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Quando il mare bolle: a nessuno piace caldo

Gli effetti macroscopici dei cambiamenti climatici, ben visibili sulla terraferma, incidono altrettanto anche se in maniera poco visibile – sull’ecosistema marino: un ambiente meno difendibile e non meno importante.

Difficile pensare ad un altro mare che, come il Mediterraneo, racchiuda in sé tante peculiarità. Non solo perché è il mare sulle cui sponde sono nate le più antiche civiltà, non solo perché sui suoi fondali riposano le testimonianze di millenni di storia, non solo perché la bellezza delle sue coste ci viene invidiata da tutto il mondo, ma anche perché con i suoi 2.510.000 chilometri quadrati aperti solo a Suez e Gibilterra, questo lago mancato è soggetto a processi climatici assolutamente specifici.

 

I barracuda, oggi ampiamente diffusi anche in Mediterraneo, sono pesci antichissimi. Come i pesci pipistrello
della foto sotto, rimasti “impressi” nella pesciara di Bolca.

 

Mancano, o almeno mancavano, fenomeni estremi come monsoni e uragani e tutt’al più si arriva a qualche bella burrasca; le maree sono praticamente inesistenti, le correnti moderate, le temperature sono, o almeno erano, mediamente temperate: tutte caratteristiche che, unite alla morfologia estremamente variegata dei fondali, hanno consentito nel succedersi delle ere geologiche lo sviluppo di molteplici nicchie biologiche e, conseguentemente, di una straordinaria biodiversità che oggi conta circa 17.000 specie.

Il tutto sotto l’imprinting di una salinità molto elevata dovuta da un lato alla forte evaporazione, alla quale l’entrata di acqua atlantica da Gibilterra può solo dare un timido aiuto, dall’altro allo scarso apporto di acque fluviali. Un mare splendido, in sostanza, ma anche un ecosistema di grande delicatezza da curare come una specie rara e a rischio estinzione.

 

fossili
I pesci pipistrello rimasti “impressi” nella pesciara di Bolca.

 

Questo quadro idilliaco sta però cambiando sotto la spinta di cambiamenti climatici apparentemente irreversibili, almeno in tempi brevi, e destinati comunque a cambiare non poco la situazione. Abbiamo già visto i meteorologi creare un neologismo per battezzare come “medicanes” (mediterranean hurricanes) gli uragani di casa nostra, la cui violenza con piogge torrenziali e vento in grado di superare i 150 km/h, ha poco da invidiare a quelli tropicali (basterebbe ricordare quanto successo lo scorso anno sulle coste nord-occidentali della Corsica).

Il fenomeno è per altro aggravato quest’anno dalle conseguenze del Niño, una corrente termica anomala che ogni 2-7 anni (l’ultima fu nel 2016) comporta il surriscaldamento degli oceani di tutto il mondo con pesanti conseguenze e che, pur nascendo nel sud del Pacifico orientale, arriva ad influire anche sul Mediterraneo. E c’è da aspettarsi che l’impatto fra le variazioni termiche estive e l’abbassamento delle temperature autunnali arricchisca nei prossimi mesi l’elenco dei medicanes.

Del resto, lo scorso luglio è stato definito il mese più caldo in assoluto da quando esistono le rilevazioni scientifiche, con temperature medie degli oceani che hanno raggiunto i 20,96°, mentre il livello di zero termico – tanto per restare a casa nostra – il 21 agosto ha stabilito un nuovo record europeo attestandosi ai 5.328 metri sulla media dei 3500 metri normalmente registrata sull’arco alpino. Una rilevazione che indirettamente riguarda anche il mare, dato che questa misura regola lo stato dei ghiacciai, sia quelli nostrani sia quelli delle calotte polari che, come noto, sono in pessimo e continuo degrado.

 

Canale di Panama

 

Un mare che cambia

Prima di addentrarci in una più specifica disamina della situazione, per tracciare una schematica immagine del Mediterraneo attraverso cifre facilmente comprensibili, ricordiamo che esso rappresenta solo lo 0,82% della superficie acquea della Terra, ma che tuttavia, con una profondità media di 1500 metri, ospita una straordinaria biodiversità. I 46.000 km delle sue coste racchiudono un mare che, se non fosse per lo Stretto di Gibilterra, la cui soglia sottomarina di appena 300 metri consente comunque uno scambio d’acqua limitato, o per il canale di Suez ancor più limitato, sarebbe – in compagnia del Mar Nero – solo un grande lago. Da cui una salinità media del 37% che fra l’altro rende particolarmente sapidi i nostri pesci.

