La realtà dell’Odissea, il mio nome è Qualcuno
Dietro i veli della leggenda, l’Odissea cela interessanti realtà, che pur dopo 3000 anni continuano ad affascinarci. Perché, dopo tutto, c’è un po’ di Ulisse in
ciascuno di noi.
Era bassotto ma muscoloso e di spalle larghe, rossiccio di capelli e leggermente claudicante a causa di una ferita infertagli in gioventù da un cinghiale. Insomma Ulisse non era proprio una bellezza come uomo anche se, Penelope a parte, ha sempre avuto buona presa sul gentil sesso e perfino goduto i favori di una dea, Atena, che lo ha protetto e salvato in molte circostanze e che ogni tanto, per una ragione o per l’altra, lo trasformava in una specie di George Clooney dell’epoca.
Ma se esteticamente non era il prototipo dell’eroe greco – del resto nella vita non si può avere tutto – quello che aveva Ulisse, ossia un bel cervello, alla fine rese più dei suoi muscoli. Dichiarò anche di essere Nessuno, ma se consideriamo come le sue vicende siano passate indenni attraverso i millenni e quanto il suo personaggio abbia ispirato poeti, scrittori, registi, compositori (Lucio Dalla incluso) e via dicendo, senza perdere nulla del suo fascino, forse sarebbe più giusto chiamarlo Qualcuno.

Un Qualcuno protagonista del primo vero romanzo della storia che, dietro i veli della leggenda, nasconde varie interessanti realtà storiche e geografiche, senza tralasciare una certa attenzione alla parità di genere perché nell’Odissea molti personaggi chiave, divinità incluse, sono donne, con tutti i loro pregi e i loro difetti. L’Odissea è un coacervo di saggezza e di profonda conoscenza dell’animo umano e, attraverso la poesia, mette in luce virtù nobili come quelle della lealtà e della sacra ospitalità, oggi un po’ desuete, e altre un po’ più prosaiche come l’esuberante passione per il cibo e per le donne.
Non dimentichiamo che tutto il gran casino della guerra di Troia – dieci anni di assedio e migliaia di morti – fu dovuto all’irrefrenabile passione fra un playboy come Paride e una fedifraga come Elena… o no? Forse anche no. Nel senso che lasciamo pure alla leggenda la sua sfumatura romantica ma, più realisticamente, ricordando che appollaiata sulla collina di Hissarlik Troia godeva di una posizione altamente strategica, potremmo dire che i Greci si erano stufati di essere succubi di chi dominava lo Stretto dei Dardanelli imponendo dazi e pirateggiando le loro navi.
In ogni caso, per donne o per denaro – i veri motori che mandano avanti il mondo – la guerra durò dieci anni ed ebbe un costo catastrofico in termini economici e di vite umane. E a proposito vale ricordare che se Achille è il protagonista dell’Iliade, come Ulisse lo è dell’Odissea, un curioso e poco nobile atteggiamento lega entrambi: erano tutti due, in un certo senso, disertori. Ulisse andò a nascondersi e si finse pazzo quando Menelao andò a chiamarlo per unirsi all’esercito degli Achei, mentre Achille provò a travestirsi da donna. Entrambi furono poi platealmente smascherati e, tutto, sommato in guerra si riscattarono.
Nel valutare il poema omerico può essere interessante considerare anche l’aspetto ambientale, perché 3000 anni fa il mare, o meglio quello che ci viveva dentro, ma soprattutto la natura, anche quella dei luoghi che ben conosciamo, erano sicuramente assai diversi. Le centinaia di isole che popolano l’Egeo, la cui immagine arida e brulla ci è oggi familiare, erano al tempo esuberanti di verde e proprio quei boschi alimentarono per secoli i fuochi dei villaggi e fornirono il materiale per le barche che solcavano quei mari. Mari in cui – da pescatori vengono i brividi a pensarci – i pesci saltavano in barca da soli, tanto che, nelle loro mille traversie, Ulisse e i suoi uomini riuscirono a cibarsene pur avendo tecniche e attrezzature assolutamente rudimentali.
