I Vichinghi: i predatori del profondo nord
Di questo popolo – che non era un vero e proprio popolo – sappiamo ancora poco, ma quel poco ci parla di grandi marinai e di importanti colonizzatori. E di barche costruite in modo del tutto originale.
Erano alti, biondi, muscolosi, guerrieri forti e implacabili, con lunghi capelli al vento, barbe rossicce e occhi infuocati. Brandivano spade enormi, indossavano rozze pelli di animali, elmi dalle lunghe corna, bevevano nei teschi dei loro nemici e si lavavano (una volta alla settimana ) con una specie di sapone che ricavavano impastando cenere e grasso animale.
Ma soprattutto erano feroci, ruggivano come belve, ed erano pronti a mangiarsi bambini, pecore, somari e chiunque incontrassero sul loro cammino: li chiamavano Vichinghi. Fra il VII e XI secolo terrorizzarono mezza Europa. O forse no? Non sarà che la leggenda come palcoscenico di creatività abbia condito un po’ troppo la realtà? Non sarà che nei racconti di chi li aveva incontrati la fantasia abbia lavorato un po’ troppo? Forse anche sì o, come spesso capita, diciamo che il giusto sta nel mezzo.
Dunque, senza smontare la pittoresca immagine di questi pirati del profondo Nord, cerchiamo di capire meglio chi erano questi figli del freddo, non trascurando che vissero in un’epoca di grandi suggestioni, dove spesso diavoli e streghe, draghi e lupi mannari erano di casa, ed è quindi probabile che a dipingere questa gente in modo tanto spaventevole sia stata in primis la fantasia dei monaci dei tanti monasteri, vittime rituali delle incursioni vichinghe.

Una storia importante
L’origine dei Vichinghi è piuttosto incerta, così come il loro nome che ha dato adito a numerose interpretazioni. Quel che è certo, invece, è che il termine è sempre stato un suggestivo emblema di aggressività e potenza, tanto da risultare spesso utilizzato anche nella nostra epoca per battezzare auto, moto, articoli sportivi di vario genere e perfino barche, come nel caso di uno dei più noti cantieri d’oltre Atlantico.
In realtà il termine non aveva una vera e propria connotazione etnica, in quanto corrispondeva più che altro a chiunque decidesse di dedicarsi alla pirateria, di terra o di mare. Geograficamente, la storia pone i Vichinghi in quella Scandinavia oggi suddivisa fra Norvegia, Finlandia, Svezia e Danimarca, con piccole tribù sparse in un vasto territorio, le quali però, pur essendo pronte ad unirsi per razziare, appartenevano a culture diverse, in alcuni casi con marcate influenze di popoli provenienti dall’Asia o dall’Europa meridionale.

A testimoniarlo è il lavoro di un gruppo di ricercatori danesi che ha sequenziato il DNA di 442 scheletri vichinghi rinvenuti in vari siti archeologici, in Europa e in Groenlandia. Da questa e altre analoghe ricerche sono emerse realtà piuttosto contraddittorie, in grado di smentire alcuni degli aspetti più pittoreschi di quel popolo.
Pare, ad esempio, che i Vichinghi non fossero poi quei giganti di cui parlano le leggende, dato che la loro altezza media era di poco superiore al metro e settanta. E non erano poi neanche così biondi, perché dall’esame di quanto ritrovato nelle tombe è emerso che fossero tutt’al più castani. Qualche dubbio anche sull’abbigliamento, che dato il clima di quelle latitudini non poteva essere troppo approssimativo: i Vichinghi sapevano infatti utilizzare al meglio le pelli degli animali uccisi, facendone pellicce tutt’altro che rudimentali, tanto da diventare spesso oggetti di commercio.
E se infine guardiamo all’armamento, immortalato da un’iconografia probabilmente distorta dalla fantasia, pare che le loro lunghe corna fossero unicamente riservate alle unioni sentimentali, dato che i loro elmi erano semplicemente conici e tutt’al più dotati di una protezione per le guance e per la nuca. Così come le grandi spade capaci di tagliare in due un uomo erano in realtà poco più grandi delle corte daghe romane.