Se aggiungiamo al riscaldamento delle acque marine i preesistenti problemi di degrado ambientale dovuti all’inquinamento, all’antropizzazione delle coste e agli esuberi di pesca, vediamo che il futuro del nostro mare, salvo drastici cambiamenti è tutt’altro che roseo. Limitandoci al comportamento dei pesci, l’elemento più macroscopico del mare, ma non necessariamente il più importante, vediamo che alcune specie migrano verso aree più favorevoli: un fenomeno denominato “meridionalizzazione”, che già dagli anni ’80 ha visto molte specie cercare nuovi habitat nei bacini più settentrionali dei nostri mari, mentre altre si adattano per quanto possibile alle nuove condizioni ambientali, e altre ancora, che non riescono a migrare o ad adattarsi, sono destinate a un lento viaggio verso l’estinzione.

Quasi tutti i pesci presenti nei nostri mari, prevalentemente a causa dell’overfishing che negli ultimi 30 anni ha incrementato il pescato di oltre il 100%, hanno in ogni caso subito una sensibile riduzione di taglia, un fenomeno che non solo ha pericolosamente avvicinato le specie all’età della loro prima riproduzione, con le ovvie conseguenze, ma che proprio per la diminuzione di taglia ne ha anche indebolito le difese nei confronti di nuovi predatori tropicali.

 

I cambiamenti climatici in atto mettono paura, ma auguriamoci che le suggestive immagini di un Mediterraneo ricco di vita non restino solo un ricordo.

 

Il tropico in casa

Certo, affermare che il Mediterraneo stia viaggiando verso un futuro tropicale potrebbe essere avventato ma, a prescindere dalla presenza umana che è solo una briciola insignificante nella storia della Terra, vale la pena ricordare che il Mediterraneo tropicale lo era già stato, e le testimonianze di quel passato ultraremoto sono ancora oggi ben visibili.

La “pesciara” di Bolca (VR), ai piedi delle Dolomiti, offre ad esempio una quantità di resti fossili che testimoniano come all’inizio del Cenozoico, circa 50 milioni di anni fa, la zona presentasse rigogliosi reef corallini e organismi, pesci inclusi, tipici di un ambiente tropicale. Che molti di questi pesci, fra cui barracuda, razze, pesci pipistrello e via dicendo, siano del tutto simili ai rispettivi discendenti presenti oggi nei mari caldi del pianeta, testimonia come l’adattabilità delle specie possa facilmente superare anche i più devastanti cambiamenti climatici.

 


Dal passato al futuro, e prendendo in considerazione quell’occasionale presenza del pianeta chiamata Homo sapiens, anzi oggi sapiens sapiens…c’è da preoccuparsi? Forse non la generazione oggi di pelo bianco, o quella dei baby boomers e a seguire millennials e generazione Z. Ma se guardiamo un po’ più avanti, qualche preoccupazione potrebbe anche nascere. E non è decisamente un caso che Antonio Gutierres, Segretario Generale dell’ONU abbia recentemente lanciato un inquietante allarme dichiarando che la Terra è in ebollizione e che: ““A meno di una mini-era glaciale nei prossimi giorni, luglio 2023 infrangerà i record su tutta la linea. Il cambiamento climatico è qui. È terrificante. Ed è solo l’inizio”. 

Che nella sua versione attuale l’Homo sapiens sapiens di cui sopra sia il principale responsabile della situazione, o almeno un forte catalizzatore, sembrerebbe inequivocabile. Condizionale legato al fatto che alcuni scienziati ricordano come di cambiamenti climatici anche devastanti il nostro pianeta ne abbia subiti molti.

Tuttavia, non volendo ragionare in termini di ere geologiche, faremmo bene a guardare al presente e al futuro prossimo. Come dire che il banco degli imputati vede in prima linea l’uso e l’abuso dei combustibili fossili, da cui il principale avvelenamento dell’atmosfera, solo che contro questo subdolo nemico sarà una dura battaglia, e che si riesca ad eliminarlo entro una decina d’anni, come molti governi e ambientalisti auspicherebbero, sembra un po’ un’utopia.

