Antiche navigazioni: oltre le Colonne
Varcare le Colonne d’Ercole
È trovarsi davanti l’immensità dell’oceano oggi è un’emozione forte, ma nell’antichità era un salto nel buio che richiedeva grande coraggio.
E anche un pizzico d’incoscienza.
Quanto spesso usiamo queste tre parole latine senza pensare, o sapere, quanto antiche siano le loro radici? Non plus ultra è una frase oggi utilizzata con un significato ben diverso da quello che aveva alle origini.
La mitologia greca
Comprensibile, in fondo, perché le sue origini affondano nella mitologia greca, tanto che a scriverle fu Ercole che, alla sua decima fatica, dopo aver catturato gli splendidi buoi rossi di Gerione (che per la cronaca era un gigante con tre busti, tre teste e sei braccia…ma con due sole gambe) le incise su due colonne poste sui due versanti che segnavano allora i limiti del mondo conosciuto, dando così il nome a quelle “Colonne d’Ercole” che oggi conosciamo come Stretto di Gibilterra.
Non plus ultra: oltre non si poteva andare, un segnale e un obbligo che separava il noto dall’ignoto.
Ma quanto durò questo ignoto, quanti rispettarono quel segnale posto da un semidio? Abbastanza pochi si direbbe, osservando la storia delle antiche navigazioni, anche se ovviamente i libri di bordo di quelle epiche imprese si sono per lo più persi nel tempo, senza contare che magari oltre quelle conosciute ce ne furono altre, e altri audaci navigatori si spinsero oltre le porte del Mediterraneo, magari alla ricerca di quell’Atlantide che Platone aveva piazzato in pieno oceano.

Lunghe e sottili come la galea genovese del modellino in alto, erano anche piuttosto basse di bordo.
Omero
È una storia un po’ ai confini della leggenda, dato che a parlarne furono prima Strabone e poi Omero che spinse il suo infaticabile Ulisse arso dalla sindrome della conoscenza fin oltre le mitiche colonne arrivando, suppongono alcune teorie, fino al profondo Nord, ovvero nel Baltico.
Un’impresa che ci ricorda a modo suo anche Dante che, quando i compagni dell’eroe omerico esitano a varcare quella soglia egli li incita offrendo al Vate uno dei suoi più famosi passi: “…considerate la vostra semenza, fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e conoscenza”. Peccato che di quello che successe dopo sappiamo poco, ma resta il fatto che agli antichi – Ercole non Ercole – l’oceano non faceva una gran paura.
La prima sfida
Un altro famoso navigatore del passato fu Pitea, nativo della colonia greca di Massalia, leggi Marsiglia, che non è chiaro per quale ragione ma verso il 330-320 a.C. passò le Colonne d’Ercole puntando anche lui verso Nord, lasciandoci una straordinaria serie di informazioni che purtroppo – causa successivo naufragio – ci sono pervenute solo per via indiretta attraverso gli storici dell’epoca.
Essendoci fra questi gente come Strabone e Plinio il Vecchio, riteniamo che il “Periplo” di Pitea, ovvero i suoi scritti originali, riporti informazioni più che affidabili.
Così apprendiamo che la sua nave, con un equipaggio di 25-30 marinai, lasciò il porto di Marsiglia in primavera, col favore dei venti, e scese verso Sud costeggiando la penisola iberica fino allo Stretto di Gibilterra passando di gran corsa le Colonne d’Ercole che all’epoca erano sorvegliate e bloccate dai Cartaginesi.
Una volta in Atlantico puntò decisamente verso Nord fermandosi in diversi porti per rifornirsi di acqua e viveri, fino a raggiungere gli arcipelaghi delle Ebridi, delle Orcadi e le isole Fær Øer, forse spingendosi fino all’Islanda o giù di lì dato che descrive un’isola – che chiama Thule – dove il sole non tramonta mai.

