Terracina: a rischio la “nave delle tegole”
Nave oneraria al largo del litorale laziale – Quel carico depredato
a cura di Lamberto Ballerini
Prima o poi, la ruberia dei coppi e degli embrici contenuti nel relitto della nave oneraria scoperta al largo del litorale laziale finirà. Non per merito di qualche iniziativa di salvaguardia ma per esaurimento di quel tesoro archeologico.

e della Navigazione Siciliana “Florio” – Palermo).
Quello della nostra immensa ricchezza archeologica è un tema che, quasi sempre, si accompagna a quello assai delicato della tutela e della conservazione dei beni che ne fanno parte. Sia di quelli già acquisiti e ben noti, che spesso ricevono cure e attenzioni non all’altezza del loro valore, sia di quelli che, appena scoperti, devono “necessariamente” essere lasciati là dove sono, nello stato in cui si trovano, e perciò esposti a tutta una serie di pericoli; insomma, a causa di una cronica carenza di risorse, abbandonati a un vergognoso destino.
Perciò diceva, un tempo, l’indimenticato professor Mario Moretti, soprintendente all’Etruria Meridionale: “In Italia, portare alla luce un pezzo della nostra storia antica è abbastanza facile; i veri problemi vengono dopo”.
Dunque, trattandosi di una questione di carattere squisitamente economico, si può ben capire come mai questa triste ventura colpisca anche i ritrovamenti subacquei che, per loro stessa natura, richiedono un apparato tecnico-organizzativo talvolta più complesso e quindi più oneroso di quello che caratterizza gli scavi nella terraferma.
Ebbene, questa premessa si adatta perfettamente alla storia del fortuito ritrovamento di una nave oneraria romana, avvenuto al largo di Terracina il 5 ottobre 1997.

È una bella giornata; il mare è calmo; l’acqua è eccezionalmente limpida. Su indicazione di alcuni pescatori, i subacquei Sami Zammar e Antonio Cervelloni stanno nuotando a una profondità di circa 20 metri, alla ricerca del relitto di un aeroplano della II Guerra Mondiale.
A un certo punto si imbattono in qualcosa di molto diverso: un insieme ordinato di tegole che, per la grande quantità e la disposizione vagamente ellittica, fa subito pensare al carico di un’antica nave da trasporto. Il poco che resta della struttura lignea dello scafo è interrato ma le migliaia di manufatti ordinatamente stivati all’interno di quasi tutto il suo perimetro permettono di stimarne le dimensioni in circa 20 metri di lunghezza e 10 di larghezza. Una specie di chiatta, insomma.

Zammar, che è avvocato, nonché alto funzionario dell’allora Ministero della Marina Mercantile, e Cervelloni, che – guarda caso – è un esperto di materiali per l’edilizia, appena tornati a terra si recano all’Ufficio Circondariale Marittimo di Terracina per depositare la denuncia del ritrovamento. Nei mesi seguenti, sempre spinti da un grande entusiasmo, i due subacquei interessano progressivamente tutte le autorità competenti perché venga svolta un’approfondita indagine ufficiale.

Quasi miracolosamente riescono nel loro intento e, l’anno successivo, sotto la direzione del Ministero dei Beni Culturali, guidano una nutrita squadra di esperti sul relitto.

Il carico della nave, datata al primo secolo avanti Cristo, è disposto su sei ordini di file. Alcune delle tegole (soprattutto embrici di forma trapezoidale, 60 x 47 cm) presentano il marchio di fabbrica [MARRI] indicante il nome del proprietario dell’officina, tale Marcus Arrius, lo stesso artigiano che aveva fornito il materiale per la villa di Tiberio a Sperlonga. Insomma, la scoperta è importante, degna di essere portata alla conoscenza del pubblico.