L’effetto serra che ne deriva influisce inevitabilmente anche sugli oceani e il fatto che certi disastrosi eventi siano lontani da noi non deve farci sentire più tranquilli. Perché, ad esempio, il progressivo scioglimento delle calotte polari provocherà nel tempo un aumento del livello del mare che, se dal 1880 ad oggi è aumentato di “appena” 20 centimetri, secondo quanto afferma l’ENEA nel 2100 l’innalzamento potrebbe essere di oltre un metro.

Solo che pescare spigole a Piazza del Popolo, nel pieno centro di Roma, non potrà essere una consolazione, considerando che nel frattempo tutte le nostre coste saranno sommerse. Così come un altro fattore, spesso dimenticato e controverso, riguarda la popolazione del pianeta.

La carenza di nascite mette in crisi il futuro delle nostre pensioni, però se nel suddetto 2100 la popolazione mondiale supererà i dieci miliardi, come previsto dalle proiezioni delle Nazioni Unite, i problemi potrebbero essere ben altri visto che già oggi la Terra, oceani inclusi, fatica a sfamare i circa otto miliardi di quell’Homo che sembra aver dimenticato di essere sapiens sapiens. E viene da ridere pensando che nel 1950, non quindi nella preistoria, la popolazione del pianeta raggiungeva appena 2,5 miliardi. Senza poi contare il relativo aumento dei consumi energetici, già oggi fonte di notevoli problemi ai quali è urgente trovare una soluzione.

Un’antica immagine del Canale di Suez poco dopo la sua apertura (1869).

 

Cambiamenti pericolosi


Tornando più nello specifico ai problemi del mare, pur non potendo fare un’analisi troppo approfondita, possiamo provare ad ipotizzare alcune situazioni tutt’altro che piacevoli. Fra le tante, una conseguenza del forte riscaldamento delle acque marine in atto, aumentate di oltre due gradi negli ultimi cinquant’anni, potrebbe essere un’esagerata proliferazione del fitoplancton e delle alghe in genere, fenomeno che potrebbe fra l’altro trasformare il blu profondo delle nostre acque cristalline in una brodaglia verdastra tutt’altro che invitante.

 

granchio blu
L’ormai famoso granchio blu, che vedremo presto nei menù di tutti i ristoranti di mare.

Sempre a causa dell’innalzamento termico, ci potrebbe essere un forte impatto sulla biodiversità, fiore all’occhiello del nostro mare, mentre il dislivello termico fra mare e terre emerse potrà creare eventi meteorologici estremi. Cosa che del resto accade già oggi con l’alternanza fra drammatiche siccità e altrettanto drammatiche alluvioni o, in mare, con i già nominati medicanes. Tanto per citare la cronaca, ricordiamo che il canale di Panama, uno dei Paesi più piovosi al mondo, a causa dei recenti cambiamenti climatici ha dovuto ridurre fortemente il passaggio delle navi, petroliere incluse. E se si considera che attraverso il canale passa quasi il 29%del traffico marittimo che dal Pacifico è diretto a oriente, è facile capire a quali conseguenze anche in termini economici possa portare la situazione.

Se passiamo a considerare l’aspetto più vivo del mare in senso letterale, ovvero pesci e affini, l’affare si ingrossa e diventa più percepibile. La tropicalizzazione del Mediterraneo, ad esempio, ha già modificato pesantemente la situazione, dato che specie aliene e meridionalizzazione, ovvero lo spostamento verso acque termicamente più accoglienti di molte specie, stanno rapidamente cambiando il volto biologico delle nostre acque.

 

pesce scorpione
L’aggressività e la prolificità di alcune specie aliene, come il pesce scorpione (qui sopra) e il pesce coniglio, stanno ampliando pericolosamente il loro habitat a danno delle nostre specie autoctone.

Così, quello che sembrava solo un gioco di fantascienza è sempre più una realtà, soprattutto oggi che il Canale di Suez, principale responsabile delle migrazioni lessepsiane (dal nome del costruttore del canale), è stato ampliato passando dai 164 km di lunghezza per 53 metri di larghezza ai 193 km per un’ampiezza di 225 metri.

Alle responsabilità del canale possiamo poi aggiungere in forma minore quelle del traffico marittimo sempre più intenso, portatore di nuove specie attraverso il fouling e lo svuotamento delle acque di zavorra, mentre l’ingresso di nuove specie attraverso lo Stretto di Gibilterra oltre ad essere un fenomeno naturale è di minor entità.