La galea
Proviamo a immaginare questa barchetta di una ventina di metri, probabilmente una galea, costruita con le conoscenze cantieristiche dell’epoca che non erano certo quelle dei cantieri viareggini di oggi, e proviamo a immaginarla persa in un oceano dove non c’era anima viva, navigando nella più assoluta solitudine sotto il segno delle stelle che erano l’unico strumento disponibile, e necessariamente non sempre in condizioni meteo favorevoli.
Il tutto a forza di vele e di remi, a velocità che nel migliore dei casi arrivavano a sfiorare i 6 nodi.
Se riusciamo a immaginare la situazione, dobbiamo ammettere che Pitea e il suo equipaggio sapevano il fatto loro. Anche perché le informazioni riportate erano del massimo interesse.
Pitea scoprì infatti che la Cornovaglia era ricchissima di stagno; che in Pretannia, leggi Gran Bretagna, si formavano maree molto alte; e che nell’isola di Thule di cui sopra, la notte durava poche ore, il mare era spesso ghiacciato, ma in compenso si produceva dell’ottimo miele. Inoltre dopo aver circumnavigato la Pretannia ne stimò il perimetro costiero con un errore di solo il 2,5% inferiore a quello reale.
Se Pitea fu un grande, anche per aver fornito un report giornalistico di grande interesse, pare che qualcuno lo avesse preceduto: tale Imilcone del quale sappiamo poco, salvo che era il fratello di Annone, di cui parleremo tra qualche riga, e che in cerca di nuove rotte per il commercio dello stagno arrivò anche lui, intorno al 550 a.C., dalle parti della Bretagna.

Tra storia e fantascienza
A questo punto facciamo un piccolo passo indietro e andiamo in Egitto verso la fine del VII secolo a.C. per incontrare un faraone-armatore, Necho II, che per soddisfare le sue ambizioni commerciali aveva assoldato due esperti comandanti cartaginesi, praticamente il meglio che offriva il mercato, per organizzare una spedizione che, passate le Colonne d’Ercole, andasse alla ricerca di nuove ricchezze.
I due comandanti in questione erano appunto Imilcone e suo fratello Annone e, se del viaggio del primo, che puntò a Nord, come detto non sappiamo molto, di quello che fece Annone abbiamo invece molte interessanti notizie e la cosa più curiosa fu che Annone le Colonne d’Ercole le passò al contrario. Il suo viaggio cominciò infatti dal Golfo Arabico e, sempre secondo Erodoto, la nave circumnavigò l’Africa per poi riapprodare in Egitto dopo tre anni alla fine di un percorso, come è stato calcolato, di 11.700 miglia.
Tre anni durante i quali non fu certo facile mantenere gli approvvigionamenti, ma soprattutto, date le capacità nautiche delle navi, non fu facile navigare tanto che, va ricordato, al sopraggiungere dell’autunno la spedizione prendeva terra e, trovate le giuste condizioni, seminava il grano che avrebbe poi raccolto in primavera prima di riprendere il mare: il tutto seguendo il cammino delle Pleiadi, che a quel tempo, come tutte le stelle che guidavano la navigazione, non avevano gli stessi movimenti di oggi.

Le difficoltà del viaggio
Non fu comunque un viaggio facile e lo testimoniano le numerose disavventure che conosciamo attraverso un codice del X secolo, tradotto dal punico al greco. Cosa che comunque non scoraggiò la lenta conquista delle coste africane occidentali e portò a nuove involontarie scoperte.
La mancanza di previsioni meteo, infatti, nel I secolo a.C. coinvolse una nave proveniente da Cadice in una tempesta i cui forti e incontrastabili venti spinsero il vascello in pieno oceano per oltre 200 miglia a Ovest delle coste africane, fino ad approdare su un’isola delle meraviglie: Madera.
Del resto fu casuale anche la scoperta dell’America, dato che Colombo puntava alle Indie.
E se vogliamo spingerci un po’ più in là con la fantasia, casuale dev’essere stato anche l’approdo dei Fenici sulle coste brasiliane. Fantascienza? Forse sì o forse no, se si considera una combinazione di venti e correnti tipicamente atlantica o se si presta fede alla Petra do Ingà, un grande monolite roccioso inciso in caratteri presumibilmente punici ritrovato nello stato brasiliano di Paraìba: lungo 26 metri per 3,8 di altezza mostra simboli e graffiti ancora oggi solo parzialmente decifrati.
Ma, vale la pena ricordare, non è questa l’unica testimonianza di un’ipotesi non necessariamente fantasiosa: dopo tutto anche Thor Heyerdahl ha attraversato l’Atlantico su una barca di papiro. Questo per non parlare dei Vichinghi che, fra un ghiaccio e l’altro, approdarono a Terranova già intorno all’Anno Mille.

