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Da Giorgio V al cantiere Valdettaro: Vera Mary, la rinascita di una Signora del mare

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La goletta aurica Vera Mary

foto di Roberto Celi

Cronaca del restauro che ha riportato allo splendore dei suoi anni migliori la goletta aurica Vera Mary che il re d’Inghilterra donò allo skipper dello yacht reale Britannia.

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Il piano velico

Il restauro

Il restauro della signora del mare ha accompagnato il riaffiorare dei suoi trascorsi regali: appartenne, infatti, al re Giorgio V d’Inghilterra che, malato, l’acquistò dal primo armatore nel 1935 (pochi mesi prima della morte avvenuta il 20 gennaio 1936) per farne dono allo skipper dello yacht Britannia, Sir Philip Hunloke, come premio dei servizi resi a sua maestà, sulla cresta dell’onda.

Non fu forse casuale nella scelta della barca-regalo una circostanza: il nome della moglie del re, Mary. Coincidenze suggestive. Di sicuro un possesso lampo ma capace di evocare i fasti di un’epoca e la generosità di un suo protagonista, forgiato della scuola del mare fino a diventare, prima di salire sul trono, ammiraglio della Marina Britannica.

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Layout degli interni

Il restyling curato dal Cantiere Valdettaro delle Grazie

Così la goletta aurica Vera Mary, 22 metri di eleganza, 164,50 metri quadrati di vele, un carico di storia e un avvenire da star dopo il restyling curato dal Cantiere Valdettaro delle Grazie nel golfo della Spezia.

“Un cantiere che fa della cura delle barche d’epoca la sua missione, nel solco di un’attività ultracentenaria, fiore all’occhiello del Gruppo Valdettaro, guidato da Ugo Vanelo, che gestisce altri cantieri (l’ultimo a misura dei bisogni dei maxi yacht inaugurato lo scorso agosto ad Olbia) e dispone, nell’insenatura del Fezzano, di un marina” dice con orgoglio il manager Alessio Donno assorbito, nell’ultimo mese, dall’impegno a rilanciare il tradizionale raduno-regata a fine maggio nato su iniziativa dell’Aive, quando storia e restauro di Vera Mary saranno raccontati attraverso una mostra a cura di Federica Monacizzo prossima alla laurea magistrale in Design navale e nautico, già assunta in cantiere prima di terminare il corso di studi: anche così il Valdettaro guarda al futuro facendo tesoro dell’università spezzina vocata alla nautica.

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Doppia motorizzazione

La storia

Costruita e varata nel 1932 dal cantiere navale Berthom Boat Company (Lymington) su progetto di Joseph Soper, Vera Mary (dal nome della moglie del primo armatore George Mervyn Anstey Hamilton-Fletcher) ha avuto vari passaggi di mano, trascorsi mediterranei (con base a Sanremo e Cannes) e cambi di nome (Franik II e Hawaita) fino all’ultimo armatore di origine tedesca che, per inseguire il sogno della barca da re, è tornato al nome di origine e non ha messo fretta al cantiere, ponendo una sola condizione, dopo la consegna avvenuta nel 2017 ad epilogo del trasferimento terrestre (per 534 chilometri) da Bremgarten (Svizzera): studiare a fondo l’originaria conformazione per rigenerare lo yacht nel suo insieme, salvando il salvabile e ricostruirlo tal quale dove era fallato.

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La coperta con i paramare rialzati

Il tutto previo smontaggio integrale degli interni e ricostruzione degli stessi a terra, a lato dello scafo, nel capannone ad umidità controllata, per poi posizionarli al loro posto. Unica concessione oltre l’assetto d’antan: due motori e quindi due eliche per aver più spinta e per governare meglio nelle manovre di ormeggio.

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La ruota del timone

Per il resto, tutto come allora, quando il Regno Unito, con Giorgio V, raggiunse la massima espansione e anche quella barca era un’espressione di gloria nazionale.

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L’osteriggio di prua

Il varo

A novembre Vera Mary ha rigoduto dell’abbraccio del mare: un varo tecnico per avere riscontro del ricalcolo della linea di galleggiamento dopo il riassetto dei pesi indotto dalla rivisitazione architettonica per riportare la goletta alle origini.

“Di questa barca – spiega il giovane project manager del cantiere, Marco Maggiani – non esistevano progetti dettagliati ma solo fotografie del suo stato prima che l’armatore l’acquistasse. Era già stata restaurata anni prima in un cantiere tedesco ma con esiti discutibili. Per dare corso a studi e progettazione degli interventi abbiamo costituto un team dedicato, con ricorso anche a risorse esterne”.

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Il verricello dell’ancora

Ne hanno fatto parte l’ingegnere Alessandro Paganini e l’attrezzista Pierfrancesco Cè. “Abbiamo eseguito – puntualizza il primo – una scansione 3D con nuvola di punti per ricostruire la forma dello scafo ed eseguire i calcoli idrostatici e le previsioni di potenza, tanto che oggi la barca galleggia millimetricamente sulle sue linee dopo che, grazie ai calcoli e all’approccio tecnico messo in atto, l’abbiamo sottoposta ad una attenta cura dimagrante per rimetterla nell’assetto originale”.

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I canestrelli delle vele
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La colonna della chiesuola

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

“Su richiesta dell’armatore – evidenzia Maggiani – abbiamo sostituito l’originale motore su un solo lato, con due motori simmetrici da 70 cavalli cadauno sui lati della chiglia.

Tutto è stato ricostruito il più aderente all’assetto originale

Per il resto tutto è stato ricostruito il più aderente all’assetto originale: mobili interni ed attrezzature di coperta sono stati recuperati ove possibile grazie ad ebanisti e maestri d’ascia del cantiere Valdettaro, mentre tutto ciò che è stato costruito ex novo ha seguito la logica degli anni Trenta sia nelle tecniche che nei materiali”.

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La sentina

Per gli ottoni il cantiere è risalito alla fonderia francese Dryade che realizzò gli originali: gli ordini sono stati accompagnati da complimenti vicendevoli, a motivo della reciproca longevità aziendale. Il fasciame dello scafo (in legno di teak quello dell’opera morta e pitch pine quello dell’opera viva) è stato conservato dove possibile ma molte tavole sono state sostituite.

 

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L’alberatura in fase di restauro

Tra gli elementi qualificanti del restyling, la rinvergatura, cioè la posa a pressione di listelli di legno tra i corsi di fasciame in luogo del calafataggio quando lo spazio tra i commenti era troppo largo; ammonta a 900 metri l’insieme degli ‘inseriti’ inanellati, con l’effetto indotto di accrescere la solidità della struttura.

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Flatting sul coperchio di un boccaporto

Risanati inoltre alcuni bagli della tuga in teak, rialzata di 11 centimetri per ottenere una maggiore abitabilità interna e un paramare del pozzetto più protettivo. Salvata, invece, tutta l’ossatura composta da 50 ordinate (poste a distanza variabile tra i 28 e i 30 centimetri), due serrette che corrono da poppa a prua per tutta la lunghezza della barca, madieri in acciaio e rinforzi, anch’essi in acciaio, per gli attacchi delle lande.

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Lavabo della toilette

Completamente rifatta la coperta in doghe di teak dello spessore di 15 millimetri, che sommate all’interposto compensato da 25 millimetri elevano a 4 centimetri lo spessore del ponte. “Lavorare con Valdettaro – dice intanto Alessandro Paganini – è stato un grande onore e spero verranno nuove occasioni per gestire un altro progetto come questo, dove tradizione e strumenti tecnologici consentono di raggiungere stupendi risultati”.

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Restauro del pagliolato

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