Per capire la progressione del fenomeno in termini di cifre, basti pensare che se la prima rilevazione di una specie alloctona proveniente dal Mar Rosso risale al 1902, nel 1926 si contavano già 15 specie ambientate nel Mediterraneo, cifra salita a quaranta nel 1986, mentre oggi sfioriamo il migliaio. Cifra che include una quantità di pesci – ma anche organismi bentonici, alghe e ad esempio crostacei come l’ultimo arrivato, il granchio blu – che per le loro caratteristiche possono portare gravi anni all’ambiente mediterraneo.

 

La Caulerpa taxifolia, un’alga invasiva presumibilmente diffusa dalle acque reflue dell’acquario
di Montecarlo.

L’invasione degli alieni

Alcune di queste specie hanno trovato nelle acque mediterranee un ambiente ideale per svilupparsi, e se prima erano più o meno confinate nei bacini orientali, sensibilmente più caldi, oggi grazie ai cambiamenti climatici e al forte surriscaldamento delle acque sono sempre più presenti anche nel Mediterraneo occidentale. Gli esempi più eclatanti vanno dal pesce palla maculato (Lagocephalus sceleratus), la cui carne è notoriamente ipertossica, a varie specie di pesci coniglio (Signatidi), divoratori del substrato algale, allo splendido pesce scorpione (Pterois volitans) che alla sua bellezza abbina una grande potenzialità riproduttiva e una notevole aggressività a danno delle specie nostrane.

Tralasciamo molluschi vari, magari ricordando solo la devastante vongola filippina (Tapes philippinarum), meno pregiata di quella nostrana ormai sopraffatta dall’intruso straniero, e per dimostrarci attuali come non parlare appunto del granchio blu (Callinectes sapidus). Detto anche granchio reale a causa delle sue dimensioni e della sua appariscenza cromatica, questo crostaceo è in grado di arrivare al peso di un chilogrammo e, pur essendo ben presente in tutto il versante atlantico del continente americano, la sua presenza nei nostri mari era fino a pochi anni fa del tutto sporadica.

Oggi questa specie sta invece vivendo un’impressionante espansione demografica, favorita dalle mutate condizioni climatiche e dalla sua eccezionale capacità riproduttiva: ogni femmina è infatti in grado di deporre annualmente fino a due milioni di uova. Non è un’invasione indolore, data la voracità che contraddistingue questa specie e al suo menù onnivoro, e a risentirne di più sono state le popolazioni di molluschi bivalvi del Nord Adriatico, dove il granchio blu si è particolarmente diffuso anche a causa della mancanza dei suoi predatori naturali.

I danni economici denunciati dai pescatori di vongole sono già stati stimati in oltre cento milioni di euro, e ancora non si è capito bene come fronteggiare la situazione, anche se la soluzione più logica sarebbe anche quella più facile da attuare.

 

pesce coniglio
Il pesce coniglio, una specie aggressiva e prolifca che sta ampliando il suo habitat a danno delle nostre specie autoctone.

 

Sulle coste atlantiche americane, dalla Nuova Scozia all’Argentina, il granchio blu è infatti considerato una prelibatezza, mentre i nostri mercati sono ancora restii ad accettare una specie poco conosciuta. Sarebbe quindi auspicabile che parte dei fondi recentemente stanziati dal governo per controllare la situazione fossero dedicati a una campagna di sensibilizzazione sulle ottime caratteristiche gastronomiche del granchio blu, incentivandone così la cattura e il conseguente contenimento della sua diffusione. Da notare che, anche se raramente, è possibile trovare questo crostaceo sui banchi delle pescherie, ed è sintomatico che in conseguenza di quanto sopra i prezzi stiano rapidamente lievitando.

Quanto al come cucinarlo, il granchio blu va considerato come un normale crostaceo, tipo granceola o aragosta per capirci, quindi può essere cucinato al vapore, in zuppa, grigliato o bollito e poi gustato con olio e maionese, o anche preparato per condire spaghetti e primi piatti in genere, tenendo fra l’altro presente che oltre all’ottimo sapore le sue carni sono anche ricche di vitamina B12.

