Il nostro mare: Mediterraneo prossimo venturo
Sopra e sotto l’acqua sta prendendo il sopravvento un nuovo Mediterraneo, purtroppo assai diverso dalla sua immagine tradizionale.
Un processo che può e deve essere fermato.
Dalle varie stazioni spaziali che periodicamente orbitano intorno alla Terra la situazione è ben chiara: in questa straordinaria e meravigliosa palla di vita che galleggia nello spazio e che chiamiamo Terra il colore predominante è il blu, ovvero il colore del mare. E in quei tre quarti di oceano che avvolgono le terre emerse c’è una sorta di lago mancato che abbiamo chiamato non a caso Mediterraneo, che con le poche briciole di latino rimaste in memoria si può tradurre come un mare circondato dalle terre emerse, anche se poi i Romani con giustificato senso di grandezza preferivano chiamarlo Mare Nostrum.
Della sua storia sappiamo tutto, o quasi, se non altro perché è stato la culla della civiltà, e non solamente della nostra ma di quella dell’umanità intera. Anche il suo passato geologico ci è tutto sommato ben chiaro. Quello che invece resta piuttosto oscuro è il suo futuro, e non quello che avverrà fra cinquant’anni, ma proprio quello che potremo vedere prossimamente, anche noi che siamo diversamente giovani. I cambiamenti che si stanno infatti verificando negli oceani di tutto il mondo – e che si amplificano in un mare chiuso come il Mediterraneo, che degli oceani rappresenta appena l’1{2e3577d2bd6aebaa150c85c33fcd353783f1aa6c690283591e00ef60b3336fc8} – evolvono in progressione geometrica e sono decisamente molto preoccupanti. Però per capire meglio di cosa parliamo cominciamo a disegnare un ritratto numerico di quello che era il Mare Nostrum e che oggi, ahinoi, è un po’ di tutti.
Un lago mancato
Per facilitare il quadro delle cifre possiamo prendere lo spunto direttamente da Wikipedia e scoprire che la superficie del Mediterraneo è di circa 2.510.000 kmq, che il suo sviluppo massimo lungo i paralleli è di 3.700 km, mentre la lunghezza totale delle sue coste è di 46.000 km, la profondità media è di 1500 mt e quella massima (5.267 mt) si riscontra nella fossa Calypso al largo di Capo Matapan, nel Peloponneso meridionale.
Fatti due calcoli, il volume delle sue acque dovrebbe essere intorno ai 3.750.000 km cubi, mentre la popolazione dei Paesi che vi si affacciano, incluse le circa 3300 isole che lo punteggiano, è di circa 450.000.000 persone. Per vari motivi, quest’ultima cifra andrebbe costantemente aggiornata, non solo per il costante apporto dei flussi migratori, ma anche per la naturale crescita della popolazione. Già queste cifre basterebbero però a farci riflettere su un inquietante dato, poiché parliamo di oltre 450 milioni di persone che rigettano quotidianamente in mare gran parte dei loro rifiuti, organici e non: è tanta roba, e per quanto lo si sia sempre considerato un immenso bidone della spazzatura, anche il mare ha i suoi limiti.
Il nostro, poi, chiuso nei suoi confini quasi lacustri, ancor di più. Completandone in ogni caso il quadro, vediamo che lungo le sue coste le maree sono quasi insignificanti mentre le temperature comprese fra gli 11° della profondità e i 32° come picco della superficie sono ottimali per lo sviluppo di quella biodiversità che è una delle sue caratteristiche più salienti e che è alla base della catena alimentare marina. Catena alimentare marina che in Mediterraneo – vale la pena ricordarlo – è composta da oltre 17.000 specie tra flora e fauna.
Un’altra singolare caratteristica del Mare Nostrum che spesso ci viene ricordata è che questo mare raccolto in sé stesso è una zona tettonicamente molto attiva, con alcune zone a elevata attività sismica, causa di fenomeni tutt’altro che rassicuranti.
Basterebbe ricordare il più disastroso terremoto della storia, quello di Santorini (1450 a.C.), che dopo aver distrutto Atlantide, o più realisticamente aver messo in ginocchio la civiltà micenea, è diventato con la sua caldera ancor oggi attiva un polo turistico di massimo rilievo. Ma potremmo citare anche il bradisismo che minaccia costantemente la fumante zona di Pozzuoli e dei Campi Flegrei con un continuo saliscendi del suolo, il che ci porta poi a ricordare non solo l’eruzione del Vesuvio che distrusse Pompei (che peraltro non fu l’unica della sua storia), ma anche la costante e spettacolare attività di vulcani come l’Etna e lo Stromboli, facendo notare che il cono vulcanico di quest’ultimo è perennemente attivo ed è solo la parte emersa di un gigante che affonda le sue radici nei tremila metri delle acque circostanti.
E già che parliamo di mare, forse non tutti ricordano che il bacino tirrenico, che con i suoi 3800 metri di media è la parte più profonda del Mediterraneo, ospita una catena di vulcani sottomarini, alcuni spenti, altri in costante attività come il Marsili, il più grande vulcano d’Europa, che si eleva per 3000 mt dal fondo sulla direttrice Napoli-Palermo, fermandosi con la sua sommità a circa 450 mt dalla superficie.
Ovviamente l’attività dei vulcani sottomarini può essere monitorata solo attraverso strumenti scientifici, ma come per i terremoti non tutto, anzi poco, è prevedibile, e ogni tanto i nostri vulcani sommersi danno spettacolo anche oltre la superficie. Nessuno ad esempio si sarebbe mai aspettato che nella notte fra il 10 e l’11 luglio del 1831, 16 miglia al largo di Sciacca, dalle profondità marine emergesse un’isola. Eppure così fu e l’isola, poi chiamata Ferdinandea, cima di un cono vulcanico, emerse per ben 65 metri spinta dai sottostanti movimenti magmatici, restando in superficie per quasi un anno, cioè quanto bastò per scatenare le brame di conquista di tre potenze dell’epoca: Regno delle Due Sicilie, Inghilterra e Francia.
Poi Ferdinandea tornò nel regno di Nettuno, fermandosi però a pochi metri di profondità. Certo navigando nel nostro meraviglioso Tirreno, magari nel soffice andare di una bonaccia, è difficile che ci si pensi, eppure siamo in un mare che pullula di vulcani, attivi o meno, a partire da tante splendide isole come Vulcano e Pantelleria, Ischia e Stromboli, Ponza e Linosa. Senza dimenticare che il Vesuvio, pur ospitando sulle sue pendici una densa popolazione, è considerato uno dei vulcani potenzialmente più pericolosi al mondo.

