Incontri ravvicinati del quinto tipo
Specie animali pericolose nel Mediterraneo
Ovvero incontri più o meno augurabili che potranno ravvivare il mare delle nostre vacanze. Un mare che, dopo la lunga quarantena, potrebbe essere diverso. Un mare di cui molti occasionali diportisti conoscono poco più che la superfcie.
La prima spiegazione è d’obbligo: incontri sì, ma perché del quinto tipo? Diciamo che nella classificazione quanto mai arbitraria che categorizza i rapporti con gli alieni, esistono incontri del primo tipo, limitati all’avvistamento di un UFO, quelli del secondo tipo, che prendono atto delle tracce lasciate dagli alieni, e quelli del terzo tipo, che riguardano l’avvistamento di un’entità animata. I nostri incontri marini potrebbero anche appartenere al quarto tipo, se non fosse che, seguendo la moda, qualcuno a suo tempo realizzò un film erotico dedicato per l’appunto agli incontri ravvicinati di quarto tipo. Così, tanto per evitare confusione, quelli che ci può riservare l’universo mare li abbiamo definiti del quinto tipo. E abbiamo voluto allargare il campo per creare una panoramica sintetica ma, per quanto possibile, completa.

Per chi, come molti diportisti tipicamente estivi, del mare conosce infatti poco più della superficie delle onde che la animano, purché basse e poco fastidiose, gli abitanti del sesto continente non sono molto diversi dagli alieni interplanetari. Né, al contrario di quanto a volte capita, può venire in soccorso il web, dove, salvo poche eccezioni, l’elenco delle bestialità sui possibili pericoli del mondo sommerso è lungo e inqualificabile.
Un feroce assassino?
Togliamoci subito la patata più bollente, ovvero affrontiamo l’incontro più preoccupante, soprattutto dopo quanto visto durante questa lunga quarantena, nella quale gli avvistamenti di squali si sono spinti fin dentro alcune marine o lungo le spiagge, creando più meraviglia che preoccupazione, mentre qualche avvistamento e qualche cattura in alto mare sono stati in realtà un po’ più inquietanti. Video e foto che documentano questi avvistamenti, scattate con i cellulari, non sono di grande qualità, ma restano comunque documenti imperdibili.

Andiamo allora per episodi, perché i fatti sono sempre più interessanti delle parole. Le verdesche che hanno fatto visita a Cala Galera, all’Argentario, piuttosto che lungo le spiagge di Gallipoli, nel porto di Pozzuoli o di Vibo Valentia hanno destato molta curiosità. Lo squalo grigio allamato da una barca di pescatori al largo di Frigole è stato un momento eccitante, finché lo squalo, una volta sottobordo, ha rotto la lenza prima di essere liberato. Di ben altro tipo lo squalo apparso all’improvviso innalzando la sua pinna triangolare sulla superficie del mare calmo e tranquillo della Secca di Levante, 11 miglia a Sud Est di Lampedusa. Beppino Licciardi, da bordo dello Sparviero, la barca che divide fra attività turistiche e pesca ricreativa, se lo è visto venire incontro e, proprio sulla base della lunghezza della barca, che misura dieci metri, ha potuto valutarlo superiore ai cinque metri.

Sicuramente uno squalo bianco, specie in forte sofferenza e altamente protetta: un incontro assolutamente raro e certamente una grande emozione, durata però poco perché, dopo un giretto esplorativo, lo squalo se n’è andato per i fatti suoi. Meno fortunato il mako recuperato da un peschereccio di Ognina (Catania) e, a detta dei pescatori, trovato già morto imprigionato nella lenza di un palangaro. Il mako è uno degli squali più potenti ed eleganti, ma anche dei più spaventosi, con la sua impressionante dentatura, ed è notoriamente presente in Mediterraneo, anche se raro come lo squalo bianco, e come lui protetto da convenzioni internazionali. Ancor più raro, l’esemplare di Isurus oxyrinchus che, con i suoi quattro metri di lunghezza – decisamente un gigante fuori taglia – stava per essere venduto al mercato come pesce spada, prima che intervenissero i Carabinieri.
Squali… e squali
Fatte le premesse, resta la domanda: dobbiamo preoccuparci? Se rispondessimo assolutamente no sarebbe come dire che è impossibile avere un incidente in autostrada, però di certo fare un frontale in autostrada è più facile e fatale che subire l’attacco letale di uno squalo. A titolo di cronaca e paradosso, annotiamo che contro i 7 attacchi mortali registrati ogni anno nel mondo, ci sono decine di vittime dovute alla caduta di noci di cocco e che l’ultimo attacco letale avvenuto in Italia da parte di uno squalo bianco risale al 1989, nel Golfo di Baratti, il che dimostra come la possibilità di trovarsi faccia a faccia con un “morte bianca” sia pari a quella di vincere al Superenalotto.