Perciò, giornali e tv incominciano a parlarne, suscitando curiosità lecite e, inevitabilmente, anche meno lecite. Insomma, quella zona deve necessariamente essere controllata.
Su proposta dei due scopritori, il comandante generale del Corpo delle Capitanerie di Porto, ammiraglio Renato Ferraro, sottoscrive un atto di convenzione tra il Comando stesso, la Soprintendenza e due centri diving locali, per l’organizzazione di visite guidate sul relitto, previa interdizione alla navigazione nell’area interessata. Al di là dell’aspetto puramente culturale e ricreativo, lo scopo è quello di garantire la sorveglianza del relitto da parte di soggetti qualificati – i centri diving, appunto – che, quali portatori primari di interessi diretti al mantenimento della sua integrità, sono motivati più di chiunque altro alla sua piena tutela.
Insomma, sembra andare tutto per il meglio. Ma è troppo bello per essere vero. In quello che sembrava un percorso miracolosamente semplice e lineare si inseriscono progressivamente, uno dopo l’altro, oscuri ostacoli burocratici. E tutto si ferma. Anzi no, non tutto. Solleticati dal chiacchiericcio di banchina e dagli articoli che compaiono qua e là, incominciano a muoversi i “collezionisti” di antichità. Fatto sta che tutt’oggi, a distanza di quasi ventitré anni, la nave di Terracina continua ad essere depredata. Le tegole, che in origine erano circa 4.000, sono ora sono molte molte di meno. Se non verranno presi seri provvedimenti, tra qualche tempo non ne resterà più alcuna traccia.
“UNA GRANDE EMOZIONE”
Il racconto della scoperta dalla voce di uno dei due protagonisti.

Avvocato Zammar, in quali circostanze è avvenuta la vostra scoperta? Di che tipo di immersione si trattava?
Quella mattina, io e il mio amico Antonio Cervelloni stavamo svolgendo un’immersione amatoriale nello specchio d’acqua antistante il lungomare di Terracina, utilizzando una normale attrezzatura ad aria compressa. Alcuni pescatori locali ci avevano detto che in quella zona potevano esserci i resti di un cacciabombardiere americano A 10, precipitato durante la II Guerra Mondiale, ed eravamo intenti a cercarlo. Dopo aver rinvenuto un’ala, probabilmente attribuibile a quel velivolo, ci siamo spinti alla ricerca di altri resti su un’area più ampia, potendo mantenerci a circa 10 metri dal fondo grazie all’eccezionale limpidezza dell’acqua. Dopo circa 15 minuti, del tutto casualmente, ci siamo imbattuti in quella che poi è risultata essere una nave oneraria di epoca romana. Dal fondo emergeva un ordinatissimo carico di tegole assai simile a quello che, alcuni mesi prima, avevamo visto in un articolo pubblicato da una rivista subacquea relativamente a un ritrovamento avvenuto presso Villa Simius, in Sardegna. Una grande emozione.
Che cosa avete fatto subito dopo?
Per prima cosa abbiamo provveduto a evidenziare la posizione mediante un pedagno. Poi, appena risaliti sulla nostra barca appoggio, abbiamo provveduto a marcare la posizione Gps e a prendere i rilevamenti sulla costa: quei punti a terra che talvolta si rivelano più utili degli strumenti elettronici. Appena sbarcati, ci siamo recati in Capitaneria a Terracina, dove abbiamo registrato la denuncia di ritrovamento; successivamente, abbiamo trasmesso copia della denuncia al Ministero dei Beni Culturali e, grazie alla disponibilità di due soprintendenti per il Lazio, la dottoressa Nicoletta Cassieri e la dottoressa Annalisa Zarattini, siamo riusciti in seguito a organizzare un sopralluogo, con la partecipazione delle motovedette della Guardia Costiera e l’ausilio del relativo nucleo subacquei.
Che interventi ci sono stati a protezione del relitto?
Dopo l’intervista fattaci dalla trasmissione Rai “ linea verde” nel 1998, la Capitaneria ha emesso un’interdizione alla navigazione e all’ancoraggio nei pressi del sito. Successivamente il Ministero dei Beni Culturali ha fatto eseguire da una ditta specializzata scavi e carotaggi intorno al carico depositato sul fondo marino, che hanno portato alla luce, dopo 2000 anni, parte della carena in legno ancora integra. Purtroppo, non avendo la Guardia Costiera sufficienti mezzi e uomini da impiegare per la sorveglianza in mare, quel tratto è stato in seguito oggetto di pesca a strascico, attività che ha aggiunto notevoli danni a quelli già provocati dai curiosi.
Danni che ha potuto riscontrare lei stesso, tornando sul relitto?
Purtroppo sì. Una notevole parte del carico originario è scomparsa. Evidentemente, più di qualcuno sta allestendo un piccolo
museo archeologico in casa propria.