Quando tutto cominciò
L’Odissea narra il lungo viaggio di ritorno di Ulisse che, lasciandosi alle spalle le rovine ancora fumanti di Troia, dopo un infelice intermezzo di cui parleremo più avanti, mise la prua delle sue dodici navi verso Sud-Ovest, ansioso di ritrovare la sua isola, la sua famiglia, i suoi amici e – mettiamoci pure lui – il suo amato e devoto cane Argo. Una leggenda? Probabilmente, ma anche con qualche verità nascosta. Ad esempio: è veramente esistita Troia? Assolutamente sì, e non una sola. Gli scavi archeologici che attrassero già nei secoli scorsi una quantità di appassionati ricercatori ne hanno trovate addirittura nove, costruite una sopra l’altra su quella collina di Hissarlik che si affaccia sui vicini Dardanelli. Secondo Heinrich Schliemann, il più famoso degli archeologi che gli dedicarono anni di studi, la città che con più probabilità riguarda la nostra storia fu la settima, quella che effettivamente venne distrutta da un incendio intorno al 1200 a.C. Qualcuno arrivò persino a datare la distruzione con precisione svizzera, fissando l’inizio dell’incendio alle 20,30 del 5 giugno. Forse un po’ eccessivo, ma si sa: le leggende, oltre a mascherare la realtà, spesso stimolano anche la fantasia.

Ulisse, chiamato anche Odisseo, è il protagonista assoluto di questa leggenda che incomincia con la distruzione di Troia, raccontata qualche secolo dopo da un vate forse cieco o forse neanche mai esistito, e che apparve in forma scritta solo intorno ai primi decenni del 500 a.C. Ulisse incarna pregi e difetti propri di ogni essere umano, sicuramente interessanti e degni di riflessione, ma delle tante sfaccettature del personaggio ne seguiremo una per noi di particolare interesse, perché Ulisse fra le sue tante doti era anche un ottimo marinaio e l’Odissea, fra le tante cose, è anche una storia di mare che racconta delle difficoltà che ieri, sicuramente molto più di oggi, incontrava chi ama questa dimensione che nasconde un sentimento proprio dell’uomo: l’amore per l’avventura e per la libertà.
Non a caso, ci si perdoni l’ardita citazione letteraria, in una delle sue più belle poesie (Ithaca), Costantino Cavafis racchiude in pochi versi l’avventura di Ulisse ricordando come alla fine quello che conta non è il raggiungimento dell’agognata meta, ma il viaggio necessario per raggiungerla. Il che può essere ancor più vero nel caso di Itaca, che in realtà era una tristanzuola isoletta piena soltanto di pietre e pecore.

Le barche di Ulisse
In quella culla di civiltà che fu il Mediterraneo, la storia si trasmise soprattutto attraverso il mare. Ma, a quei tempi, la navigazione era irta di difficoltà. Le 1178 navi che un bel giorno si presentarono di fronte alla spiaggia che si stendeva ai piedi di Troia di sicuro facevano un bell’effetto, ma chiamarle navi è poco corretto. Per le loro dimensioni, oggi le chiameremmo più propriamente imbarcazioni se non addirittura natanti, e quella di Ulisse in particolare aveva uno scafo non pontato e quindi soggetto a imbarcare facilmente acqua affrontando un mare formato, il che, in mancanza di potenti pompe di sentina elettriche, doveva essere un bel problema.
Armate con un solo albero e un’unica vela quadra per lo più tessuta in lino, con manovre limitate e fatte di cime di papiro o in qualche caso di pelle, le navi di Ulisse non avevano possibilità di risalire il vento, anche perché praticamente sprovviste di deriva: una necessità, dato che in quei tempi remoti i porti erano una rarità e le barche venivano quasi sempre tirate in secco sulla spiaggia. La spinta delle vele era un’irrinunciabile necessità quando il vento lo consentiva, in quanto i 10-12 rematori per lato che costituivano la forza motrice delle barche, per quanto muscolosi e ben allenati, non potevano certo affrontare lunghi trasferimenti. Con tali caratteristiche, le prestazioni non potevano che limitarsi – mare e correnti permettendo – a 4-5 nodi di velocità.