In quel caso la vittima, Luciano Costanzo, era un subacqueo in immersione con le bombole su un fondale di circa 20 metri.
Fermo restando che nell’incontro con uno squalo il primo a scappare è in genere proprio lui, ricordiamoci anche che gli squali, incluse alcune specie pericolose, in Mediterraneo ci sono sempre stati, per l’esattezza da 3,2 milioni di anni, e che sicuramente con l’involuzione ambientale subita nelle ultime decine di anni, oltre ad essersi fortemente rimpiccioliti di taglia, sono diventati merce rara tanto da diventare in molti casi specie protette.
Proviamo allora a fare una breve panoramica della situazione sulla base degli episodi più recenti. Potremmo partire col dire che lo squalo più grande dei nostri mari – lo squalo elefante, in grado di superare i dieci metri di lunghezza – è assolutamente innocuo, nutrendosi di plancton. Potremmo poi passare alle verdesche (Prionace glauca), come quelle apparse lungo le spiagge e in qualche marina: non sono squali aggressivi e, grazie agli esuberi di pesca subiti negli ultimi decenni (spesso vengono spacciate per pesce spada), hanno subito una netta riduzione di taglia. Da noi sono di casa, tanto da avere una loro riconosciuta nursery in alto Adriatico, ma non si conoscono casi di attacchi all’uomo. Idem per i comuni squali grigi (Carcharinus plumbeus), che, di certo per il loro bene, non si avvicineranno mai alle spiagge di Riccione ma che chissà quante volte vi avranno girato intorno in certe baie più isolate senza che ve ne siate accorti. Non sono necessariamente squali d’alto mare (vedi il servizio di Nautica nel numero di giugno scorso), ma anche in questo caso non si ricordano incidenti.

Se ci trasferiamo al largo, le cose cambiano. Un altro squalo non raro e relativamente pericoloso è lo smeriglio (Lamna nasus), mentre tipicamente pelagico è il mako (Isurus oxyrinchus), che è uno squalo poco raccomandabile e che in alcuni casi può raggiungere dimensioni inquietanti. Ricordiamoci, infatti, pensando a un occasionale incontro, che anche fra gli squali vige la regola generale per cui pesce grande mangia pesce piccolo e non viceversa, e un mako delle dimensioni di quello pescato ad Ognina è decisamente una rarità. Tuttavia anche se molti squali sono notoriamente attratti dai naufraghi alla deriva, di base non sembrano amare molto il sapore della nostra carne. Meno che mai quello del neoprene delle mute dei subacquei, tanto che ci sono stati molti casi in cui dopo il primo morso lo squalo disgustato se n’è andato. Chiaro però che, per poterla raccontare, bisogna vedere che tipo di morso è stato dato e dove ha colpito. Quello che ha riguardato Rodney Fox, un campione di pesca subacquea australiano, rappresenta il caso più eclatante nella storiografia dei sopravvissuti all’attacco di uno squalo. L’8 dicembre del 1963, durante una competizione nelle acque di Adelaide, egli fu attaccato da un “great white” (Carcharhinus charcarias) che, dopo il primo devastante morso, mollò la presa, ma tornò poco dopo per un secondo attacco. Anche in questo caso il sub non fu di suo gradimento e si allontanò. Rodney fu rapidamente ripescato da una barca di assistenza in un lago di sangue. La descrizione delle sue condizioni al momento in cui arrivò in ospedale farebbe impallidire un film dell’orrore, ma Rodney sopravvisse grazie ai 360 punti con cui gli ricucirono torace e addome, e ai 92 necessari per rimettere in forma il braccio destro. Rodney è poi diventato un grande esperto di squali (collaborò anche alle riprese del celebre film di Steven Spielberg) e ancora oggi dirige la sua Rodney Fox Sharks Expedition.

