible, lungo 6 metri, pesante 350 kg (più altri 350 kg di cibo e apparecchiature) e costato 113.000 euro.

Chris Bertish con il suo SUP in mezzo all’Atlantico, destinazione Antigua.

Progettato e realizzato su misura, allestito con tutti gli strumenti messi a disposizione dalla moderna tecnologia elettronica, con dissalatore e depuratore d’acqua, cibo per astronauti, pannelli solari e amplificatori di segnale radar, telefono satellitare, senza dimenticare le varie telecamere impermeabili Go Pro necessarie a documentare il viaggio, il tutto coordinato da un raffinato sistema di back-up: nulla toglie al fatto che Bertish ha pagaiato in totale solitudine in mezzo all’oceano, affrontando tempeste e problemi d’ogni tipo, superando momenti di nero sconforto e perdendo progressivamente 15 chili di peso corporeo.

D’altra parte, che Chris amasse l’estremo era già noto al mondo del surf per le sue cavalcate sulle Mavericks Big Waves, le onde giganti della California. Meno note erano le sue indubbie capacità di comunicatore, grazie alle quali è riuscito a trarre dalla sua impresa un libro e un film che documentano la durezza ma anche la bellezza della sua sfida all’impossibile (Last Known Coordinates).

Da una sfida estrema, come la traversata dell’Atlantico a remi, non poteva che nascere una competizione altrettanto estrema. La Talisker Whisky Atlantic Challenge si svolge da La Gomera ad Antigua per circa 3.000 miglia e attira ogni anno atleti di tutte le età, sesso, e paese. Dal prossimo anno è prevista un’analoga regata che attraverserà il Pacifico.

Imprese solitarie, ma non solo. A questo punto non possiamo non citare la più folle delle regate, la Talisker Whisky Atlantic Challenge (TWAC), sponsorizzata dall’omonima marca di alcolici ma fondata da Chay Blyth nel 1997, che si svolge sulla rotta La Gomera-Antigua per circa 3.000 miglia, tutte da percorrere rigorosamente a remi! Giustamente considerata la più dura al mondo, la gara è aperta a un massimo di trenta equipaggi singoli o multipli e promuove, tra l’altro, una raccolta di fondi che gli equipaggi possono destinare alla causa che ritengono più meritevole.

L’ultima edizione, a dicembre 2021, ha visto la partecipazione di 107 concorrenti di entrambi i sessi, suddivisi in 36 equipaggi, 35 dei quali hanno tagliato il traguardo. Sono stati infranti alcuni record tra i quali – ci piace ricordarlo – quello per la coppia più anziana: 124 anni in due. A tagliare per primo il traguardo è stato Swiss Raw, in 34 giorni, 23 ore, e 42 minuti, seguito a due giorni di distacco da Atlantic Flyers, secondo classificato. Prowject X, l’ultimo a tagliare il traguardo, lo ricordiamo per amor di cronaca, ha impiegato 75 giorni, 10 ore, e 6 minuti. Per chi fosse interessato, nel giugno del 2023 verrà inaugurata la versione “Pacifico”, che vedrà impegnati 20 equipaggi sulla rotta Monterey (California)-Nawiliwili (Kauai-Hawaii) per un tempo stimato di 62 giorni. Come sempre la gara potrà essere seguita a distanza, in tempo reale, grazie ai moderni sistemi di tracking satellitare.

Tanto di cappello

Abbiamo raccolto in queste pagine le testimonianze di alcune delle più famose sfide all’impossibile – non le uniche peraltro – e riteniamo che sia utile trarne alcune riflessioni. Che cosa ha spinto queste persone ad affrontare avventure che, oltre a mettere a repentaglio le loro vite, in molti casi hanno segnato profondamente anche le loro finanze? La ricerca dell’avventura estrema, dell’exploit sportivo, dell’affermazione del proprio ego?

Tutti erano in ogni caso coscienti, o quasi, di cosa avrebbero dovuto affrontare e, attraverso i loro racconti, sappiamo delle sofferenze fisiche e morali che hanno dovuto affrontare, i rischi, le emozioni e le paure, i momenti di profondo sconforto. Ma anche l’esaltazione che si può provare nel ritrovarsi soli, su un guscio di noce, in mezzo all’oceano.

Sono tutte imprese che hanno un loro valore sportivo, certo, ma che richiedono pure un’organizzazione lunga, meticolosa, e soprattutto costosa. C’è stato chi, per poterle affrontare, ha ipotecato la propria casa, chi ha chiesto prestiti o fatto collette tra amici. Qualcuno più fortunato o intraprendente è riuscito a coprire i costi grazie agli sponsor. Tuttavia, nessuno di questi avventurieri del mare si è messo in gioco per soldi. Anzi, molti hanno devoluto in beneficienza i proventi delle loro imprese, in pratica i diritti d’autore dei loro libri. Ma non solo, Chris Bertish, ad esempio, grazie alla sua traversata ha raccolto 400.000 dollari che ha destinato in beneficienza sia per la costruzione di cinque scuole nelle aree più povere del suo Sud Africa sia supportando Operation Smile per finanziare interventi di estetica facciale sui bambini più poveri. Saranno anche pazzi, ma meritano tutta la nostra ammirazione.

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