Bernardo Zuccon: Uno dei “Fab Four”
Alla guida con la sorella Martina di uno degli studi di progettazione più importanti del mondo, Bernardo Zuccon svela alcuni di quegli aspetti privati della sua vita familiare che sono alla base della sua formazione personale e che tuttora lo orientano nelle scelte professionali.

Quando la storia di un’azienda si fonda su rapporti interpersonali particolarmente intensi, la semplice cronologia degli eventi non basta mai a raccontarla compiutamente. Se poi si tratta di una famiglia, il filo conduttore diventa immancabilmente quello dei ricordi, delle sensazioni, dei sentimenti profondi. Ecco quindi che, per quanto Zuccon International Project sia un marchio di levatura mondiale nel campo della progettazione nautica, preferiamo spingere lo sguardo più in là e parlare di Gianni, Paola, Martina e Bernardo: dunque, non soltanto quattro importanti architetti “consociati”, quanto piuttosto un papà, una mamma e i loro due figli, accomunati da una grande passione e, soprattutto, legati da un grande affetto. Purtroppo, nell’ottobre 2017, questo magico quartetto ha perso Paola e, forse anche per questo, è come se quel passaggio di consegne che aveva già visto Martina e Bernardo assumere la guida del celebre studio avesse assunto un aspetto ancor più definitivo.
Nel corso dell’ultimo salone di Düsseldorf, abbiamo incontrato i due fratelli sul fly del Sanlorenzo SL96, una loro creatura che molti considerano – a ragione – una pietra miliare del design. Quando la conversazione ha cominciato ad assumere i contorni dell’intervista, Martina – la discrezione e la riservatezza fatte persona – ha lasciato la parola a Bernardo.

Lei è nato in una famiglia di grandi architetti, poi ha percorso autonomamente una brillante carriera accademica. Sono mai entrati in rotta di collisione questi due tipi di formazione?
Francamente mi è difficile distinguere tra il percorso di vita e il percorso professionale, perché è stata una sorta di ingranaggio che si è messo in moto fin dall’inizio. In un certo senso, posso dire di aver incominciato a lavorare in questo settore da subito, perché nel 1982, quando sono nato, i miei genitori erano già completamente immersi nel mondo della nautica. Non voglio tirare in ballo una componente chimica o genetica. Sta di fatto però che, sebbene non avessi avuto la minima spinta da parte dei miei genitori, sapevo che questo sarebbe stato il mio destino.
Immagini, per esempio, con quanta trepidazione da bambino aspettavo il mese di ottobre che, per me, rappresentava il rituale del salone di Genova. Già per il solo fatto di poter saltare la scuola mi sentivo grande. La fiera era per me un meraviglioso parco giochi. Potevo salire sulle barche, infilarmi dappertutto, nascondermi.
E al ritorno tante cose da raccontare.
Certo. Per un bambino come me era un’esperienza incredibile, fatta di tante sfaccettature. Tra le centinaia di immagini che mi vengono in mente, c’è per esempio quella dello stand Ferretti, che tutti, per il suo aspetto spettacolare, chiamavano ‘il palazzo di vetro’. Nel retro c’era il mitico Ermanno, che organizzava due turni di pranzo per il team – del quale i miei genitori facevano parte – e per i clienti. Bene, lì in mezzo c’era un cartello che mostrava tutti i modelli esposti e, ad ogni barca venduta, qualcuno metteva una specie di bandierina. Di questi segnalini ce n’erano letteralmente a decine e io ero affascinato da questa cosa, perciò ogni tanto andavo a controllare la situazione. Al ritorno, parlavo di barche con tutti, le disegnavo, le inventavo.
Poi il gioco si è fatto serio.
Non c’è dubbio. E in questo importante passaggio, il ruolo dei miei genitori è stato ancora una volta fondamentale, in quanto mi hanno fatto capire che esisteva un solo modo per poterlo compiere con passo sicuro: studiare con il massimo impegno per dotarmi di quella formazione globale che poi mi avrebbe permesso di affrontare il lavoro di progettista con la visione più ampia possibile.