Al di là del granchio blu, molti si stanno chiedendo se questa tropicalizzazione non potrebbe avere un effetto positivo portando ad arricchire le reti dei pescatori, sempre più vuote, ma la questione è ovviamente controversa perché se da un lato il ragionamento potrebbe essere accettato, dall’altro lo è assai meno. Con la loro aggressività, molte specie aliene portano infatti un notevole scompenso negli ecosistemi marini, soprattutto su quelli costieri, alterando l’interazione fra le varie specie, tanto che il rischio di una “demediterraneizzazione” è tutt’altro che ipotetico.

Caravella portoghese
Una delle due meduse più pericolose e invadenti dei nostri mari: la, per fortuna rara, caravella portoghese.

Il mare che punge


Fra gli aspetti meno gradevoli del riscaldamento delle nostre acque marine, va anche incluso il fenomeno delle meduse, non certo una novità, ma soggetto a periodiche invasioni sul filo di correnti calde in grado di favorire la loro crescente proliferazione.

Il fenomeno è decisamente in crescendo, ma quali le cause e quali gli effetti? Il riscaldamento climatico è indubbiamente uno dei principali responsabili, ma non bisogna dimenticare un’alterazione della catena alimentare marina dovuta alla forte diminuzione dei predatori naturali delle meduse, mentre gli effetti più evidenti sono quelli che incidono sulla balneabilità delle nostre coste: quando il mare si riempie di meduse fare il bagno diventa una sfida, con la quasi certezza di tornare a riva con una bella bruciatura. Senza dimenticare che in individui allergicamente sensibili la carezza di una medusa può provocare preoccupanti reazioni anafilattiche.

A titolo di curiosità vale però la pena di ricordare che la principale imputata di queste invasioni è una piccola e aggraziata medusa dal colore rosa-violetto, la Pelagia noctiluca, i cui tentacoli pressoché invisibili possono superare il metro di lunghezza. Del tutto innocue, salvo particolari sensibilità, sono invece le grandi meduse bianco-opalescenti dette anche “polmoni di mare” (Rhyzostoma pulmo) o le più piccole Cassiopea (Tubeloryza tubercolata).

 

La comunissima Pelagia noctiluca, protagonista delle periodiche invasioni lungo le nostre coste.

Da prendere invece con le pinze, ben lunghe, un ospite del Mediterraneo fino a ieri assai raro, ben noto come “caravella portoghese” (Physalia physalis) a causa della parte emersa che ricorda un po’ una vela, trasparente e piena d’aria. Fa parte dei pochi organismi entrati nelle nostre acque via Gibilterra, e se come detto incontrarla è per fortuna una rarità (ma quest’anno in Spagna c’è stato un forte allarme), la sua presenza in Mediterraneo è nota fin dalla fine dell’Ottocento.

Parliamo di un organismo che, pur assomigliando a una medusa, appartiene a tutt’altro genere: è infatti un sifonoforo ed ha abitudini assai diverse. Un organismo coloniale che vive sulla superficie del mare facendosi trasportare dal vento e dalle correnti, esteticamente intrigante e apparentemente innocuo, ma che nasconde la sua tutt’altro che indifferente pericolosità sott’acqua, dove tentacoli retrattili e quasi invisibili in grado di superare i 20-25 metri di lunghezza possono, con le loro cellule urticanti, causare serie lesioni e in qualche caso risultare addirittura letali.

Tuttavia al di là dei danni provocati dalle invasioni delle meduse al turismo, alla pesca e, in alcuni casi, ai tubi di aspirazione di installazioni industriali, qualcuno ha ipotizzato – e in alcuni casi realizzato – di proteggere le coste turisticamente più importanti con reti antimeduse, un po’ come si fa in Australia per gli squali. È certo però, che delle meduse non ci libereremo facilmente: doptutto sono presenti in mare da seicento milioni di anni.

 

Antonio Di Natale

L’opinione


Antonio Di Natale, ecologo marino, biologo della pesca e Segretario Generale della Fondazione Acquario di Genova Onlus.

Stiamo uscendo da una delle più calde estati che il Mediterraneo ricordi. Gli effetti sono stati ben evidenti sulla terraferma, ma in mare ? 
In mare è stato possibilmente peggio. Riesco a monitorare quasi giornalmente la situazione grazie ai dati forniti dal sistema MED-GOOS e MEDFS, che mi forniscono informazioni su un parametro importante, la temperatura, sia in superficie sia a varie profondità, e collego questi dati con quelli che mi pervengono da varie imbarcazioni impegnate in diverse attività di pesca, per meglio comprendere gli effetti su alcune specie marine.