I Romani
E i Romani? Possibile che i titolari del più grande impero dell’antichità non avessero messo il naso fuori delle Colonne? Ci mancherebbe, tant’è che Augusto mandò in esplorazione ben due flotte oltre il mitico stretto, una verso Nord l’altra verso le coste africane, come dimostrano anche alcuni affreschi di Pompei e un mosaico romano dove compare un ananas, che si riteneva sconosciuto fino al viaggio di Colombo.
I fratelli scomparsi
Nel Medioevo la palma dei navigatori oceanici va inevitabilmente ai Vichinghi che con i loro drakkar, improbabili ma evidentemente efficienti, dopo aver colonizzato l’Islanda prima e la Groenlandia dopo, approdarono sulle coste di Terranova guidati dai figli di Erik il Rosso.
Anche loro, poi, le Colonne d’Ercole le passarono al contrario, quando forse anche in conseguenza dell’affacciarsi della “piccola glaciazione” che colpì l’emisfero settentrionale per diversi secoli, nella seconda metà dell’800 si diressero a Sud entrando in Mediterraneo e razziando a dritta e a manca fino a quando cominciarono a insediarsi in pianta stabile, diventando più noti come Normanni e fondando quel Regno delle Due Sicilie che durò per secoli.
In realtà, per una serie di ragioni facilmente comprensibili, le avventure atlantiche erano molto più frequenti verso il Nord Europa che verso l’Africa, anche perché i preziosi commerci con l’Oriente avvenivano via terra grazie alle rotte carovaniere che però costavano i numerosi dazi pagati agli intermediari.

La via alternativa
L’esigenza di una via alternativa era quindi più che sentita e a tentare di scoprirla furono i mercanti genovesi che finanziarono una spedizione via mare per arrivare “Ad partes Indiae per mare oceanum”. Nel 1291 l’impresa fu affidata da Tedisio Doria a Ugolino e Vadino Vivaldi, due validi comandanti locali che salparono da Genova con 300 marinai su due galee, l’Allegranza e la Sant’Antonio, e la presenza a bordo di due frati francescani.
Una benedizione che però servì a poco perché quando iniziarono la discesa lungo le coste africane, probabilmente in seguito a una burrasca, le due navi si persero e di loro non si seppe più nulla. O quasi, perché in realtà la storia è molto più intrigante.
Le galee, basse, sottili e per lo più mosse a remi, non erano certo adatte alla navigazione oceanica, tanto che potevano procedere solo costeggiando, con frequenti approdi per rifornirsi e per passare, quando possibile, la notte. Si sa che alla foce del fiume Senegal una delle due galee si arenò, ma senza drammi perché fu possibile trasferire merci ed equipaggio sull’altra galea che proseguì il viaggio.
E qui si apre un piccolo mistero perché l’equipaggio, forse catturato e trasportato via terra, forse avendo invece quasi completato il periplo dell’Africa con la galea superstite, giunse comunque sull’altra sponda del continente, o per essere più esatti nel regno di Mogdasor (Mogadiscio) e del famoso Prete Gianni.

Le fonti
Una delle poche fonti in proposito è quella di Sorleone de’ Vivaldi, figlio di Ugolino, che organizzò una spedizione per rintracciare il padre e riportò voci che parlavano di un gruppo di Genovesi arrivati sulla costa orientale dell’Africa, dove si fermarono ritenendo impossibile rientrare via mare. Qualche altro dato viene dal “Libro del Conoscimiento” in cui l’autore, un frate spagnolo, riporta l’incontro con Sorleone sottolineando che il re di Mogdasor non fece proseguire la ricerca del figlio di Ugolino ritenendola troppo pericolosa.
Certo a confondere ancor di più le acque su quell’impresa avventurosa è poi scesa la nebbia del tempo e l ’unica cosa certa è che nessun membro di quella spedizione tornò mai a casa.

I grandi portoghesi
Oro, avorio e schiavi arrivavano prevalentemente via terra dall’Africa, ma è certo che a muovere la voglia d’avventura verso l’ignoto fu anche l’esigenza si scoprire nuove ricchezze e nuove rotte commerciali raggiungibili via mare in tempi più brevi.
In particolare, per quanto riguardava l’esigenza di una via più diretta e sicura per raggiungere l’Estremo Oriente, terra natale delle ricercatissime spezie all’epoca valutate quasi quanto l’oro, c’era l’esigenza di capire meglio la conformazione delle coste africane, ma la navigazione lungo le coste meridionali dell’Africa – va ricordato – era resa più impegnativa dalla difficoltà di orientarsi con la Stella Polare a Sud dell’Equatore e di avere al tempo poca dimestichezza con la Croce del Sud, almeno finché non arrivarono la bussola e l’astrolabio.