Una stima che, vale la pena notarlo, non è una supposizione storica ma nasce da un calcolo ben preciso sviluppato confrontando i trasferimenti narrati dall’Odissea con la realtà geografica. In ogni caso i loro spostamenti erano sempre brevi e maledettamente legati all’andamento del meteo. E per quanto brevi, visti con l’occhio del marinaio, possono far nascere qualche domanda che gli storici di certo non si sono mai posti.
Ad esempio, come facevano quei bravi ragazzi a soddisare i loro bisogni fisici quotidiani? Omero non ne fa cenno, ma si può escludere che su barche tanto rustiche e di modeste dimensioni potesse esistere una toilette in vano separato. Utilizzavano un classico bugliolo? Si sporgevano pericolosamente dalle murate? E le donne, che avevano qualche problema in più, come facevano? Lasciamo questo particolare dubbio fra i veli della leggenda, ma se mettiamo in conto anche i rifiuti biologici e il sangue degli animali che, tenuti a bordo come provviste viventi, venivano regolarmente sgozzati durante il viaggio per fornire cibo all’equipaggio e qualche volta per ingraziarsi gli dei, possiamo affermare che a bordo di quelle navi tanto celebrate c’era una vera schifezza. Del resto due erano i pensieri fissi di chi navigava in tempi omerici: il vento e l’acqua.
Il primo per la sicurezza della barca, la seconda per la propria sopravvivenza. Per quanto riguarda il semplice approvvigionamento di cibo, lungo coste che ancora non conoscevano la selvaggia antropizzazione dei giorni nostri bastava scendere a terra con arco e frecce per riempire la cambusa. La carne veniva in parte consumata fresca e in parte essiccata al sole, così come per il pesce che in quel tempo affollava il mare. Altrettanto facile, scendendo a terra, era raccogliere frutta e verdure di vario tipo, olive e latte da trasformare in formaggio.

E navigar m’è dolce?
Ulisse partì da Troia con dodici navi, tutte costruite con quel legno che un tempo abbondava, ovvero utilizzando il pino per albero e fasciame e la quercia per ordinate, chiglia e paramezzale. A questo si aggiungeva una catramatura esterna a protezione dello scafo (il che spiega perché Omero chiama “nere” quelle barche), necessaria per proteggere il legno dall’attacco delle teredini.

Le barche più importanti erano però tinte in blu indaco, uno dei colori naturali più comuni in Mediterraneo, e sui masconi veniva dipinto un grande occhio, usanza assai comune anche oggi e probabilmente derivante dagli antichi Egizi che lo consideravano l’occhio di Ra, il dio sole. L‘unico albero della barca, costituito da un tronco, era necessariamente basso e le stesse vele erano di dimensioni ridotte per poter essere governate con facilità ma anche perché, essendo assai poco robuste, difficilmente avrebbero potuto resistere a un serio Meltemi. Molto si doveva quindi ai remi, anch’essi ricavati da legno di pino, costruiti con pale molto larghe anche perché spesso dovevano fungere da timone, ovviamente con un’efficienza assai scarsa che contribuiva a rendere ancor più impossibile qualunque tentativo di risalire il vento.
Se i 4-5 nodi costituivano come detto le punte di velocità massima, è anche vero che salvo venti portanti più che favorevoli con cui forse si poteva guadagnare un nodo in più, la velocità di crociera non superava i due nodi. E a questo aggiungiamo che all’epoca l’unica bussola erano le stelle, su cui Omero ci offre alcune interessanti notazioni, mentre la cartografia era un progetto ancora lontano. Insomma, il mare era un immenso ignoto in cui perdersi era tutt’altro che raro. Da non dimenticare poi il problema degli ancoraggi, quando non era possibile tirare in secco le imbarcazioni.