In buona sostanza, gli squali non attaccano per piacere ma solo per fame: hanno bisogno di grasso e proteine per mantenere la loro potente muscolatura e l’uomo, che è più ossa che carne, salvo qualche esubero di obesità, non rientra nella loro dieta ideale. In ogni caso, doveste trovarvi di fronte uno squalo di grandi dimensioni che dimostri aggressività e non aveste a tiro una gabbia d’acciaio, fra i tanti consigli più o meno inutili e improbabili, dato il panico del momento, provate a seguire questo: per uno squalo siete una potenziale preda, e il dovere di ogni preda è fuggire dal predatore. Quindi evitate di allontanarvi nuotando come forsennati (lo squalo si ecciterebbe e ci metterebbe una frazione di secondo a raggiungervi) ma cercate di fronteggiarlo senza perderlo mai di vista. Non solo questo sarebbe un atteggiamento imprevisto che potrebbe disorientare l’aggressore, ma per personale per quanto modesta esperienza posso testimoniare che lo sguardo umano li infastidisce. In conclusione, risparmiamoci epiteti tipo “feroce assassino”, perché in fondo uno squalo è solo un animale che cerca di sopravvivere. Cerchiamo di essere comprensivi!
Balla con le balene
Abbiamo dedicato agli squali gran parte dell’articolo essendo di gran lunga l’argomento più interessante (o inquietante) in tema di incontri potenzialmente pericolosi, ma per rasserenare gli animi parliamo ora di un incontro più frequente, altrettanto affascinante, sicuramente più spettacolare e senza dubbio più tranquillo. Non è chiaro se Geppetto sia finito nello stomaco di un pescecane o di una balena, ma di certo ne uscì senza problemi e perciò propendiamo per la seconda improbabile ipotesi. Del resto questi giganti del mare che si nutrono prevalentemente di plancton sono assolutamente innocui per l’uomo, così come la stessa paura di vedere la barca schiacciata da un colpo di coda è più fantasia che realtà. In Tirreno, e soprattutto nell’area non a caso chiamata “Santuario dei cetacei”, le balene sono un incontro frequente, tanto da aver dato vita a una nuova specie di amanti della natura: i “whale watchers”.
Nell’incontro con questi giganteschi animali, più che pensare alla propria sicurezza occorre pensare alla loro, dato che non sono rari gli episodi di cetacei feriti dalle eliche delle grandi navi. E anche nell’accostarli con una barca è bene evitare di disturbarne il nuoto, seguendo una serie di precise raccomandazioni. Sulla stessa scia delle balene, anche se un po’ meno frequenti, sono i capodogli, che come mostra la loro dentatura si nutrono di prede più consistenti, ma che non sono stati mai in assoluto protagonisti di attacchi all’uomo o alle barche. Per completezza dobbiamo poi parlare delle orche, cetacei di rispettabili dimensioni, circondati da una pessima fama ma assai ammirati nei circus dei grandi acquari, dove si esibiscono al comando di qualche bella ragazza. Furono veramente le orche (lo ricordo soprattutto ai velisti di pelo bianco) ad attaccare e affondare nel 1976 il Guia III di Giorgio Falck durante la transoceanica Rio de Janeiro-Portsmouth? Perché dubitarne? Ci piace sottolineare che dopo il rapido affondamento della barca, i 6 naufraghi rimasero in acqua circondati dal banco delle orche “assassine” che sembravano osservarli con attenzione senza tuttavia mostrare la minima aggressività. E, paradossalmente, gli unici incidenti letali fra l’orca e l’uomo sono stati registrati nei grandi acquari, dove animali di 7-8 metri sono costretti a esibirsi per la gioia dei visitatori in vasche comunque limitate, con la coseguenza che a volte, comprensibilmente, impazziscono.