Aiutiamolo a sopravvivere
La fame di energia alimentata dalla scoperta di numerosi giacimenti di gas e carburanti fossili nel Mediterraneo, soprattutto nella sua parte orientale, ha alimentato un movimento di ricerca da parte di molti Paesi a base di trivellazioni e cariche esplosive, causando anche dispute politiche di non poco conto.
Gli effetti sull’ambiente marino possono essere disastrosi: dalla morte diretta di una quantità di organismi bentonici all’inquinamento dell’acqua e al disorientamento dei cetacei che finiscono poi spiaggiati, senza dimenticare che balene e delfini vengono già messi a dura prova dagli esuberi del traffico marittimo e dalla crescita esponenziale dei sistemi di rilevazione sottomarina. Un processo che le ambizioni politiche e militari dei Paesi rivieraschi, ai quali si stanno unendo quelle di altri Paesi extra mediterranei, rende pressoché irreversibile.

Il mare non sanguina – le sue ferite per quanto profonde non sono appariscenti – e i grandi media, pur citando occasionalmente gli episodi più significativi, non incidono più di tanto sull’opinione pubblica e conseguentemente sulla politica. Il tutto senza dimenticare che, in mancanza di una comune politica mediterranea realmente osservata da tutti i paesi rivieraschi, non si va da nessuna parte. Inutile, ad esempio, emanare severe norme antinquinamento o ferrei contingentamenti sulle risorse ittiche se al di fuori delle nostre acque non vengono rispettati: il mare non ha confini e i pesci non hanno passaporto.
A proposito delle trivellazioni, con uno sguardo all’attualità va poi ricordato che l’Italia ci ha messo del suo ed è storia di poche settimane fa l’autorizzazione del Ministro della Transizione Ecologica per la ripresa delle trivellazioni sottomarine necessarie per attivare una ventina di giacimenti di metano e petrolio fra Adriatico settentrionale e Canale di Sicilia. Inevitabile la protesta delle associazioni ambientaliste, che inevitabilmente solleva il problema fra protezione dell’ambiente e necessità energetiche.