Dunque, quello che spesso si trasforma in uno scontro generazionale, nel suo caso non c’è stato. Lo studio Zuccon International Project appare come un luogo di grande armonia.
Come spesso accade, ciò che si vede dall’esterno è soltanto il 10 per cento di quel che succede dietro le quinte. Dico questo perché, in realtà, è stata una sana battaglia. Martina è entrata in studio nel 2005, io nel 2007. A quei tempi, mio padre dettava legge dicendo ‘tutto quello che esce da qui lo decido io’. Ed era così. Punto. Perciò, prima di arrivare ad acquisire la totale responsabilità di ciò che oggi costituisce la quotidianità del nostro lavoro in studio, sono dovuti passare almeno dieci anni. Un arco di tempo durante il quale, silenziosamente e con il massimo rispetto, abbiamo cercato di assorbire il più possibile da quell’immenso archivio di esperienza che avevamo a disposizione. Poi, finalmente, è giunto il momento in cui i nostri genitori ci hanno permesso di dire, sempre con grande umiltà, ‘adesso vi facciamo capire che siamo in grado di dire la nostra’.
Non mi dica che un personaggio carismatico come suo padre si è fatto completamente da parte.
Guardi, qualche tempo fa un giornalista mi ha chiesto: ‘dimmi la verità, quanto del lavoro tuo e di Martina è farina del vostro sacco e quanto, invece, è del sacco di tuo padre?’ Bene, mi creda: oggi, nostro padre è esclusivamente uno spettatore – certamente orgoglioso, sapiente, critico, attivo – ma soltanto uno spettatore. Ovviamente, ascoltiamo con la massima attenzione i suoi consigli. Saremmo sciocchi a non farlo. Ma una matita non può essere tenuta da due mani diverse. E lui, che ce lo ha insegnato, è il primo a saperlo.
Ma per restare all’esempio della matita, anche lei e Martina rappresentate due mani diverse. Riuscite sempre ad andare d’accordo?
Martina è indispensabile. Essendo molto riservata, è molto di più di quel che si possa immaginare. Un po’ come la mamma. Ricordo per esempio che ogni tanto qualcuno, meravigliato, diceva: ‘Paola, non immaginavo che tu…’ Ecco, Martina è lo stesso: per com’è fatta, tende quasi sempre a passare inosservata. Ma io non potrei lavorare senza di lei. Lei colma le mie lacune. È quella che dà ordine al disordine. Io sono quello che mette in discussione e solleva problemi, Martina è quella che riporta il tutto sul binario della razionalità. E poi ricorda tutto.
A proposito di memoria: cos’è che un architetto non dovrebbe mai dimenticare, progettando una barca?
Non dovrebbe mai dimenticare che è una barca. Non è una battuta. Anzi, voglio sperare che qualsiasi architetto che si rispetti le risponderebbe nello stesso modo. Intendiamoci, con questo non voglio dire che non si debba osare: significa soltanto che, nel farlo, si deve sempre tenere bene a mente che cosa una barca deve necessariamente garantire. Senza troppo preoccuparsi dell’impatto che le proprie idee possono avere su un certo conformismo. A questo proposito mi piace ricordare di quando mio padre propose a Bertram le vetrate a scafo. Lì per lì, gli americani reagirono come per dire ‘tu, italiano, non lo sai che cosa significa navigare in oceano’. Ma lui, studi e prove alla mano, insegnò loro che era possibile inserire un vetro nello scafo di un fisherman senza minimamente intaccarne la sicurezza.
Oggi, tuttavia, si parla sempre più spesso di barca-casa. Non è un concetto decisamente poco marinaresco?
Dipende dal senso che si vuole dare a questa definizione. Se si tratta di un messaggio che pretende di assegnare alla barca quel particolare senso di sicurezza e protezione che soltanto la propria casa può offrire, non sono in disaccordo, pur restando dell’idea che se compro una barca è proprio lì che desidero sentirmi, è lì che voglio trovare un certo linguaggio. Se però si tratta di snaturare la barca nei suoi contenuti essenziali, cioè quelli che hanno a che fare con la sicurezza in mare, con il disegno funzionale degli arredi, con la cura di quei dettagli che devono salvaguardare l’incolumità delle persone che vivono all’interno di ambienti che sono in continuo movimento, allora no: è un concetto per nulla marinaresco che mi trova in totale disaccordo.