In ogni caso, sarà bene ricordarlo, le orche sono un incontro raro ma non impossibile anche nel Mediterraneo occidentale, avendo Gibilterra come punto d’ingresso, e lo possono testimoniare i numerosi avvistamenti – soprattutto nel Tirreno – che si sono verificati negli ultimi anni. In particolare l’anno scorso, quando un “pod” di orche fu seguito con numerosi avvistamenti dalla Liguria alla Sicilia per poi svanire chissà dove. Dei delfini, fra l’altro visti durante la quarantena aggirarsi anche all’interno del marina di Pescara (i porti sono notoriamente ricchi di cefali e spigole), parleremo magari in un altra occasione, essendo argomento ben conosciuto e apprezzato anche dai bambini. Scendiamo invece dal maxi al mini per analizzare un animale piccolo, fetente, e maledettamente comune.
Maledette meduse
Tornando agli incontri ritenuti pericolosi, o più che altro fastidiosi ma in compenso assai più frequenti, potremmo parlare delle meduse, presenza capace di avvelenare le nostre vacanze. Premesso che parliamo di un animale composto al 98{2e3577d2bd6aebaa150c85c33fcd353783f1aa6c690283591e00ef60b3336fc8} di acqua, totalmente privo di ossa e dalla vita assai breve (da 3 a 6 mesi) è bene specificare che ci sono meduse e meduse. La classica medusona bianca (Rhyzostoma pulmo) che spesso viaggia a mezz’acqua e che, per le sue dimensioni, non si può non scorgere facilmente, ha tentacoli tozzi e corti ed è praticamente innocua. Lo stesso dicasi per la Cassiopea (Cothyloriza tubercolata), quella medusa marroncina con un ombrello di diametro intorno ai 20-25 cm e tentacoli corti e terminanti con un peduncolo viola.
Queste meduse possono essere tranquillamente avvicinate e osservate nella loro indubbia bellezza. E soprattutto nel caso della Cassiopea si noterà come spesso fra i tentacoli si aggirino pesciolini argentei, che altro non sono che forme giovanili di sugarello (Trachurus trachurus), che approfittano del rifugio mobile e sicuro offerto dal suo “ombrello”. La crescente presenza di meduse, i cui spostamenti involontari sono per lo più legati a correnti e mareggiate, è dovuta anche alla progressiva rarefazione dei loro naturali predatori, come le tartarughe (che proprio per questa loro propensione possono “confondersi” cibandosi di buste di plastica) e molti tipi di pesce.Se alcune meduse non devono quindi destare preoccupazione, altre sono ben più “fetenti”, per usare un termine tecnico: sono quelle medusine diafane e rosate o appena ambrate (Pelagia noctiluca), i cui tentacoli quasi invisibili e fortemente urticanti arrivano a misurare anche più di un metro. Come se non bastasse, le pelagie hanno il vizio di riunirsi (o meglio di farsi riunire dalle correnti) in foltissimi banchi, a volte veri e propri muri gelatinosi che stazionano in superficie e che scoraggiano ogni entrata in acqua.

Le potenti nematocisti nascoste nei loro tentacoli possono iniettare sostanze con effetto urticante, infiammatorio e neurotossico che diventano ancor più pericolose in caso di sensibilità allergica. Solitamente, il forte dolore che ne consegue, viene inizialmente percepito – soprattutto su braccia e gambe – come una frustata. La pelagia è la medusa per antonomasia, incubo delle nostre vacanze, anche perché poco visibile. Nel caso finiste vittima dei suoi tentacoli, evitate in primis il più che naturale gesto di liberarvi dei tentacoli rimasti eventualmente attaccati alla pelle: sarebbe un errore, perché così facendo si provocherebbe un ulteriore scarica delle nematocisti presenti su di essi. Per lo stesso motivo, vanno evitati i risciacqui con acqua dolce, mentre, se possibile, un buon sistema per limitare i danni è quello di lasciare la parte colpita immersa nell’acqua salata. Per rimuovere i tentacoli si può usare un cartoncino rigido o, meglio ancora, una carta di credito orientata di taglio. Se il dolore dovesse permanere a lungo, si tenga presente che, come la maggior parte dei veleni degli organismi marini, anche quello delle meduse è termolabile, quindi immergendo la parte colpita in acqua molto calda o facendo impacchi (cercando di evitare ustioni), si ottiene un immediato sollievo.
Più difficile avere sollievo nel caso finiste fra i tentacoli della caravella portoghese (Physalia physalia), una sorta di new entry del Mediterraneo, per fortuna ancora rara anche se più volte avvistata, in particolare lungo le coste spagnole e francesi. I suoi tentacoli, lunghi anche più di 10 metri e pressoché invisibili, possono provocare al contatto reazioni devastanti, non escluse interferenze con il sistema cardiocircolatorio e possibili shock anafilattici che, nel caso di soggetti particolarmente sensibili, potrebbero avere anche un esito letale. Nei casi più fortunati, le cicatrici sulla pelle restano a perenne e sgradevole ricordo.
Animali marini che pungono
Non esistono animali marini capaci di pungere per offesa ma può capitare che, se disturbati, alcuni tendano a difendersi in questo modo, diventando a volte pericolosi. è il caso, ad esempio (li citiamo per completezza di informazione, essendo diventati ormai molto rari), dei trigoni e delle torpedini. L’aculeo di cui sono dotati sulla coda i primi, collegato a una ghiandola venefica, può essere manovrato con straordinaria rapidità ed efficacia e le sue ferite, di gravità proporzionale alle dimensioni del pesce, possono di conseguenza essere molto gravi. Nei mari tropicali, diversi incidenti ai danni di subacquei incauti e giocherelloni hanno persino avuto esito mortale. Ma dalle nostre parti, considerando le taglie ridotte, se non ci si mette sopra un piede per sbaglio, questi pesci sono sostanzialmente innocui e, pertanto, possono essere osservati con tranquillità.

