Curiosità storiche: barche fuori contesto
Quando ci avviciniamo a un’imbarcazione tradizionale siamo naturalmente portati a sottolineare lo stretto legame che questa ha con il luogo, con lo specchio d’acqua e con le tradizioni locali. Ma non è detto che sia sempre così.
A volte può capitare d’imbatterci in esemplari che ci appaiono come delle contaminazioni, delle barche che sembrano estranee al loro contesto storico o geografico. Quando le scopriamo, la prima reazione è: “ma questa, cosa c’entra? è fuori posto!” Ed invece, cercare di capire da dove saltano fuori e quali storie abbiano da raccontarci è un buon esercizio che ci aiuta a individuare i mille canali attraverso i quali la tradizione marittima si espande, si diffonde e si contamina.
Tra i primi che mi vengono in mente, accenno ad alcuni casi di barche “fuori contesto”, nell’intento di sollecitare i lettori a segnalare altre storie, altri spostamenti, altre curiosità, altre influenze. Nel caso più semplice, si tratta della questione di un’attrezzatura non del tutto conforme, che si può manifestare in tanti modi.

Ad esempio, si può trattare di tentativi di evoluzione che sono falliti o che non hanno avuto seguito: come quella degli Argus. Era questa una classe di gozzi da regata che fu attiva in Liguria nella Riviera di Ponente tra gli anni ‘30 e ‘50, convertendo un tipo di barca da lavoro in una da competizione, armata con un’attrezzatura Marconi e dotata di deriva mobile. Gli scafi, lunghi solo quattro metri, erano resi particolarmente leggeri dalle loro sottili ordinate piegate a vapore, mentre l’albero raggiungeva l’altezza di 8,30 metri.

Le regate degli Argus, che raccoglievano decine di imbarcazioni, si svolgevano anche all’Idroscalo di Milano. Nel corso degli anni ’50 tuttavia, con la diffusione in tutta Italia delle classi veliche internazionali, la loro attività agonistica si ridusse progressivamente finché questi gozzi scomparvero.
Qualche anno fa mi sono capitate fra le mani delle cartoline ingiallite, intitolate: “Saluti da Viareggio” che ritraevano delle inconfondibili paranze adriatiche. La mia reazione è stata di fastidio per quello che sembrava un falso evidente: come succede sul Canal Grande, quando le comitive di giapponesi in gita sulle gondole esigono, come accompagnamento musicale: “O sole mio”. Solo più tardi ho scoperto che quell’immagine diceva il vero e che molte famiglie di pescatori dell’Adriatico erano emigrate a Viareggio con le loro paranze. Già alla fine dell’Ottocento qualche pescatore di San Benedetto del Tronto, che era abituato a spingersi fino allo Ionio, si era avventurato nel Tirreno.
Col passare degli anni la conoscenza di quel mare si era poi approfondita perché molti marinai adriatici avevano svolto il servizio militare nella Regia Marina alla Spezia. D’altra parte lo specchio di mare tra la Corsica e la Toscana è sempre stato particolarmente pescoso, tanto che i liguri facevano la loro “stagione delle acciughe” spostandosi in Capraia, mentre i marinai viareggini, che pure erano ottimi, non avevano sviluppato del tutto le potenzialità della loro zona di pesca. Così, nel 1915, quando l’Adriatico divenne zona di guerra e fu cosparso di campi minati che mandarono a fondo diversi pescherecci, ci fu l’esodo d’intere famiglie verso i porti del Tirreno.
Le imbarcazioni minori furono inviate a Livorno su vagoni ferroviari mentre le paranze, cariche di masserizie e di averi di casa, fecero il periplo della Penisola per stabilirsi poi ad Anzio, Nettuno, Le Grazie e Bocca di Magra, dove fu allestita una sistemazione provvisoria, sotto tende di fortuna. Il nucleo più consistente di pescatori sanbenedettesi, tuttavia, finì per stabilirsi a Viareggio. Nell’ambiente della gente di mare le loro capacità professionali furono subito apprezzate e così gli “adriatici”, furono accettati a pieno titolo e si inserirono definitivamente nelle varie comunità locali.
Anche il secondo dopoguerra vide fenomeni migratori lungo le nostre coste: questa volta si trattò di pescatori napoletani e siciliani che si trasferirono sulle spiagge della Liguria portando con sé le loro tecniche di pesca e le loro barche. Carlo Levi, incontrandoli negli anni ‘50 al largo di Alassio, li descrisse così:
“Ed ecco delle barche lontane su cui ci volgiamo mutando di rotta. Appena posso distinguerle, le riconosco alla forma, ai colori incantevoli, strani su questo mare di Liguria: sono le barche di Sicilia, le barche di Aci Trezza, con i lunghi profili delle navi greche, i bordi azzurri, gialli, verdi e violetti, e l’occhio dipinto a prua, che guarda il mare. Che cos’è quell’occhio? chiede il commendatore.
È l’occhio della barca”, ci gridano allegri i pescatori. (1)
Erano abili nella pesca ma il loro successo era anche dovuto alla capacità di coabitare, sulle stesse spiagge, con i pescatori della Liguria. La regola era quella di non entrare mai in concorrenza diretta: pescavano quindi con tecniche diverse, in ore diverse. Oggi questa vicenda si è conclusa: sono ormai tutti in pensione. Negli angoli di qualche spiaggia della Liguria, come a Noli o a Varigotti, rimangono dei gozzi in abbandono che nascondono nelle loro linee la storia di una migrazione di uomini… e di barche.