Leggende a parte, questi Vichinghi furono veramente importanti nella storia dell’umanità? Indubbiamente sì. Le loro piratesche scorribande, che si spinsero fino al Sud dell’Europa – Italia inclusa – arrivando poi fino a Costantinopoli, non portarono certamente a un impero, ma comunque caratterizzarono un’epoca che per gli storici ha un preciso inizio e un altrettanto precisa fine. Il 793 d.C., con il saccheggio dell’abbazia di Lindisfarne, un’isoletta al largo della costa orientale inglese, segna l’inizio di un periodo in cui l’Europa subì furiose incursioni devastatrici da parte dei popoli nordici, chiamati anche “Norreni” o, con termine a noi più familiare, Normanni.
Per chiarire meglio la confusione etimologica, vale però la pena di sottolineare che in realtà, anche se spesso utilizzato a sproposito, il termine Normanni è riferito unicamente a quei Vichinghi che si insediarono nel Nord della Francia a partire dal IX secolo, da cui la denominazione Normandia. Che poi nei secoli successivi i Normanni, ormai ben distinti dai loro antenati Vichinghi, divennero di casa (si fa per dire) anche in Italia, lasciando occasionali tratti somatici anche in Puglia e Sicilia, è un’altra storia. Storicamente, l’epoca vichinga si ritiene conclusa il 25 settembre del 1066 quando, con la battaglia di Stamford Bridge, si consolidò la conquista dell’Inghilterra da parte di Guglielmo il Bastardo, duca di Normandia.

Navigare alla vichinga
Ai fini storici, l’importanza dei Vichinghi va tuttavia oltre gli aspetti cruenti e pirateschi. Nella loro evoluzione, oltre a diventare ferventi cristiani, ebbero un ruolo – cosa che a noi più interessa – come grandi marinai e audaci colonizzatori. Per diventare grandi marinai, essi avevano necessariamente bisogno di grandi barche, e qui per vari aspetti la cosa si fa decisamente interessante.
Difficile ad esempio pensare che un popolo che viveva in condizioni climatiche fortemente avverse costruisse barche che, seppur di grandi dimensioni, erano prive del minimo rifugio contro il mare e le intemperie. Essendo in pratica dei giganteschi “open” più adatti a una placida navigazione fluviale in climi temperati, viene inevitabile confrontare queste barche con la successiva produzione cantieristica del Nord Europa, che al contrario è sempre stata centrata su sovrastrutture tali da consentire di affrontare senza troppi problemi freddo e maltempo.
Questi Vichinghi, che per altro non disponevano di stivali, guanti e cerate, dovevano quindi avere la pelle veramente tosta, anche perché, se nella norma le loro barche erano destinate al cabotaggio costiero, non mancarono navi con le quali affrontarono la navigazione oceanica fino a colonizzare terre lontane come l’Islanda, la Groenlandia e perfino il Nord America. Senza dimenticare che, scendendo lungo l’Atlantico, entrarono nel Mediterraneo attraverso lo Stretto di Gibilterra.

Una ragione che potrebbe forse giustificare la mancanza di sovrastrutture nelle barche vichinghe potrebbe però essere rappresentata dal loro metodo costruttivo.
Parliamo infatti di barche che spesso superavano i 20 metri di lunghezza e che venivano costruite a fasciame sovrapposto con tavole lunghe quanto lo scafo, fissate con giunzioni inchiodate nella carena e legate nello scafo, così come le ordinate, con cordame in fibra vegetale. Prive di ogni base progettuale, la loro costruzione era affidata all’esperienza dei maestri d’ascia, che sceglievano con cura anche il legname: quercia, ma anche pino, olmo e abete, tagliati seguendo le venature del tronco per sfruttare al massimo la resistenza e la flessibilità del materiale, erano utilizzati per la chiglia e le ordinate. Legni che venivano tenuti costantemente umidi, spesso sommersi nelle paludi, per facilitare la loro flessibilità al momento della costruzione.
Queste barche, o chiamiamole pure navi, erano inoltre prive di una vera e propria chiglia, forse per ovviare a difficoltà costruttive, o più probabilmente per facilitare il trasporto via terra. Non si ha infatti notizia di veri e propri porti, mentre si sa che, avventurandosi lungo laghi e fiumi per saziare la loro fame di conquista, i Vichinghi, grazie alla leggerezza di queste navi, potevano facilmente spostarle sul terreno.
Studiando questo metodo costruttivo si pensa che le barche vichinghe fossero dotate di una certa flessibilità in grado di assecondare le onde, anche se questo impediva la presenza di sovrastrutture che non avrebbero avuto punti di ancoraggio.