Discorso simile ma diverso per la torpedine, la cui capacità di offesa è affascinante per la sua particolarità. Questo pesce ha infatti sviluppato un organo a livello dei muscoli branchiali con il quale è in grado di infliggere una scarica elettrica capace di raggiungere i 220 Volt: in pratica ci si potrebbe accendere una lampadina! La scarica elettrica si scatena al semplice contatto, ma se a qualche pseudosub dovesse venire mai l’idea di sparare a una torpedine, si ricordi che la scarica passa con inalterata energia attraverso l’asta del fucile. In compenso, proprio come accade a una batteria, una volta inflitta la prima scarica, le successive sono sempre più deboli fino a totale esaurimento. All’animale servirà un po’ di tempo per “ricaricarsi”.

Nessuna tracina ha in genere il coraggio di spingersi verso le superaffollate battigie dei nostri mari, tuttavia quest’anno le cose potrebbero essere diverse, considerando il lungo periodo di quarantena e le limitazioni imposte dal Covid. La puntura di questo pesce, inflitta con le prime spine della sua pinna dorsale e con quelle opercolari, è una delle più dolorose che si possano subire nel mondo sommerso: il sintomo dominante è un dolore intenso, a volte ai limiti della sopportabilità, ma possono anche subentrare complicanze a fronte dell’eventuale sensibilità del soggetto, delle sue condizioni fisiche, o anche di eventuali infezioni. Pure in questo caso, oltre a intervenire con un antidolorifico, o al limite con un’anestetico locale, come già detto per le meduse, l’effetto del veleno – che è termolabile – può essere contrastato immergendo la parte in acqua molto calda, anche se, essendo una neurotossina molto potente, è sempre consigliabile ricorrere al medico.
La tracina è un pesce che ama restare semisommerso nella sabbia in attesa delle sue prede, ed è proprio per questa sua immobilità che può essere involontariamente calpestato. Nel caso capitasse di pescarlo (peraltro in cucina si può trasformare in un ottimo piatto), bisogna ricordare che il veleno resta attivo anche dopo la morte dell’animale, dunque maneggiare con cautela.
Un po’ come nel caso dello scorfano, la cui pericolosità è però limitata dal suo habitat più profondo e roccioso, perciò circoscritta più spesso alle varie situazioni che riguardano la pesca.

In tema di contatti più o meno dolorosi (in questo caso un po’ meno), due righe vanno dedicate anche al vermocane o verme di fuoco, (Hermodice carunculata), un anellide diffuso soprattutto nei bacini meridionali del nostro Mediterraneo. L’elegante aspetto piumato di questo animale nasconde un’insidia, perché le apparentemente delicatissime setole di cui è ornato, dotate di un forte potere urticante e difficilmente rimovibili, possono piantarsi nella carne di chi malauguratamente lo sfiorasse. Essendo un animale prevalentemente necrofago, il vermocane arriva in massa e con eccezionale tempismo su eventuali pesci morti rimasti sul fondo (ad esempio gli scarti delle reti dei piccoli pescherecci) ed è bene ricordarsi della sua pericolosità. Un aiuto un po’ rustico ma efficace per liberarsi dalle setole urticanti, può venire dall’utilizzo di nastro adesivo.
Pesci che mordono
Squali a parte, non ci sono in Mediterraneo reali pericoli legati al morso di un pesce, almeno non intenzionale. Nel senso che se provate ad accarezzare una murena senza la dovuta esperienza (mentre con le buone maniere tutto è possibile), potreste ritrovarvi con una brutta ferita sulla mano. Brutta, perché il morso della murena è potente, perché i suoi denti rivolti verso l’interno della bocca tendono a trattenere e a strappare e brutta pure perché potenzialmente infetta e quindi necessitante di un rapido intervento antisettico, nonché, probabilmente, di qualche punto di sutura.