Le inglesine, le eleganti lancette a remi del Lago di Como e del Lago Maggiore, ci ricordano invece i primi passi del turismo nel nostro Paese. A metà dell’Ottocento, ne erano protagonisti soprattutto i cittadini britannici, che portarono in Nord Italia lo “skiff”, una barca fluviale da passeggio costruita con la tecnica del clinker, che nella letteratura inglese si è aggiudicata un suo spazio come protagonista del racconto umoristico “Tre uomini in barca” di Jerome K. Jerome. La sua diffusione sui laghi italiani costituisce un raro esempio di importazione – riuscita – di un “saper fare” estraneo alla cultura marittima mediterranea. La costruzione a clinker prevede che il fasciame, che è parzialmente sovrapposto con l’utilizzo di chiodi ribattuti, sia il primo a dar forma allo scafo; solo in seguito è rafforzato con elementi di ordinate.

Come si può immaginare, è richiesta la massima precisione nel trattare, sistemare, accostare e accavallare le tavole tra loro e soprattutto nel portarle a rastremarsi sul quadro di poppa e sulla ruota di prua. In Italia, solo un numero limitato di cantieri si sono quindi specializzati in tali lavorazioni e ad essi gli armatori debbono necessariamente rivolgersi per le operazioni di riparazione del fasciame o di sostituzione di qualche tavola. Questa tecnica, praticata da più di 2000 anni in Scandinavia e Nord Europa, è tanto legata alla cultura marittima nordica che nel 2019 le nazioni scandinave hanno fatto domanda all’UNESCO perché sia inserita nella lista del Patrimonio Intangibile dell’Umanità.
Si può ricordare che l’altra imbarcazione a clinker che ha avuto larga diffusione in Italia è stata il dinghy 12 piedi. Nel 1913, in un periodo in cui dominavano i grandi yacht e in cui le barche da regata erano riservate ai più abbienti, il progetto del britannico George Cockshott vinse il concorso indetto dalla Boat Racing Association per una piccola deriva monotipo che rendesse più accessibile l’andare a vela. La sua rapida e ampia diffusione in tutta Europa rappresentò un passo avanti nel processo di democratizzazione di tale sport. Il primo esemplare realizzato in Italia fu il Pierino del marchese E. Raggio, messo in mare nel 1929 dal cantiere Depanger di Capodistria. L’imbarcazione è oggi esposta al Galata Museo del Mare di Genova. Se, a partire dalla fine degli anni ‘70 i dinghies sono stati realizzati anche in vetroresina, se ne è voluta ricordare l’origine mantenendo l’aspetto esterno del fasciame dello scafo.
Non vi è dubbio che le barche che hanno goduto di maggiore mobilità, rispetto al loro luogo di origine, siano state quelle dei nobili e dei principi. Tra queste, primeggia senza dubbio la gondola: vero simbolo, ante litteram, di moda navale e di globalizzazione. A partire dal Settecento non c’era palazzo nobiliare o reggia europea che non facesse sfoggio di questo “status symbol”. A volte, queste furono ritratte nei dipinti del tempo, come nella veduta del primo Settecento di Giacomo Vanvitelli: La Darsena di Napoli (oggi alla galleria Sabauda di Torino) che, tra le barche ammassate sulla banchina, raffigura un paio di gondole. Tali imbarcazioni, naturalmente, giocavano un ruolo di primo piano in occasione di feste e festeggiamenti di corte. Nel 1735 il re Carlo di Borbone, a un anno dal suo trionfale ingresso a Napoli, si imbarcò per la Sicilia:
“Nel corteo, organizzato in onore del giovane re, figuravano anche cinque gondole riccamente decorate, nelle quali le più belle tra le donne del luogo si alternavano ai remi, al timone o suonavano e cantavano versi di allegrezza e presagi di comun bene”. (2)
Oggi non tutte queste gondole “fuori posto” sono scomparse: sull’isola Bella del lago Maggiore se ne può ancora scoprire una che si intravede all’interno di una darsena coperta.
Da parte sua, la gondola conservata dal Museo Barca Lariana, che proviene dalla stupenda Villa del Balbianello, ha una particolare importanza: non solo è una delle più antiche gondole esistenti, ma è anche perfettamente conservata nella sua originalità, anche se fu costruita da maestranze locali.
Per soddisfare la richiesta di gondole da parte dei proprietari delle sfarzose ville del lago, verso la fine del ‘700 alcuni maestri d’ascia veneziani si trasferirono sul Lago di Como. Fra questi arsenalotti c’erano i Taroni, che aprirono poi a Carate Urio uno dei cantieri più produttivi e rinomati dell’epoca. Le loro gondole furono opportunamente adattate alle condizioni di navigazione locale: per questo lo scafo non presenta l’asimmetria caratteristica delle gondole veneziane originali. Quella del Museo della Barca Lariana è poi provvista del rarissimo felze, la leggera cabina amovibile che veniva collocata sullo scafo nella stagione invernale. Sulla sua coperta di prua è ben visibile lo stemma visconteo, simbolo legato a doppio filo con Milano e la sua storia: lo ritroviamo nello scudo del municipio milanese e nel logo della storica casa automobilistica Alfa Romeo. L’intera storia di questa preziosa imbarcazione sarà raccontata nella Sala delle Gondole del museo, la cui inaugurazione è prevista per il mese di aprile 2022.
Anche altri musei costudiscono imbarcazioni “fuori contesto”, che testimoniano degli scambi diplomatici tra le antiche potenze del Mediterraneo. Ad esempio, nella Sezione Navale della Certosa San Martino, a Napoli, è conservata una straordinaria lancia turca della seconda metà del Settecento: si tratta di un Caicco Reale decorato con elegantissimi arabeschi, che fu donato dal Sultano Selim III a Ferdinando IV di Borbone. Imbarcazioni simili, dalle linee molto affinate e caratterizzate da remi con imponenti gironi, appaiono frequentemente nella ricchissima iconografia del Bosforo e del Corno d’Oro.