Ecce mare!
La linea di continuità che unisce il passato al presente e getta le basi per il futuro del Mediterraneo – e quindi su quello di tutte le popolazioni che gravitano sulle sue coste – non offre previsioni tranquillizzanti. Né le cose migliorano volendo essere un po’ egoisti e guardando unicamente sotto la superficie del Mare Nostrum, ma proprio nostrum, ovvero quello che circonda la nostra penisola. Il Mediterraneo è un mare chiuso, le sue acque sono più salate di quelle oceaniche e, probabilmente per questo, il nostro pesce è più saporito.
E se già ieri erano le più calde, sulla scia dei cambiamenti climatici si stanno oggi scaldando a ritmi superiori rispetto a quelli di altri mari (0,12 gradi l’anno). D’altro canto, il ricambio delle sue acque, legato principalmente allo Stretto di Gibilterra, è estremamente lento e l’effetto di depurazione attraverso l’entrata di acque atlantiche più pulite non è sufficiente.
In altre parole non ce la passiamo bene e possiamo solo sperare che le cose non peggiorino. Al di là di tutti i ragionamenti pseudo politici è però solo mettendo la testa sott’acqua – non metaforicamente – che si può capire la realtà del nostro mare. Pescatori subacquei di pelo ormai bianco si aggirano oggi su fondali pressoché deserti, dove l’improvvisa apparizione di un sarago di taglia dura una frazione di secondo, dopo di che il pesce si dematerializza sparendo verso il largo. Così oggi per prendere qualche pesce degno di tale nome occorre scendere a quote abissali, con tecniche innovative ma anche pericolose.
Ma se i pescatori subacquei, come quelli ricreativi di superficie, non sono che un granello di sabbia nel deserto, la pesca professionale ha ben altre esigenze e responsabilità, dato che il 93{2e3577d2bd6aebaa150c85c33fcd353783f1aa6c690283591e00ef60b3336fc8} degli stock ittici mediterranei è in fase di sovrasfruttamento. La progressiva diminuzione della risorsa ha indubbiamente messo in crisi il settore e i 12.060 pescherecci (dati UE) che operano nei nostri mari pur avendo potenziato i propri mezzi di lavoro non riescono a soddisfare il fabbisogno nazionale, tanto che importiamo annualmente 7.110.664 tonnellate di pesce.
Ed è proprio la pesca professionale, includendo il by-catch, ovvero tutto quello che viene catturato dalle reti ma poi rigettato in mare in quanto commercialmente non interessante, una delle principali cause del depauperamento dei nostri mari. Una situazione che finisce per alimentare la pesca illegale, che peraltro in acque internazionali subisce anche l’intromissione di flotte straniere. Il tutto a spese di un mare che, per quanto si stia cominciando a intraprendere azioni di sostegno ambientale, è ridotto maluccio. Fra le azioni positive degli ultimi anni vale però la pena di ricordare quella che riguarda il tonno rosso, specie di enorme valore commerciale, il cui stock mediterraneo minacciava di entrare nella lista rossa delle specie a rischio ma che, grazie a un energico programma di protezione e di limitazione di cattura, ha ben recuperato, risultando oggi in ripresa.
In molti casi poi, da una parte la fame vera e propria, dall’altro i facili e sostanziosi guadagni offerti dal mare favoriscono come detto la pesca illegale, a volte con situazioni macroscopiche aventi come protagonisti i grandi pescherecci, e in primis i long-liners orientali che operano in acque internazionali; altre volte con situazioni locali che possono lasciare esterrefatti. Tanto per rimanere legati all’attualità, ricordiamo ad esempio la devastazione illegale a cui da anni sono soggetti i fondali del Golfo di Napoli per la pesca dei datteri di mare, specie protetta, ma soprattutto specie che può essere raccolta solo con la distruzione delle rocce, sia utilizzando picconi o martelli pneumatici sia, in alcuni casi, ricorrendo all’esplosivo, causando ingenti danni all’ecosistema.
Quando questa pesca ha preso di mira i fondali dei Faraglioni di Capri qualcuno però si è mosso e i bracconieri sono stati arrestati e sanzionati. Come in molti altri casi di pesca illegale, oltre ai bracconieri, sarebbe tuttavia il caso di prendere di mira seriamente anche il terminale della filiera, ovvero chi quei datteri (Lithophaga litophaga) li acquista. Privato o ristoratore che sia, magari ignora che se la pesca del dattero è un reato perseguibile con 2 anni di carcere e una sanzione che va dai 2.000 ai 12.000 Euro, è anche egli stesso, quale consumatore, perseguibile e denunciabile se colto in flagrante.