E’ pur vero che, come detto, le navi omeriche erano in fondo delle piccole imbarcazioni, ma è anche vero che non esistevano verricelli e le ancore andavano calate e recuperate a mano, il che necessariamente ne limitava il peso. Senza contare che non conoscendo la natura del fondo marino, soprattutto in caso di acqua torbida, era facile incagliare il “ferro” su fondali rocciosi e perdere l’ancora. Una buona parte dei naufragi che hanno fatto la gioia degli odierni archeologi subacquei nasce da queste problematiche.
Fra le altre curiosità legate al mare vale anche la pena ricordare che 3000 anni fa gli scenari erano ben diversi da quelli che vede oggi chi naviga tra le isole dell’Egeo. Ma se appare quasi normale che durante il suo lungo errare di mare in mare, spesso trasportato inerte dalle forze della natura, Ulisse non abbia mai incontrato alcun’altra imbarcazione, più curioso è pensare che nella sua deriva dalla Terra dei Ciconi a Djerba sia riuscito a svicolare fra le centinaia di isole sparse nell’Egeo senza prenderne in pieno neanche una. Omero non ne fa menzione e questo darebbe credito a chi sostiene che fino a Capo Malea, estrema punta sud-orientale del Peloponneso, le navi di Ulisse fossero in qualche modo governabili.
In cerca di Itaca
Le rotte dell’Odissea sono in parte facilmente tracciabili, anche se va detto che esistono versioni discordanti su alcune località. Addirittura esiste una recente teoria che vuole l’Odissea ambientata fra il Baltico e l’alto Atlantico, teoria che rispettiamo in quanto dovuta a un ingegnere nucleare, per altro italiano (Felice Vinci), ma nella quale non ci addentriamo: un po’ perché non ha mai trovato grande riscontro da parte degli studiosi, ma soprattutto perché siamo radicalmente affezionati al nostro Ulisse mediterraneo. E la storia del suo ritorno a casa comincia – e per inciso comincia male – proprio poco dopo aver lasciato le rive di Troia.
Infatti, invece di dirigersi verso casa, Ulisse, superata una delle tante tempeste che incontrò nel suo peregrinare, andò a cercare provviste e vino nella terra dei Ciconi. E già che c’era, forse perché il conto era troppo salato, finì per saccheggiare la capitale Ismara facendo prigioniere le sue donne. Mal gliene incolse, non solo perché i Ciconi dopo il primo assalto si riorganizzarono e costrinsero i Greci a mollare le donne e a ripartire di corsa, ma soprattutto perché la cosa non piacque agli dèi, che infatti scatenarono subito un’altra tempesta. La terra dei Ciconi si trovava nella Tracia meridionale, agli attuali confini fra Grecia e Turchia, quindi Ulisse lasciando Troia aveva puntato a Nord-Ovest, forse approfittando di venti favorevoli.
Il violento Meltemi ridusse a mal partito le navi impedendo loro ogni possibilità di governo, tanto che furono costrette ad ammainare le vele per paura di stracciarle, e con la sua potenza le trascinò in direzione opposta, cioè verso Sud-Ovest fino all’altezza di Capo Malea. Qui Ulisse avrebbe dovuto puggiare di oltre 90 gradi per puntare verso casa, ma la forza del vento impediva qualsiasi manovra, le navi persero la costa e per nove giorni rimasero in balia del vento finché approdarono nella terra dei Lotofagi, oggi identificata con l’isola di Djerba, in Tunisia. Se calcoliamo la spinta di un Meltemi ben formato, H24 per nove giorni (cosa non rara e personalmente ahimè vissuta), a partire da Capo Malea, punta Sud del Peloponneso, con una velocità tra vento e onde di 3-4 nodi, i conti – sempre con la dovuta approssimazione – tornano.