Le peote (dette anche peate), presenti nella Laguna di Venezia in gran numero, svolgevano un ruolo essenziale nei trasporti della città, simile a quello degli odierni autocarri: basse sull’acqua, prive di slanci a poppa e a prua, panciute e capienti, erano manovrate a forza di lunghi remi. Talvolta il barcaiolo doveva puntare da prua il remo nel fango e spingerlo con forza, camminando verso l’estrema poppa. Si trattava di una manovra faticosa, che spiega la loro scomparsa nella seconda metà del Novecento. Oggi, per ritrovare un esemplare di peota, collocata del tutto “fuori posto”, bisogna spostarsi a Torino, alla reggia della Venaria Reale.

Nel 1731 la Peota Reale, trasformata in imbarcazione da parata e commissionata dai Savoia a maestri d’ascia e ad artisti veneziani, lasciò Venezia: per giungere a Torino fu necessario un mese di viaggio, trainata da cavalli, per risalire la corrente del Po. Per un secolo e mezzo le cronache raccontano come svolgesse poi egregiamente il suo ruolo, nei festeggiamenti di corte e nella celebrazione dei sontuosi matrimoni di Casa Savoia. Nel 1873 Vittorio Emanuele II la donò al Museo Civico d’Arte Antica, a Palazzo Madama, mentre oggi è entrata a far parte delle collezioni della Venaria Reale. Le splendide statue dorate che la ornano sono opera di Matteo Calderoni: a prua dominano le figure di Narciso e di due vegliardi che simboleggiano il Po e l’Adige, mentre la poppa è decorata da sculture di putti, trascinati in movimento da cavalli marini.
Il rilevante valore artistico dell’imbarcazione, in qualche modo, ne oscura quello documentario.
Il fatto che i Savoia considerassero la Peota Reale più un oggetto da parata che un’imbarcazione è stato confermato dagli studiosi che volevano ricostruirne la storia. Dopo inutili ricerche negli Archivi Sabaudi, la relativa documentazione è stata scoperta nei faldoni che registravano “mobili e arredi”.
Note:
Nota 1) Carlo Levi, La balena di Alassio in Mare, Raccolta di storie di mare, Mondadori, 1978.
Nota 2) Pietro Colletta, Storia del Reame di Napoli, Firenze, Sansoni, 1962.<p style=”text-align: center;”></p>