I grandi problemi
Le competenze del nuovo Ministero della Transizione Ecologica sono molto ampie, spaziando dalla terraferma a tutte le acque, incluse ovviamente quelle salate, e la tutela ambientale dovrebbe essere il suo primo compito. Ci auguriamo che sia così, anche se non sarà facile mediare fra le richieste dell’industria e le esigenze dell’ambiente. La corsa all’energia alternativa è in pieno svolgimento ma il processo non sarà breve e di certo, nel frattempo, il mare continuerà nel suo lento e speriamo non inesorabile degrado. Ma qual è oggi la situazione del nostro Mediterraneo?
Sintetizzando individuiamo due macro problematiche: l’inquinamento e l’eccessivo prelievo delle risorse. Nel primo caso abbiamo tutti in mente le recenti campagne contro la pessima gestione della plastica, un problema gigantesco e articolato ben oltre le classiche bottiglie dell’acqua minerale che pur ne costituiscono l’asse portante. La plastica con tutti i suoi più o meno diretti derivati è oggi onnipresente e liberarsene non sarà facile. Sarà principalmente compito delle Istituzioni, ma sarà anche necessario lo sviluppo di una cultura ambientalista individuale che oggi è pressoché inesistente.

La raccolta differenziata dei rifiuti, tanto per fare un esempio, non riesce a decollare. Ma se parliamo di mare, al di là di tutte le microplastiche che attraverso la catena alimentare marina finiscono poi per arrivare nel nostro stomaco, o delle tante spiagge devastate dai rifiuti, meno noto è lo stato dei fondali marini profondi, dove essendo difficile metterci il naso, nessuno si rende conto della situazione.
Vale allora la pena ricordare che la plastica di vario tipo che purtroppo incontriamo spesso in navigazione (buste, bottiglie, secchi, taniche e via dicendo) non è che l’1{2e3577d2bd6aebaa150c85c33fcd353783f1aa6c690283591e00ef60b3336fc8} di quella che finisce in mare, di cui il 99{2e3577d2bd6aebaa150c85c33fcd353783f1aa6c690283591e00ef60b3336fc8} va a posarsi sul fondo. E da fonte autorevole apprendiamo che proprio sui fondali del Tirreno è presente la più alta concentrazione di microplastiche al mondo (1,9 milioni di frammenti di plastica per metro quadrato) e se tutti conosciamo le famigerate isole di plastica che galleggiano negli oceani di mezzo mondo (per la cronaca, anche il Tirreno ha la sua), non tutti conoscono i grandi accumuli di microplastiche che, trasportati dalle correnti di profondità, vanno a formare specie di colline che sono rivelate dai ROV dei ricercatori.
Che poi una spedizione americana, scesa a 10.927 metri nella fossa delle Marianne, il punto più profondo dell’oceano, vi abbia trovato una busta di caramelle lascia veramente interdetti.