Dalla terra dei Lotofagi, i cui frutti provocavano l’oblìo, Ulisse scappò via di corsa, ritrovando venti favorevoli e puntando, grazie al suo Gps astronomico, verso la sua isola. I movimenti dell’Orsa Maggiore erano ben conosciuti da quegli antichi naviganti ed erano un riferimento più preciso di quello della Stella Polare che 3000 anni fa aveva una posizione diversa di 12 gradi rispetto a quella di oggi ed era poco considerata ai fini dell’orientamento. Per quanto in grado di seguire una rotta, tuttavia, è chiaro che la precisione di certi rilevamenti era quanto mai generica e, sulle lunghe distanze, poteva portare a errori di non poco conto. Anche per questo gli studiosi omerici non hanno un preciso accordo su dove fosse quell’”Isola delle Capre” che testimoniò uno dei più celebri episodi dell’Odissea: l’incontro, o meglio lo scontro, con Polifemo.

Dato che, turisticamente parlando, essere stato il luogo testimone di un fatto tanto eclatante è un valore aggiunto di non poco conto, la location dell’episodio è sempre stata molto ambita e a lungo contesa. Si è parlato di Nisida, a due passi da Napoli, così come di Acitrezza (Catania), con i suoi faraglioni chiamati ancor oggi Isole dei Ciclopi e protetti come riserva marina, ma la candidata più logica – tenuto conto dei vari riferimenti geografici reperibili tra le righe dell’Odissea – è Favignana, 270 miglia a NNE di Djerba. Al di là dell’essere chiamata in tempi classici “Isola delle Capre”, lo confermerebbero la direzione della rotta, il regime dei venti, gli ancoraggi descritti da Omero e la stessa morfologia dell’isola, peraltro oggi un po’ diversa da quello che doveva essere 3000 anni fa. L’antro di Polifemo, potrebbe essere crollato nel corso dei millenni o essere situato, come da molti, sostenuto alle pendici della vicina Erice.
In ogni caso, quello con Polifemo non fu un bell’incontro perché prima di riuscire ad accecare il gigante monocolo e fuggire con il noto stratagemma, Ulisse dovette offrirgli come antipasto sei dei suoi dodici compagni con i quali era andato in esplorazione.
In compenso, per sfuggire all’ira di Polifemo e fuggire dalla sua grotta, Ulisse ebbe gioco facile, perché di grande il ciclope aveva le dimensioni ma non certo il cervello, tanto che Omero dedica alla circostanza il più celebre scambio dell’Odissea: “Chi sei tu?” chiede Polifemo in preda all’ira. Sono “Nessuno”, rispose Ulisse, con tutto quel che segue.

Un dio nemico
E quel che segue, tanto per cambiare, è una tempesta scatenata da Poseidone, incavolato come una iena perché Polifemo, dopo tutto, era uno dei suoi mille figli. Certo, a sentire Omero, il Mediterraneo sembra quasi Capo Horn, ma di certo – come già detto – Ulisse era un po’ sfigato e per di più aveva contro il gran dio del mare. La sua rotta era però precisa e determinata poiché, per tornare a Itaca, si poteva e si doveva navigare solo verso Est. E così facendo finì per incontrare sul suo cammino un’altra isola, dove anche qui per diversi motivi si apre una certa disputa. Viene spontaneo identificare l’isola di Eolo, signore dei venti, nelle odierne Eolie e, poiché quella descritta da Omero era solitaria in mezzo al mare, si è sempre pensato a Stromboli.