Senza contare che all’inizio queste navi erano mosse unicamente da remi e che, comunque, quando si pensò di dotarle di vele, queste erano estremamente primitive: parliamo infatti di vele quadre issate su alberi di altezza limitata, realizzate con tessuti grezzi, spesso impermeabilizzati con uno strato di catrame di pino (utilizzato anche per proteggere lo scafo) e in molti punti protetti da rinforzi in pelle. Vele, quindi, che potevano consentire unicamente andature portanti. In compenso, sulla base di ricostruzioni moderne, si è calcolato che per installare l’albero e issare la vela fossero necessari meno di due minuti.
Le navi dei Vichinghi erano generalmente caratterizzate da un rapporto dimensionale 7 a 1 che ne esaltava la lunghezza, soprattutto nelle navi da guerra, i famosi “drakkar”, che montavano sul dritto di prua delle impressionanti teste di drago e che potevano misurare oltre 25 metri di lunghezza per 3,5-4 metri di larghezza, misura quest’ultima leggermente superiore nelle navi commerciali. Da notare che, avendo una forma perfettamente simmetrica, i drakkar godevano di grande manovrabilità, potendo eseguire senza difficoltà cambi di direzione di 180 gradi.
Tuttavia, se consideriamo che le navi vichinghe avevano un bordo libero decisamente basso e che per limitare la loro instabilità dovevano imbarcare tonnellate di pietre come zavorra, e se aggiungiamo inoltre le continue infiltrazioni d’acqua attraverso il fasciame, che costringevano l’equipaggio a operare come una sorta di pompa di sentina umana, possiamo concludere che per i Vichinghi la navigazione non doveva essere proprio una passeggiata. Anche se purtroppo non abbiamo notizie circa i loro sistemi di navigazione, si presuppone che nelle navigazioni oceaniche si orientassero utilizzando una sorta di bussola solare e che, nelle giornate nuvolose, utilizzassero una particolare pietra, la mitica “pietra solare”, probabilmente un cristallo di calcite in grado di polarizzare la luce del sole. Di notte utilizzavano ovviamente le stelle, mentre il colore del mare e il volo degli uccelli indicava la vicinanza di una costa.

In barca oltre la vita
L’importanza delle barche andava oltre l’uso prettamente marittimo. Spesso venivano infatti utilizzate nella sepoltura di personaggi e guerrieri importanti, ed è proprio grazie al ritrovamento di alcune di queste tombe, in cui oltre al corpo del defunto veniva sepolta una quantità di oggetti, che è stato possibile tracciare molti tratti della storia di questo popolo. Inevitabile che il pensiero vada alle tombe dei faraoni egizi, ma questa è ovviamente un’altra storia. Curioso anche pensare che la maggior parte delle informazioni sulla cantieristica vichinga venga da imbarcazioni ritrovate sottoterra anziché in fondo al mare.