L’inquinamento non è tuttavia unicamente fatto di rifiuti, siano essi organici o industriali: esiste anche un inquinamento antropico che nasce dall’invasione inarrestabile delle nostre coste con inevitabili conseguenze sul sottocosta, che è l’ambiente più importante per lo sviluppo della vita marina. Ed esiste pure un inquinamento acustico generato da un traffico marittimo – commerciale, turistico/diportistico, pesca, trivellazioni e via dicendo – che aumenta ogni anno del 4{2e3577d2bd6aebaa150c85c33fcd353783f1aa6c690283591e00ef60b3336fc8}. Traffico che peraltro, ad esempio nel caso delle grandi petroliere, si porta dietro come una spada di Damocle l’imprevedibilità di un potenziale incidente: se accadesse in Mediterraneo sarebbe un vero disastro.
Non sarà poi inutile ricordare che nell’acqua, che è 800 volte più densa dell’aria, il suono ha un’area di propagazione di gran lunga superiore ed è causa di gravi disturbi a tutti quegli animali – cetacei in primis – che usano suoni di ecolocalizzazione per le proprie funzioni vitali.
Del mare non possiamo fare a meno, non solo in senso poetico e passionale, ma anche in senso puramente biologico. E’ il fitoplancton che galleggia sulla superficie degli oceani che fornisce più del 50{2e3577d2bd6aebaa150c85c33fcd353783f1aa6c690283591e00ef60b3336fc8} dell’ossigeno che fa sopravvivere la biosfera. Però del mare non possiamo fare a meno anche perché, con un consumo di pesce di oltre venti chili annuali pro capite (fonte FAO), concorre ad alimentare i quasi otto miliardi di abitanti della Terra. Almeno per ora, perché, se continuiamo con l’attuale sfruttamento delle risorse, nel futuro prossimo il pesce diventerà raro e prezioso come l’oro.
Del resto la specie umana è nata e si è evoluta nutrendosi, oltre che di bacche, di caccia e di pesca. In proporzione, da qualche secolo, l’uomo ha smesso di cercare le sue prede fra boschi e pianure, un po’ perché oggi potrebbe tutt’al più sparare ai cinghiali in mezzo al traffico, ma anche perché se quella fosse la sua unica fonte di sostentamento sarebbe destinato a morire di fame. Così sulla terraferma sono nati gli allevamenti, mentre in mare è cambiato poco o nulla. Perciò, anche se con mezzi diversi, continuiamo a prelevare le risorse che ci sono necessarie direttamente dalla natura, ovvero da quel presunto pozzo senza fine che però sta esaurendo le sue risorse.

Pescare meno per pescare meglio
Gran parte delle responsabilità sullo stato attuale del Mediterraneo, e più in particolare dei nostri mari, è dovuto a una pesca professionale i cui esuberi hanno ridotto a mal partito gli stock ittici disponibili e si calcola che il 97{2e3577d2bd6aebaa150c85c33fcd353783f1aa6c690283591e00ef60b3336fc8} delle specie a livello mondiale sia attualmente sovrasfruttato, anche se, secondo fonti FAO, la situazione nel Mediterraneo sta leggermente migliorando, nel senso che la percentuale è scesa…al 75{2e3577d2bd6aebaa150c85c33fcd353783f1aa6c690283591e00ef60b3336fc8}!
Non è una situazione facile. Diminuiscono le risorse, aumentano lo sforzo di pesca e le tecnologie utilizzate dalla pesca professionale per mantenere in positivo il bilancio, ma è un po’ il gatto che si morde la coda. E il risultato è una situazione preoccupante dato che nonostante che nei nostri mari operino 12.060 pescherecci (dati EU), il nostro fabbisogno di pesce è lontano dall’essere soddisfatto: come già detto, ne importiamo infatti oltre 7.110.000 tonnellate.
Non è chiaro se ci possa essere una soluzione del problema per soddisfare allo stesso tempo le esigenze dei pescatori e quelle dell’ambiente. Di certo queste ultime hanno priorità assoluta e, purtroppo, l’acquacoltura non può essere la panacea del problema. Prima di tutto perché non è in grado di soddisfare il nostro fabbisogno, ma poi anche perchè, se da un lato le gabbie in mare aperto provocano un sensibile inquinamento biologico, dall’altro i pesci in allevamento vengono sfamati…con altri pesci. Senza contare che, alla resa dei conti, il prodotto è di qualità ben inferiore al pesce “ruspante”.