Premesso che per l’ambito titolo sono state proposte anche Ustica e Lipari, Stromboli avrebbe tuttavia avuto un piccolo problema di convivenza, essendo per usucapione già casa di Efesto, il fabbro degli dei, dio peraltro alquanto suscettibile. Sia quel che sia, Ulisse approda all’isola di Eolo, che da quelle parti comunque stava, dove viene ricevuto con grande ospitalità, tanto che, per facilitargli la via del ritorno, il dio rinchiude tutti i venti di cui aveva il dominio in un otre che offre in dono ad Ulisse, lasciando fuori solo un leggero zefiro che avrebbe gentilmente spinto le sue navi verso Est, appunto. L’unica condizione è quella di non aprire mai quell’otre. Qui Omero fa un salto poetico, nel senso che bypassa una serie di deviazioni, Stretto di Messina incluso, e con una navigazione di nove giorni per oltre 500 miglia porta la piccola flotta già in vista delle coste greche (non necessariamente Itaca, geograficamente nascosta da Cefalonia).
Ulisse rivede finalmente la sua amata patria, si rilassa e si addormenta, cosa che uno skipper in certi momenti non dovrebbe mai fare, mentre i suoi compagni incuriositi da quell’otre di cui ignorano il contenuto…lo aprono. Inutile dire che tutti i venti escono infuriati come belve per essere stati per così a lungo tempo imprigionati e si scatena, tanto per cambiare, una terribile tempesta con una forte prevalenza di venti da levante che riportano Ulisse esattamente al punto di partenza. Solo che questa volta Eolo è meno ospitale: decide di riprendersi tutti i venti e prega gentilmente Ulisse di togliersi dalle scatole. Cosa che il nostro eroe fa, solo che non essendoci più vento può solo procedere a remi arrancando per sei giorni in una sfiancante bonaccia.
Sempre facendo due calcoli necessariamente approssimativi, ammettendo una media di circa 2 nodi pur considerando i turni ai remi e qualche pit-stop, non dovevano aver fatto molta strada quando approdarono su una costa apparentemente ospitale dove – e qui si apprezza Omero, quando descrive con non pochi certe manovre – le navi furono tutte tirate in secco e messe al riparo di una grotta, tranne quella di Ulisse, che preferì rimanere all’ancora tirando una cima a poppa. Dov’era approdato Ulisse? Anche qui fra diverse interpretazioni, inclusa la Corsica o per la precisione il fiordo di Bonifacio, tocca scegliere quella che, per vari motivi, risulta la più plausibile: Formia.
Posso personalmente confermare che gli attuali abitanti del basso Lazio sono molto più ospitali, mentre all’epoca i Lestrigoni che popolavano la zona, oltre che essere giganteschi e ostili erano anche antropofagi, esempio unico – Ciclopi a parte – di cannibalismo citato nell’antichità. In merito si può notare che entrambe queste popolazioni vivevano in terre generose e che quindi il loro cannibalismo non doveva essere tanto dovuto alla fame quanto piuttosto a un vero e proprio gusto per la carne umana. Fatto sta che in poche ore i Lestrigoni fecero un lauto pasto con tutti i Greci scesi a terra e distrussero tutte le loro undici barche. Ulisse, alla fonda, fu l’unico che, tagliando al volo gli ormeggi, riuscì a fuggire con i pochi compagni rimasti a bordo.

Per aspera ad Ithaca
Riprendendo il cammino verso la sua amata Itaca, Ulisse, per una volta senza aver incontrato tempeste, incontra quella che gli sembra una nuova isola, poichè tale poteva apparire dal mare il promontorio del Circeo, legato a terra solo da un basso istmo. Qui i pareri degli studiosi concordano nel farne la casa della maga Circe e non sprecherei spazio per descrivere una fin troppo nota vicenda, se non sottolineando che, ancora una volta, pur non essendo una bellezza, Ulisse lascia il segno: la maga gli partorisce infatti tre figli e dopo averlo mandato agli Inferi (e forse anche un po’ all’inferno) per ascoltare le profezie di Tiresia, lo lascia andare con le lacrime agli occhi e un prezioso consiglio: occhio alle Sirene!