Morso brutto, ma comunque non velenoso come tramandato da leggende metropolitane. Il punto è però un altro: perché rompere le scatole a un animale del tutto pacifico, che passa le sue giornate affacciato alla tana a osservare lo struscio di donzelle e castagnole? Incontrare una murena è tutt’altro che raro, anche sui bassi fondali raggiungibili da un qualunque apneista, e più facilmente nel corso di un’immersione con le bombole. La sua indole, nonostante l’aspetto, è tutt’altro che aggressiva e, muovendosi con delicatezza e fermandosi a debita distanza, si può restare a osservarla a lungo senza alcun pericolo.

Un altro pesce, peraltro sempre più presente nei nostri mari, è vittima di una pessima reputazione: il barracuda. Ma, come per la murena, c’è molto più fumo che arrosto. Nei nostri mari ne circolano due tipi: il piccolo Sphyraena sphyraena, ovvero il cosiddetto luccio di mare, e lo Sphyraena viridensis di dimensioni leggermente maggiori. è però anche vero che grazie alla crescente tropicalizzazione del Mediterraneo favorita dal Canale di Suez, oggi non è raro incontrare esemplari di Sphyraena barracuda, detto anche great barracuda proprio a causa delle sue dimensioni che possono superare i due metri di lunghezza. Nessun barracuda è per sua natura aggressivo nei confronti dell’uomo immerso, ma alcuni attacchi nei mari tropicali sono avvenuti in modo del tutto casuale contro bagnanti in superficie.
Nel senso che il barracuda è un predatore di prima categoria che si ciba di piccoli pesci che spesso nuotano in superficie. è successo ad esempio ai tropici, purtroppo con esito letale e proprio a una turista italiana, che i riflessi luccicanti della sua collanina ciondolante abbiano scatenato l’attacco di un great barracuda. Meno traumatico l’attacco di un barracuda avvenuto anni fa ad Ustica ai danni di una subacquea, con il risultato di 23 punti di sutura al braccio destro. Ma si tratta di episodi rimasti unici. Queste eccezioni, assolutamente isolate nel tempo, confermano la regola: l’incontro con un banco di barracuda resta per il subacqueo una visione spettacolare, affascinante e priva di qualunque pericolo.
Il Riccio di Mare
Ogni rosa ha le sue spine e così è pure per il riccio, sebbene uno spaghetto così condito sia una rosa dal profumo leggendario. Nell’analisi del soggetto l’aspetto è duplice: da una parte la pericolosità (relativa) verso l’uomo, dall’altra quella dell’uomo verso il riccio. Parliamo infatti di una specie che sta lentamente scomparendo a causa degli eccessi di pesca e che, come tale, è soggetta a limitazioni di tempo e di quantità. Generalmente il divieto riguarda i mesi di maggio e giugno e il limite è di 50 ricci a persona. Per i trasgressori sono previste sanzioni che possono superare i 2000 Euro.

Prima di esaminare la pericolosità di questi animali, sfatiamo la radicata leggenda dei ricci maschi e dei femmina. In realtà si tratta di due specie diverse, entrambe ermafrodite: una (Paracentrotus lividus), generalmente pescata per il gustosissimo aroma delle sue gonadi e quindi sempre più rara, si distingue per il colore marrone/violaceo dei suoi aculei; l’altra, (Arbacia lixula) è apprezzata solo dai pesci, in quanto le sue gonadi hanno invece un sapore amaro e sgradevole. Fragili e acuminate, le spine dei ricci sono un mezzo di difesa che diventa involontariamente di offesa quando malauguratamente le si calpesta. Possono infatti facilmente spezzarsi all’interno della pelle provocando un certo dolore al quale si affianca un leggero gonfiore con reazioni cutanee di vario tipo.
La miglior terapia è ovviamente quella di estrarre le spine, magari con l’aiuto di una pinzetta o di un ago sterilizzato, dopo aver cosparso di olio la zona interressata, infine disinfettando il tutto. Ma questo non sempre è possibile. In merito esistono quindi diverse filosofie che vanno dal petrolio agli impacchi di aceto (le spine dei ricci hanno base calcarea, ma non mi sentirei di suggerire il Viakal), dall’olio di oliva alla sempre leggendaria panacea della “pipì”, dalle spugnature di acqua bollente ad apposite pomate a base di ittiolo. In caso di insuccesso possono accadere varie cose: la spina potrebbe venire riassorbita dalla pelle o naturalmente espulsa, oppure ancora inglobata andando a formare un granuloma che potrebbe permanere anche per anni. Il tutto, in compenso, senza grandi sofferenze.
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