sono fra i maggiori pericoli per gli abitanti
dei nostri mari.
Purtroppo molte problematiche del mare sfuggono ai grandi media generalisti e, fra queste, poco si parla ad esempio del danno indiretto – anch’esso imputabile alla pesca professionale – provocato dalle cosiddette reti fantasma, ovvero quelle perse per incaglio o addirittura abbandonate.
Chi ha dimestichezza con l’immersione subacquea le conosce bene, ma se queste reti possono essere un pericolo per i subacquei, sono certamente un grave danno per l’ambiente in quanto, a seconda delle dimensioni e della tipologia, soffocano il substrato impedendo la crescita di una quantità di organismi.

Senza contare che fino a quando non cominciano ad essere facilmente visibili per il sovrapporsi di alghe e microorganismi, continuano a pescare uccidendo inutilmente pesci e crostacei. Se poi consideriamo che il materiale plastico con cui vengono costruite può, per sua natura, durare 3-400 anni prima di biodegradarsi, abbiamo un’immagine più chiara del danno arrecato.
C’è però ancora un problemino legato alla pesca professionale, al quale abbiamo appena accennato: il by-catch, ovvero tutte quelle catture che per una ragione o per l’altra finiscono nelle reti senza esserne il target e senza poter essere commercializzate. L’elenco è ampio, perché si va dagli esemplari sotto taglia alle specie prive di valore commerciale, da tutti gli organismi del benthos strappati dallo strascico alle tartarughe e via dicendo: tutti organismi che o vengono ributtati in mare per la gioia dei gabbiani o finiscono come farina di pesce per l’acquacoltura.
Quando poi si passa al by-catch dei palangari o delle reti derivanti, oltre alle già citate tartarughe compaiono piccoli e grandi cetacei, uccelli marini, squali e, spesso, specie protette e non autorizzate in quel periodo: Il tutto – è stato calcolato – con uno spreco che in alcuni casi può superare abbondantemente il 50{2e3577d2bd6aebaa150c85c33fcd353783f1aa6c690283591e00ef60b3336fc8} del pescato.

Un futuro tropicale
Per la complessità del problema abbiamo appena sfiorato il tema dei cambiamenti climatici a cui un mare chiuso come il Mediterraneo è particolarmente sensibile, ma una breve citazione è d’obbligo per spiegare, ad esempio, la recente invasione di meduse che si è verificata nel golfo di Trieste.

Non è stata la prima e non sarà l’ultima, anche se le meduse in questione (Rhizostoma pulmo) sono pressoché innocue, poiché il fenomeno è in espansione ed è legato sia al gioco delle correnti sia all’aumento della temperatura dell’acqua. E un’acqua più calda e accogliente è anche tra le cause alla base di quella crescente tropicalizzazione che, complice il Canale di Suez e le acque di scarico dei grandi mercantili, sta caratterizzando il Mediterraneo.

Soprattutto, ma non solo, il bacino orientale, dove negli anni sono state registrate centinaia di specie aliene che in molti casi alterano gli ecosistemi locali compromettendone lo sviluppo. Il fenomeno è già ben presente anche nei nostri mari, e non solo a livello di molluschi e piccoli invertebrati ma anche di nuove specie come il pesce palla maculato dalla carne altamente tossica, oltre ai pesci coniglio (occhio alle spine dorsali), agli splendidi pesci scorpione – che sono una delle specie più invasive al mondo e che è già apparso in Sicilia – e ai pesci flauto visti anche all’Argentario.

Aggiungiamo pesci chirurgo visti all’Elba, piccoli crostacei, alghe invasive come la Caulerpa, molluschi di vario genere, più nuove varietà di ricciole, barracuda, squali, meduse ad alta pericolosità come la famigerata Caravella Portoghese e via dicendo per un lungo elenco. Di questo fenomeno possiamo solo prendere atto, poiché, almeno in tempi brevi, non ci sono vere e proprie soluzioni se non quella di capire meglio il fenomeno e la sua espansione per poterlo in qualche modo gestire. Forse sta nascendo un nuovo Mediterraneo. Difficilmente sarà meglio di quello che conoscevamo, però conoscendolo potremmo aiutarlo a crescere meglio.
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