E ben fece perché, quando Ulisse si trovò a doppiare le isole di questi strani esseri ammaliatori, concordemente identificate con gli isolotti dei Galli lungo la penisola sorrentina, se non si fosse fatto legare all’albero della nave avrebbe fatto una brutta fine. Le Sirene infatti, anche se l’affermazione non è certa, dopo aver sedotto i marinai amavano metterli a tavola: apparentemente un altro esempio di cannibalismo. Facendo però un piccolo passo indietro, e tornando agli Inferi, molti suppongono che per trovarli Ulisse si spinse fino alle Colonne d’Ercole, cioè lo Stretto di Gibilterra, un improponibile viaggetto che, fra andata e ritorno, avrebbe comportato oltre duemila miglia: più di un’altra Odissea.

D’altro canto nell’antichità le Colonne d’Ercole non avevano una precisa localizzazione geografica, ma indicavano semplicemente le porte del mondo conosciuto. Per questo, come suggerito da alcuni, anche per l’atmosfera infernale del luogo, appare più logico porre gli Inferi presso i Campi Flegrei, ovvero nella solfatara di Pozzuoli.

Vita dura quella del marinaio, soprattutto a quei tempi, tanto che, dopo aver resistito alle Sirene, Ulisse, proseguendo verso Sud dovette fronteggiare un altro pericolo: da una parte un mostro con sei cani al posto della testa che divorava chiunque, dall’altra un altro mostro che risucchiava uomini e navi. Ulisse si trovò così nel mezzo, fra Scilla e Cariddi, in pieno Stretto di Messina, e vi perse sei uomini. Superato quest’ultimo ostacolo sembrava cosa fatta. Grazie alle profezie avute da Tiresia durante la sua discesa agli Inferi, Ulisse sapeva che il ritorno a casa sarebbe stato rapido e tranquillo, purché avesse rispettato le sacre vacche del dio Sole. Uomo avvisato, mezzo salvato.

Dopo aver passato i pericoli di Scilla e Cariddi, Ulisse approdò al primo possibile ancoraggio (forse Taormina) anche perché il vento era salito. Scese a terra e qui avvenne l’irreparabile. Non fu lui a commettere sacrilegio ma, come accadde con l’otre di Eolo, quando si addormentò, i suoi compagni affamati come belve dopo nove giorni di mare, avendo finito le ultime provviste, non seppero resistere alla vista di quelle belle vacche grasse e succulente e ne fecero fuori due o tre. Quanto bastò per scatenare l’ira del dio, che si rivolse direttamente a Zeus per avere giustizia, e giustizia ebbe.
Così appena Ulisse riprese il mare puntando a Est, peraltro un po’ preoccupato per quanto avvenuto, Zeus si scatenò: il mare si trasformò in un inferno, un fulmine abbattè l’albero che cadendo uccise il timoniere e in poche decine di minuti l’ultima nave rimasta a Ulisse, priva di albero e di timone, fu fatta a pezzi dalla furia del mare e tutti i suoi compagni annegarono. Solo Ulisse, che era notoriamente un buon nuotatore, rimase a galla aggrappato a un moncone del suo albero e della chiglia, ma solo per essere nuovamente trasportato dal mare verso Scilla e Cariddi dove i resti della sua nave furono inghiottiti dal mostro, per poi essere risputati in superficie. Ulisse vi si aggrappò di nuovo e lì rimase avvinto come l’edera mentre la corrente inversa dello stretto lo riportava verso Sud.

La forza della nostalgia
Curioso come nell’Odissea ci siano alcuni numeri, segnatamente il 6 e il 9, che si ripetono in continuazione. Infatti Ulisse rimase su quel relitto per ben nove giorni portato in deriva verso Sud, finché, assolutamente stremato, il decimo giorno fu spiaggiato sulle rive di un’isola: la misteriosa Ogygia. Nove giorni senza mangiare e senza bere. Impossibile? Numerosi report bellici della nostra epoca hanno dimostrato che un uomo ben allenato e in buona salute ce la può fare.