Restando alle definizioni, agli slogan e alle parole abusate, non le sembra che nel mondo del design si stia parlando un po’ troppo di originalità e di lusso, quasi si trattasse delle uniche premesse sulle quali basare un progetto?
Ritengo che quello sia un percorso pericoloso. Peraltro le dirò che termini come ‘originalità’ e ‘originale’ non mi sono mai piaciuti. Così come ‘gusto’ e ‘buongusto’. Quanto al lusso, si tratta per me di un concetto indissolubilmente legato al tempo e, perciò, assai lontano dall’accezione comune. Il fatto è che odio le cose temporanee. Per questo mi appassionano gli edifici storici. Vengo da una città – Roma – che mi permette di ammirare un’incredibile quantità di cose che sono state costruite secoli se non millenni addietro. Prenda i mercati Traianei, per esempio, che sono uno dei capolavori più grandi proprio perché sono stati realizzati senza alcun intento autocelebrativo, ma per il popolo. Tutto questo è lontanissimo dal concetto di provvisorio. Per questo motivo, ciò che oggi mi preoccupa nel nostro settore è il fatto che davvero in pochi cercano di costruire qualcosa che possa essere solido nel tempo.
Una parola che invece le piace?
Stile: un concetto che può essere applicato a un lasso temporale ampio, persino infinito. Esattamente l’opposto di trend, che mi suggerisce qualcosa che è destinato a morire.
In questo momento ci troviamo al Boot di Düsseldorf, un salone sicuramente molto importante per misurare su larga scala lo stato dell’arte. Che cosa osserva girando per i padiglioni? Cos’è che le piace o non le piace?
Corro il rischio di ripetermi dicendo che pure in questo ho preso tanto dai miei genitori. Ai tempi in cui non c’erano i siti Internet, gli smartphone, le chiavette Usb, li vedevi girare in continuazione, prendere misure, scattare foto, recuperare tutto il materiale possibile. Tornavano a casa con buste stracolme di dépliant. Ecco, io faccio la stessa cosa ma con gli strumenti di adesso. Le grandi fiere come questa costituiscono per noi la possibilità di capire in breve tempo che cosa sta succedendo nel mondo della progettazione. E di questo salone, in particolare, adoro la possibilità di salire sulla balconata del padiglione 6 e guardare dall’alto le barche più grandi da diversi punti di vista: per esempio, tutti i fly di quel determinato cantiere, per capire che direzione sta prendendo.
E che direzione sta prendendo Bernardo Zuccon?
Mi permetta di risponderle in un modo che può suonare un po’ pomposo: sto seguendo un ‘percorso di sperimentazione tipologica’. Vede, una delle cose che più mi hanno appassionato nel corso dei miei di studi di architettura è stato il concetto di tipologia abitativa, cioè il fatto che un luogo – come per esempio la casa – possa essere interpretato secondo diverse modalità: la casa a schiera, la casa a torre, la casa a patio eccetera. Sempre di casa si tratta, ma secondo diverse sfumature. Penso che, a parte alcuni temi scontati, come quello della sostenibilità e dell’approccio ecologico, a dover essere applicato nella nautica dovrebbe essere proprio questo concetto. E, infatti, è esattamente quel che stiamo facendo nel nostro studio: proviamo cioè ad alterare gli equilibri di un disegno per capire quali diverse sfumature se ne possano ricavare. Prodotti tipici di questo nostro approccio sono i Sanlorenzo SL 96 e 102, dove l’alterazione è costituita appunto dalla asimmetria.
Un’alterazione che, in questo caso, non si traduce soltanto in termini di metri quadrati.
