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Il Mediterraneo, un mare di gozzi

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Per la loro varietà e diffusione su gran parte dei litorali e dei porti del Mare Nostrum, i gozzi occupano un’importante posizione nella nostra cultura marinara.

Presenti in tante tipologie e varietà locali, prendono nomi diversi: bussi, gussu, vuzzu, gajeta, mourre de pouar, guz, dahjsa, pointus, lodsu, barquette… Che il Mediterraneo sia un “mare di gozzi” è un fatto che salta subito all’occhio dei marinai stranieri. Anche l’inglese Warington Smyth, in un testo novecentesco che elenca le barche dell’Asia e dell’Europa, appena passato lo stretto di Gibilterra fu colpito dalla diffusione della “ubiquitous barquette” che egli incontrò dalle coste tirreniche a quelle della Tunisia, dall’Adriatico all’Egeo.

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“Dopo la pesca” di A. Varni, ritrae una gondua.

Ma cos’è un gozzo?

Il “Vocabolario delle parlate liguri” lo definisce: “una barca non pontata, ma dotata di palchetti a prua e a poppa, piuttosto alta di bordo, con notevole cavallino, ruote di prua e di poppa molto arrotondate, poppa a punta”. Le ragioni della poppa a punta sono dovute al fatto che si tratta di un’imbarcazione che, quando è adibita alla pesca, può manovrare in ambedue le direzioni. Si può aggiungere che, quasi sempre, il dritto di prua si prolunga verso l’alto con una pernaccia, un elemento che ha soprattutto un valore decorativo e identitario. Per quanto riguarda la propulsione, il gozzo può esser definito come “una barca a remi che può esser mossa anche da una vela”.

Se il gozzo tutte le sere doveva essere alato a terra, la struttura dello scafo poteva essere piuttosto leggera ed essere perciò più adatta alla voga. Le barche che invece trovavano ricovero in qualche cala o porticciolo potevano essere più pesanti, più robuste, più larghe e quindi più adatte a utilizzare anche la vela. L’attrezzatura era spesso la latina: una vela triangolare inferita a un’antenna che si issava utilizzando un paranco a più vie.

L’antenna era piuttosto rigida nella parte inferiore, il carro, mentre era flessibile in quella superiore, la penna. In caso di un colpo di vento, tale struttura consentiva di scaricare facilmente la vela senza bisogno di prendere i terzaroli.

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Cornigiotto costruito da R. Guzzardi.

Altri gozzi utilizzavano la vela a tarchia: questa, di forma trapezoidale, era inferita all’albero e sostenuta da una lunga asta inclinata, la livarda o struzza, che dal piede dell’albero saliva fino all’angolo superiore poppiero della vela. La tarchia consentiva poi di spostare l’albero verso prua e guadagnare spazio a metà barca, per la calata e il recupero delle reti.

I gozzi che conosciamo, quelli della Liguria, della Campania e della Sicilia appartengono alla stessa famiglia di quelli degli altri paesi mediterranei, così come i vari dialetti fanno parte di una stessa lingua.

Higgins: “Semplice fonetica. La scienza del linguaggio. È la mia professione ed è anche il mio hobby. Felice l’uomo che può guadagnarsi da vivere con il suo hobby! Un irlandese o uno dello Yorkshire, lei lo riconosce dalla parlata, ma io sono in grado di collocarlo con un’approssimazione di dieci chilometri. A Londra, poi, lo scarto è di forse tre o quattro chilometri e a volte riesco a indovinare persino la strada o il gruppo di strade “
da “Pigmalione” di G. B. Shaw

Se all’inizio del Novecento un personaggio come il professor Higgins, dopo aver ascoltato poche parole, era in grado di individuare il luogo di provenienza di ogni inglese con uno scarto di pochi chilometri, nello stesso modo a quei tempi era possibile riconoscere un tratto di costa osservando le imbarcazioni del posto.

Questo perché, prima dell’avvento della costruzione di serie in vetroresina, le barche da lavoro dovevano adattarsi al proprio ambiente: le loro dimensioni, forme e attrezzature dipendevano dal regime dei venti, dalle condizioni del mare e dalla morfologia della costa. Si doveva poi tener conto delle tradizioni costruttive locali e delle risorse di legname da costruzione disponibile nelle vicinanze.