Ma è possibile localizzare Ogygia? Se ipotizziamo che un relitto in deriva spinto dalla corrente si sposti alla velocità media di circa un nodo, in nove-dieci giorni potrebbe coprire tra le 150 e le 200 miglia, un percorso che, nel caso di Ulisse, ci porta inesorabilmente verso l’arcipelago maltese. Va detto che senza tener troppo conto del testo omerico, Ogygia è stata individuata anche presso lo Stretto di Gibilterra, ma pensare che Ulisse si sia fatto più di mille miglia attaccato a un relitto sembra, per usare un eufemismo, poco credibile.
Ogygia, l’isola di Calypso, donna bellissima e immortale in quanto figlia di Atlante. L’isola una meraviglia, rigogliosa di alberi e frutta, nettare e ambrosia. E Ulisse che fa? Prima, da ormai ben conosciuto tombeur de femmes, fa innamorare Calypso, poi si trastulla per un po’ d’anni godendosi la vita, finché la nostalgia non prende il sopravvento e incomincia a smaniare, diventa svogliato e apatico, triste e malinconico. Vuole tornare a casa, insomma si è stufato di Calypso.
Sarà la crisi del settimo anno, poiché tanti ne sono passati? Lei gli offre l’immortalità, ma neanche questo basta: il nostro vuole partire ad ogni costo. Ma c’è un piccolo problema: Ulisse non ha più una nave. Calypso farebbe anche finta di nulla, ma quando gli dèi mandano Ermes a dirle che il gioco è finito e deve lasciar andare il suo grande amore, pur con grande dolore aiuta Ulisse a costruirsi una zattera con tanto di mini albero, timone e vela e pensa anche alle proviste per il viaggio. Ed è con questo improbabile mezzo, la cui costruzione Omero descrive nei minimi dettagli, che il nostro eroe torna fra le onde diretto in qualche modo verso la sua Itaca, da cui lo separano più di 300 miglia.
Calypso gli fornisce anche utili indicazioni sulla rotta, suggerendogli in quale posizione tenere l’Orsa Maggiore durante il tragitto, perché mantenendola sempre a sinistra della prua sarebbe arrivato a Itaca. Per una volta la sua navigazione fu tranquilla e, all’alba del diciottesimo giorno, dopo aver percorso 330 miglia alla media di poco più di 18 miglia al giorno, avvistò le coste dell’isola dei Feaci, oggi Kerkyra, o se preferite Corfù. Ulisse aveva probabilmente le lacrime agli occhi dalla commozione quando Poseidone, il suo eterno nemico, si accorse della zattera e ci mise un attimo a scatenare una tempesta tanto violenta da farla a pezzi in poco tempo. Ma Ulisse è uno tosto, e prima agisce come un moderno marinaio liberandosi dei vestiti, poi con la costa in vista, lui che era un ottimo nuotatore, afferra un relitto della zattera e parte verso la riva.
Ci vollero due giorni per raggiungerla e trovare una spiaggia su cui atterrare. Quando ci riuscì cadde svenuto dalla fatica e dall’emozione: dopo 19 anni aveva rimesso piede nella sua terra… o quasi.
Itaca distava infatti ancora poche decine di miglia. Gli abitanti dell’isola erano gente amichevole e la figlia del re, Nausica, tanto per cambiare, si innamorò del naufrago. Poi, come sappiamo, i Feaci fornirono a Ulisse una nave per raggiungere Itaca, ma non ci addentreremo oltre nella storia, per altro ben nota, perché ormai poco ha a che fare con il mare. Ci piace solo ricordare che, per soddisfare la sua costante sete di avventura, una volta completata la sua Odissea, Ulisse ripartì verso mete assai lontane, fino a doppiare – questa volta sì – le Colonne d’Ercole e ad avventurarsi in oceano. Qui la storia si fa confusa: non c’è più un testo guida e una quantità di storici e scrittori, Dante incluso, liberano la fantasia nel descrivere gli ultimi giorni di Ulisse. Un re marinaio che a noi fa piacere sentire ancor oggi accanto ogni volta che molliamo gli ormeggi.<p style=”text-align: center;”></p>