Bartolomeo Diaz
Fu questo a spingere Giovanni II, re del Portogallo succeduto a Enrico il Navigatore, ad affidare a Bartolomeo Diaz una spedizione di tre caravelle mirata a scoprire la via più breve per raggiungere le Indie e incrementare così i commerci portoghesi, ma anche con il secondo fine di raggiungere il regno del mitico Prete Gianni, un re cristiano citato anche da Marco Polo e signore delle tre Indie, che si dice vivesse in un palazzo fatto di oro e pietre preziose.
Anche se Diaz non passò le Colonne d’Ercole perché in realtà ne era già fuori, essendo partito da Lisbona, l’importanza di questa navigazione fu enorme perché egli, al comando del São Cristóvão, fu il primo navigatore che nel 1487 doppiando il Capo di Buona Speranza e dimostrando la connessione fra Oceano Atlantico e Oceano Indiano aprì la via delle Indie, sconfessando la teoria di Claudio Tolomeo che sosteneva non esserci passaggio fra i due oceani.
Quando dopo una terribile tempesta di tredici giorni Diaz perse la rotta e non vide più terra a Est, immaginò di aver doppiato l’Africa e di aver concluso il compito affidatogli. Lì infatti, dopo aver toccato terra 500 miglia a Nord di quello che Giovanni II chiamò poi Capo di Buona Speranza, decise di fermarsi e tornare in patria. Curiosamente Diaz, dopo varie altre navigazioni oceaniche, trovò la morte nel 1500 proprio nel naufragio della sua nave nei pressi del capo da lui scoperto.

Le rotte
A concludere il discorso e a tracciare definitivamente la rotta verso le terre delle spezie ci pensò nel 1497 Vasco da Gama, altro celebre navigatore portoghese, che partì anche lui da Lisbona, l’8 luglio, e si fece accompagnare da Diaz fino a Capo Verde. Ormai le Colonne d’Ercole avevano perso il loro ruolo di confini del mondo, anzi possiamo dire che, data anche l’impresa di Colombo, il mondo si preparava a non avere più confini.
Sbarcando nel Kerala il 20 maggio del 1498, Vasco appena trentenne fu il primo a raggiungere via mare l’India dall’Europa, con un’impresa che aprì le porte a una prima forma di globalizzazione e soprattutto a un impero portoghese in Asia che durò a lungo e concesse al navigatore il titolo di viceré delle Indie.
Mostrando una notevole conoscenza della navigazione oceanica e delle forti correnti che si creavano alla congiunzione fra i due oceani, da Gama fu anche il primo a scegliere di abbandonare la navigazione costiera scegliendo una rotta più larga ma più favorevole, anche se poi non trovò in quell’occasione i venti che sperava.
Doppiato il capo di Buona Speranza risalì le coste dell’Africa orientale fino a raggiungere l’attuale Kenya e da lì, con l’aiuto di un comandante yemenita profondo conoscitore delle rotte dell’Oceano Indiano messo a disposizione dal sultano di Malindi, raggiunse l’India. La via delle spezie era stata tracciata e Vasco da Gama, ritornato in patria, fu ricoperto di onori, dimenticando episodi di estrema crudeltà compiuti nei confronti delle popolazioni locali, che non gli facevano certo onore.

Le colonne oggi
Ormai prive del loro ruolo originario, le Colonne d’Ercole non hanno tuttavia perso importanza. Oggi lo Stretto di Gibilterra, visto un po’ al contrario di quello che era anticamente, costituisce la porta d’ingresso del Mediterraneo e ha una straordinaria importanza strategica e commerciale dato che le sue 36 miglia sono attraversate ogni anno da oltre 100.000 navi.
Resta tuttavia una stranezza geopolitica, visto che a Sud c’è l’enclave spagnolo di Ceuta, mentre a Nord – pur essendo posta all’estremo sud della Spagna – Gibilterra è dal 1713 un territorio d’oltremare appartenente alla Gran Bretagna, con tutti i suoi usi e costumi.
Ancor più curiose e interessanti sono però le sue caratteristiche oceanografiche. Formatosi 5.033.000 milioni di anni fa, lo stretto nel suo punto minimo misura appena 13 chilometri e, con una profondità minima di circa 300 metri, costituisce quella Soglia di Gibilterra attraverso la quale le più dense e salate acque del Mediterraneo scorrono per gettarsi in oceano, mentre al di sopra entrano le più dolci e superficiali acque atlantiche.

Una situazione che influisce ovviamente anche sullo scambio biologico fra oceano e Mare Nostrum, e dall’Atlantico possono entrare specie alloctone come già accaduto nel caso, ad esempio, di alcune specie di ricciole e di barracuda, o di una micidiale medusa nota come Caravella Portoghese.
Ma lo stretto è anche un luogo molto frequentato dai grandi cetacei per i quali l’intensità del traffico marittimo costituisce un forte rischio, tanto che si sta cercando di creare norme più adatte alla convivenza, o ancor meglio creare un’area protetta all’interno dello stretto dove venga imposta la velocità limite di 13 nodi. In pratica dire che dal tempo di Ercole le cose sono un po’ cambiate appare una banalità, ma prima di dire che sono migliorate viene voglia di fare qualche riflessione.