Il risultato era un’estrema varietà di tipi, testimonianza della cultura materiale delle comunità costiere. Una certa imbarcazione era caratteristica, rappresentativa di un porto, di un tratto di mare e ne costituiva l’espressione, almeno quanto il dialetto dei marinai di quella costa.

Le caratteristiche delle imbarcazioni, poi, tendevano a evolversi nel tempo. Oggi, tuttavia, scarseggiano le testimonianze dell’evoluzione delle imbarcazioni minori, alle quali le fonti storiche non riservavano troppo spazio. Un esempio è dato dal gozzo ligure, che sembra sia derivato intorno alla metà dell’Ottocento dalla gondua o gondola, un’imbarcazione di servizio alle navi, che nulla ha in comune con quella di Venezia.

La gondua, che in Liguria ha convissuto con il gozzo fino al Novecento, era adibita principalmente ai trasporti portuali e costieri. Presentava una struttura dello scafo più massiccia e robusta di quella del gozzo e ampie ruote di prua e di poppa.
Oggi gran parte delle barche tradizionali del Mediterraneo sono scomparse, sostituite da anonimi scafi di vetroresina, prodotti più o meno in serie.

Bisogna però ricordare che nel fasciame dei gozzi, sulle pernacce, nelle vele, tra gli scalmi, sono scritte pagine di una storia che rischia di andare perduta insieme agli ultimi gozzi. L’attenzione nei confronti di queste “vecchie barche” è quindi un elemento importante per valorizzare, e salvare, gli ultimi esemplari rimasti, perché vi è un rapporto diretto tra la divulgazione e le iniziative di tutela, un legame che può essere sintetizzato dal motto: “Si difende ciò che si ama e si ama ciò che si conosce”.1

In un testo recente, “Gozzi, pescatori e marinai, storie del Mediterraneo”2 ho raccontato le vicende di molti di questi scafi e dei loro marinai. Qui di seguito ne cito alcuni, nella speranza di spingere qualche lettore ad approfondire la conoscenza di un mondo affascinante, quello delle barche minori mediterranee, da sempre strumenti quotidiani di fatica e di lavoro.

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Vela a tarchia in Liguria

Liguria e Campania

Il cornigiotto, che prende il nome dalla spiaggia di Cornigliano è il gozzo ligure più conosciuto: si distingue facilmente dagli altri per la prua inclinata all’indietro, che offre la massima spinta di galleggiamento quando lo scafo entra in mare e che offre poca presa al vento quando si deve ritornare verso terra a remi. Insomma, è fatto per esser varato dalle spiagge aperte al mare e per contrastare le dure raffiche di tramontana.

Le forme dello scafo, armato con una vela latina o una tarchia, sono piuttosto piene e il dritto di prua termina con una pernaccia di medie dimensioni. I gozzi, che presentano il dritto di prua inclinato in avanti, sono detti invece catalani, una testimonianza delle influenze reciproche che hanno sempre avuto tra loro le varie coste mediterranee.

Gozzo a Noli (SV)

In area napoletana, il gozzo, detto vuzzu, prendeva spesso l’appellativo vuzzu a menaide, dal nome della della rete di posta che era utilizzata soprattutto per il pesce azzurro. Visto che era mosso soprattutto dai remi il suo scafo era piuttosto sottile, sebbene fosse attrezzato anche con una vela a tarchia o latina. La poppa, dalle forme piuttosto stellate, consentiva all’equipaggio di remare anche all’indietro. L’imbarcazione era piuttosto alta di prua per fronteggiare il mare, ma bassa di poppa per calare e recuperare più agevolmente la rete. Oggi, tra i diversi gozzi sorrentini che sono stati restaurati e partecipano alle regate della vela latina, si può ricordare il Santa Rosa.

Barca da pesca catanese, con sperone. Stampa XIX sec.

Colori e decorazioni dello Ionio

Mentre alcuni gozzi della costa tirrenica della Sicilia possono esser scambiati di lontano con quelli liguri o napoletani, quelli della costa ionica presentano colori, forme e decorazioni che li rendono davvero unici. Ecco come le fantasie cromatiche che abbellivano il buzzettu sarausanu (gozzetto siracusano) sono illustrate da Filippo Castro, in un testo di riferimento sulle barche della Sicilia3:

Al margine prodiero, prossimi alla ruota, erano dipinti in bianco e nero gli occhi apotropaici con sopracciglia, detti occhi finnici (occhi fenici), gradevolmente stilizzati. Sulla superficie esterna dei parapetti, in prossimità delle ruote opposte, erano disegnate in azzurro o in altro colore di contrasto delle volute che formavano un ricamo composto di foglie di acanto stilizzate che si potevano ripetere, secondo il gusto del pittore o del proprietario. Sempre sulla superficie esterna dei parapetti, a contornare gli ombrinali, erano dipinti dei petali di fiori gialli o azzurri.