Ovviamente, non disponiamo ancora delle medie per il 2023, ma si possono dare alcune buone indicazioni.

Praticamente, quest’anno come nel 2022, il Mediterraneo non ha avuto un normale “inverno” oceanografico. Le acque sono state anormalmente calde per tutto il periodo invernale, per poi finalmente raffreddarsi un po’ in varie aree a partire da fine marzo – inizio aprile.

Poi la temperatura è risalita rapidamente a partire dalla metà di maggio, per raggiungere picchi veramente molto alti (oltre 33°C in superficie in vari punti) in luglio e nella prima parte di agosto. Dai dati disponibili, sembra che a luglio si siano battuti tutti i record precedenti di temperatura superficiale nel Mediterraneo. Il Mar Ligure, solitamente un’area di acque più fredde, ha superato anche i 30°C in superficie, mentre il Tirreno meridionale ha toccato i 32.9°C. Ora, a fine agosto, le acque della parte settentrionale della Sicilia, a 30 metri di profondità, raggiungono picchi di oltre 26°C, mentre superano addirittura i 30°C nel Mediterraneo orientale (sempre alla profondità di 30 metri). Certamente, siamo in un periodo fortemente anomalo da un punto di vista marino.

È pensabile che, per la natura stessa dell’elemento liquido, il fenomeno in mare sia più diluito nel tempo, ma quali potrebbero essere gli effetti futuri sull’ecosistema marino?
Gli effetti dei cambi climatici nell’ambiente marino possono avere tempi diversi da quello atmosferico, ma non dobbiamo mai dimenticare che i fenomeni atmosferici sono prevalentemente condizionati dal mare. Le varie anomalie in atto nell’ambiente marino (in termini di temperatura, salinità e variazioni di correnti) hanno ovviamente effetti di vario tipo sulla vita nelle acque marine, sia vegetale che animale. Alcune specie possono essere favorite e trovare aerali di distribuzione più ampi di quelli abituali o condizioni più favorevoli per una riproduzione più estesa; per altre si verifica il contrario.

Ovviamente, le specie sessili (che non possono spostarsi) sono quelle che possono subire le conseguenze più negative quando i fenomeni si estremizzano, mettendo a dura prova la loro resilienza, mentre quelle che hanno la possibilità di spostarsi o migrare hanno ovviamente più possibilità, in base alla loro capacità di adattamento e ai loro limiti vitali. Ma la nostra ignoranza del sistema oceano è enorme e ci mancano tantissimi elementi conoscitivi per poter meglio comprendere gli effetti dei cambi climatici sulle tantissime catene trofiche marine esistenti e valutare il conseguente impatto sulle varie fasi vitali delle tantissime specie. Certamente rileveremo un bel po’ di variazioni, ma non abbiamo gli elementi sufficienti per fare previsioni minimamente realistiche per il futuro.

Specie nectoniche a parte, è pensabile in conseguenza del clima un esuberante sviluppo di alghe e di crostacei incrostanti con riflessi negativi sulle carene delle barche, o anche sulla salute dei bagnanti?
Come dicevo, abbiamo una conoscenza troppo limitata per fare previsioni realistiche, ma possiamo utilizzare i dati che ci arrivano da varie parti del mondo in tempo reale. Ad esempio, attualmente in varie aree costiere dell’Indonesia ci sono sviluppi anomali di alghe filamentose in aree costiere dove crescono le madrepore.

A causa di questo problema (favorito dal riscaldamento anomalo delle acque), le madrepore si stanno progressivamente ricoprendo di alghe, con seri problemi per la loro crescita normale. Ovviamente, questo cambiamento ha anche favorito un incremento di “brucatori”, come ad esempio i ricci di mare, che si spera possano inconsapevolmente aiutare le madrepore. Non è detto che il cambio climatico possa aumentare la presenza di fouling nelle carene delle navi e delle barche, ma non si può neanche escluderlo. Dubito che ci possa essere un effetto diretto sulla salute dei bagnanti, fatta esclusione per la progressiva diffusione di specie pericolose non originarie del Mediterraneo, come ad esempio la caravella portoghese.

 

 

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