Esattamente. Infatti quasi mi dispiace quando sento magnificare lo ‘spazio in più’ consentito da questa impostazione. In realtà, il risultato ottenuto è molto più profondo e complesso. Se sali a bordo di una barca tradizionale e ti metti sull’asse di simmetria, guardando a destra e poi a sinistra hai un’esperienza sensoriale pressoché identica. Questo perché, a prescindere da tutti gli orpelli (arredi, decor eccetera), la tua distanza da quello che è il genius loci, il mare, è la stessa: sia da una parte sia dall’altra, tu guardi attraverso un vetro che sarà più o meno alto, poi vedi una falchetta, un’impavesata, un capodibanda e poi l’acqua.
Se invece sali su un impianto asimmetrico, come per esempio, quello dell’SL 96, la prima cosa che noti – e che suggerisco sempre di sottolineare – è che se tu guardi a destra vedi un tipo di articolazione dello spazio che toglie un po’ di volumetria all’interno per consentire la presenza di un passavanti che serve alla movimentazione necessaria alla gestione e alla fruizione della barca; se guardi a sinistra, invece, percepisci immediatamente una distanza dal mare più ravvicinata, poiché l’ambiente si spinge fino alla murata. Questo rende l’esperienza a bordo molto più dinamica e, spero, anche più emozionale.
E poi c’è il tema della gerarchia degli ambienti.
Infatti mi sono chiesto: come posso valorizzare al massimo gli spazi riservati all’armatore, anche in termini di privacy? Come posso creare a bordo un’alterazione dei flussi per fare in modo che, per esempio, il proprietario possa uscire dalla sua cabina completamente svestito per andare a fare il bagno nudo, senza dover stare attento se lungo quel percorso incontra qualcuno? Ci abbiamo studiato parecchio e, alla fine, abbiamo trovato le soluzioni. Non ultima, quella di un cancelletto sul passavanti, che, quando è chiuso, sta a significare inequivocabilmente ‘non datemi fastidio’. Tutto questo, senza creare alcun problema di mobilità per gli altri ospiti o per l’equipaggio.
Stiamo parlando di modelli decisamente coraggiosi che, come pure il vostro Bluegame BGX70, rientrano tutti nell’orbita dei cantieri Sanlorenzo. Non è un caso, evidentemente.
Infatti non è un caso. Penso di essere molto fortunato a lavorare per questo cantiere, perché tra il progettare tipologie diverse per brand diversi e progettare tipologie diverse per un unico brand, scelgo questa seconda opzione per tutta la vita. E il fatto che Sanlorenzo ci abbia dato fiducia su tutti i prodotti (stiamo facendo la vetroresina, il metallo eccetera) ci fa sentire una responsabilità gigantesca. Ma poi c’è il fatto che, lavorando tutti i giorni con le stesse persone, viene a crearsi un legame collettivo quasi viscerale che risulta fondamentale ai fini del raggiungimento del risultato. Le dirò che mi capita pure di prendere qualche bonaria lavata di testa dai capibarca, che magari sono alle prese con la realizzazione di un disegno complicato. Dunque, per me non è soltanto usare la matita e disegnare. È tutto un contesto, una quotidianità, un intreccio di rapporti umani, come in un’orchestra.

Lei dice ‘orchestra’ e a me viene in mente quando, guardandovi insieme, come famiglia Zuccon, vi definivo ‘i Fab Four’ dell’architettura nautica. Le andrebbe di concludere questa intervista raccontando ancora qualcosa di quella band?
Come può immaginare, questa è una domanda che genera molta emozione. Pensi che in studio c’è una scrivania che è sempre lì, che non è stata mai toccata. Sopra ci sono ancora gli appunti di quel giorno in cui mamma aveva deciso di tornare perché assolutamente voleva lavorare. Ma vedevo che era affaticata. Ebbene, per me lei è ancora lì. La sento lavorare, la sento dialogare con noi. Se ho bisogno di un consiglio o di un parere, so che mio padre è pronto a darmelo, ma se non mi basta mi avvicino a quella scrivania e ascolto lei.
Mi piace molto questo suo paragone con una band, perché penso davvero che noi siamo quelli che suonano per accompagnare quella voce, cercando di dare il migliore sfondo possibile a quella melodia. Poi non so dirle se all’interno del gruppo io sono il chitarrista o il batterista. So solo che lei è la voce.