Gozzo siciliano

Altrettanto elaborata era la decorazione di altri gozzi ionici, come le sardare di Aci Trezza, rese famose dalla Provvidenza, la protagonista del romanzo I Malavoglia di Giovanni Verga, di cui alcuni anni fa fu realizzata una ricostruzione, che comprendeva un elaborato apparato ornamentale. Alcune barche da pesca catanesi aggiungevano poi alla loro ricca decorazione, che comprendeva elementi floreali, strisce di colori e varie figure mitiche, un’altissima pernaccia e uno sperone, che sopravanzava la prua di un metro.

L’isola di Malta, tanto prossima alle coste siciliane, condivide con queste il cromatismo che caratterizza lo scafo del gozzo locale, il luzzu. Si tratta di barche piuttosto pesanti, che riparano sempre in porto e hanno un’ottima tenuta del mare. La loro opera morta è colorata generalmente in azzurro, mentre la cinta è color rosso-ocra. L’estremità della frisata è gialla, mentre il suo corso in qualche caso è decorato con figure mitologiche, mentre la pernaccia è quasi sempre dipinta di verde. Le forme delle piccole falchette, rimovibili per facilitare la vogata, sono incorniciate con toni diversi. All’estrema prua, il cavallino si innalza notevolmente creando una superficie triangolare. Questa, dipinta solititamente di giallo, in molti luzzu è ornata da occhi, completi di eleganti sopracciglia.

Guz croato

Anche in Adriatico

Di solito pensiamo al gozzo come a una barca tirrenica e immaginiamo l’Adriatico solcato solo da imbarcazioni pesanti e massicce, a fondo piatto, come i bragozzi. La costa della Dalmazia, invece, con le sue coste alte e rocciose, le sue innumerevoli isole e la miriade di ridossi naturali, ha favorito lo sviluppo di diverse tipologie di gozzi.

Tra questi il più diffuso è il guz a remi, una barchetta di 4 o 5 metri dalle forme aggraziate, che presenta un piccolo boccaporto a prua. Tipica dell’isola di Murter, la capitale dell’arcipelago croato delle Incoronate, è invece la gajeta. Lunga dai 5 ai 7 metri e armata con una vela latina, è una barca tuttofare, le cui forme piene la rendono adatta alla pesca ma anche al trasporto di materiali, di persone e di bestiame verso gli approdi sparsi lungo le isole. Fino ad oggi la tradizione costruttiva delle gajeta non si è mai interrotta ed è quindi possibile ammirare parecchie di queste imbarcazioni nei raduni dedicati alla vela latina.

Nell’isola di Lissa, situata in mezzo all’Adriatico, si utilizzava invece la gajeta falkuša (gaeta falcata), un‘imbarcazione ormai scomparsa. La stagione di pesca al pesce azzurro si svolgeva nelle acque di Pelagrusa, un gruppo di isolotti disabitati a una quarantina di miglia a Sud di Lissa. La gajeta, lunga circa 9 metri e armata con una latina e uno spigone con un fiocco, conciliava esigenze contrastanti. Doveva infatti salpare sotto vela da Lissa verso Pelagrusa, carica di sale e di reti da pesca, e doveva farvi poi ritorno, stivata di barilotti di sardine salate: navigazioni per le quali era necessaria un’alta opera morta e buone capacità veliche.

Invece, per calare i tramagli intorno a Pelagrusa, occorreva disporre di uno scafo basso di bordo e facilmente manovrabile a remi. Il problema era risolto con tre falchette amovibili per lato, tenute in posizione quando la barca era sotto vela, che le consentivano di abbattersi senza imbarcare acqua. Per ragioni di ergonomia, invece, quando occorreva vogare e calare le reti le falchette venivano sfilate e lasciate a terra. Oggi alcune gajeta falkuša sono state ricostruite e partecipano a numerose feste del mare che si tengono in tutta Europa.

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La struttura di un lodsu tunisino.

Gozzi africani

L’arcipelago delle Kerkennah si trova sulla costa tunisina, in una zona di mare caratterizzata da bassi fondali, dai quali emerge una manciata di isolotti sabbiosi che si distinguono da lontano per la presenza di qualche palma. è questo l’ambiente che ospita un’intera flotta di gozzi a vela latina, i lodsu. Mentre sulle altre coste del Mediterraneo i pochi gozzi tradizionali rimasti sono relegati per lo più ad attività ricreative, qui il tempo sembra essersi fermato: tutte le mattine una flottiglia di lodsu prende il largo per raggiungere i luoghi di pesca.

La costruzione di queste barche non è particolarmente raffinata, perché si cerca di evitare le costose essenze di importazione e si utilizzano quindi per lo più i legnami locali, compreso l’eucaliptus. Gli scafi, che alle Kerkennah non devono essere alati sulla spiaggia tutte le sere, sono particolarmente robusti perché si ritiene che un lodsu debba durare tutta la vita attiva di un pescatore. Le loro forme sono perfettamente adattate all’ambiente: la grande vela latina, confezionata in cotone, consente di mantenere delle buone andature mentre il basso pescaggio permette di navigare anche su bassissimi fondali. Ciò spiega la presenza a bordo, oltre ai remi, anche di una pertica, utilizzata per la manovra ma anche per piantarla sulla sabbia, per ormeggiarsi provvisoriamente.

Lodsu tunisino

Storie di emigrazione

Quali strumenti di lavoro quotidiano, i gozzi hanno accompagnato le stagioni di pesca e le migrazioni dei nostri pescatori lungo le coste del Mediterraneo. Tali trasferimenti avvenivano quando la ricerca di nuove zone di pesca portava ad allontanarsi sempre più dal porto di origine. Dopo qualche stagione particolarmente fruttuosa poteva capitare che i pescatori decidessero di trasferirsi definitivamente, con la famiglia, nella nuova località.

Così, nel corso del Novecento i pescatori campani si sono diffusi su molte coste del Tirreno: dalla Sardegna alla Toscana. Maestri d’ascia campani, da parte loro, diedero vita nella seconda metà dell’Ottocento, a una fortunata migrazione verso la Costa Azzurra e la Provenza. Qui i prodotti del loro lavoro, gozzi più raffinati e più economici di quelli locali, si imposero sul mercato d’Oltralpe. Ancor oggi in Francia sono ricordati i nomi di origine italiana di molti maestri d’ascia.

L’emigrazione più avventurosa fu compiuta, dopo il 1870, da nostri pescatori che si trasferirono sulle coste della California, nella baia di San Francisco e in quella di Monterey. Qui misero in mare una flottiglia di gozzi a vela latina, battezzati feluccas, dalle forme adattate alle condizioni dell’Oceano Pacifico. Il giornale «San Francisco Chronicle» nel febbraio del 1886 indicava che ben 150 feluccas erano allora in attività.

La Felucca “Nuovo Mondo” a San Francisco.

Le dimensioni di queste imbarcazioni variavano dai 6 ai 10 metri; la carena era stellata, sia a prua sia a poppa. L’opera morta, piuttosto bassa, dava loro un aspetto slanciato ed elegante. La vela latina era sorretta da un albero a calcese inclinato decisamente in avanti. H.I. Chapelle nel suo “American Small Sailing Craft”, un testo di riferimento sulla tradizione marinara USA, considera le feluccas tanto importanti da riportare la loro immagine in copertina. Commenta poi: «La vela latina era pericolosa nelle mani di chi non fosse addestrato; ciò nonostante queste barche ebbero a lamentare pochissimi incidenti perché gli equipaggi erano generalmente molto abili nella manovra».4

Agli inizi del Novecento la precoce motorizzazione dei pescherecci californiani ha comportato la scomparsa delle feluccas, ma negli anni ’80 a San Francisco ne è stata realizzata una copia, che è stata ribattezzata Nuovo Mondo.

Note:
1) è il motto del F.A.I. (Fondo per l’Ambiente Italiano)
2) Giovanni Panella – Gozzi, marinai e pescatori, storie del Mediterraneo, La nave di carta Editore, 2021.
3) Filippo Castro – Pescatori e barche di Sicilia, Centro di studi filologici e linguistici siciliani, Palermo, 2018.
4) H.I Chapelle – American Sailing Craft, Norton & Company, New York, 1951.<p style=”text-align: center;”></p>

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