Fra le navi che hanno fornito le documentazioni più importanti va sicuramente citata la nave di Oseberg, risalente al IX secolo (834 d.C.), che fu rinvenuta nel 1904 nell’omonima località norvegese e che, caso abbastanza singolare, rappresentava il monumento funerario di due donne di assai differente lignaggio. Si pensa infatti a una regina e alla sua schiava, alle quali facevano compagnia 14 cavalli, un bue, 3 cani, un carro di legno e 4 slitte, oltre a una quantità di suppellettili di vario genere delle quali molto probabilmente dovevano far parte pure cose molto preziose, probabilmente trafugate poco dopo la sepoltura. Segno che, anche prima della loro conversione al cristianesimo, i Vichinghi credevano fermamente in una seconda vita dopo la morte.
Costruita in legno di quercia e lunga circa 21 metri per 5 di larghezza, l’imbarcazione – conservata oggi nel museo delle navi vichinghe di Oslo – costituisce uno straordinario esempio delle navi dell’epoca. Si ritiene avesse un albero alto circa 10 metri in grado di portare una vela di 90 mq, supportata da due file di 15 remi, e che fosse in grado di raggiungere i 10 nodi di velocità. Al di là delle notazioni tecniche, va sottolineato l’aspetto artistico della costruzione che, oltre all’elaborata spirale in legno che orna il dritto di prua, mostra alle estremità suggestive incisioni decorative.
L’importanza della navigazione per i Vichinghi sembra per altro avere radici assai lontane, e la più straordinaria testimonianza è offerta dalla “nave” megalitica che sorge sulla collina di Österlen, nella Svezia meridionale, affacciata sul Mar Baltico. Parliamo di un monumento che ricorda Stonehenge, composto da 59 grandi monoliti di roccia del peso di circa 1,8 tonnellate ciascuno, che disegnano la pianta di una nave lunga 67 metri per – si fa per dire – 19 metri di baglio, e con tanto di dritto di prua e di poppa formati da pietre alte oltre tre metri.
Di questa straordinaria installazione non si sa quasi nulla, salvo il fatto che si presume risalga a circa 1400 anni fa. Resta il dubbio se si tratti di un monumento funebre o di una sorta di orologio astronomico: curioso infatti notare che la direzione della nave da prua a poppa è esattamente in linea con il solstizio d’estate e con quello d’inverno. Noto come Ales Stenar, dove il termine “Ale” si ritiene riferito a una parola dell’antica lingua norrena relativa a “santuario”, questa straordinaria installazione ha ancora molte cose da rivelare, a partire da come sia stato possibile trasportare pietre da due tonnellate, considerando che la cava più vicina dista oltre 30 chilometri.

Ad alimentare le leggende sul mondo dei Vichinghi contribuirono anche le loro credenze mitologiche e religiose, popolate da elfi, nani, giganti e da divinità mostruose come Fenrir il lupo, o Miogarosormr, il grande serpente che circonda il mondo. Ancor più singolare la complessa cosmogonia vichinga che, semplificando, prima di arrivare a Odino, signore di tutti gli dei, e al Valhalla, il paradiso norreno, parla di un mondo del ghiaccio (Niflheimr) e di un mondo del fuoco (Múspellsheimr) separati dal vuoto assoluto nel quale alla fine si incontrarono dando vita all’acqua.
Meno poetici i rituali, che non disdegnavano sacrifici umani, mentre gran parte del pantheon vichingo ci è sconosciuto, salvo qualche divinità celebrata dal cinema e dai fumetti come Thor, dio del tuono, o Freya, dea multitasking che comprendeva l’amore e la guerra, ma anche divinazione e fertilità. Tutto questo patrimonio mitologico tramandato unicamente per via orale, trovò una più concreta forma scritta solo con l’avvento del cristianesimo che, dopo aver sofferto il saccheggio di centinaia di monasteri, finì per conquistare anche l’animo dei Vichinghi.

Grandi colonizzatori
Pirateria e costante fame espansionista potrebbero però dare dei Vichinghi un’impressione errata, dato che, saccheggi a parte, l’economia di questo popolo si basava prevalentemente sull’agricoltura e sull’allevamento, in misura minore sulla caccia e sulla pesca, ma soprattutto sul commercio. E fu proprio quest’ultima attività il motore che spinse i più audaci di loro ad affrontare navigazioni oceaniche che portarono dapprima alla colonizzazione di varie isole britanniche, cui seguì l’insediamento sulle coste islandesi, fino al gran balzo che portò i Vichinghi sulle coste della Groenlandia.
Protagonista assoluto di queste audaci navigazioni fu Erik il Rosso che, esiliato dall’Islanda portando sulla coscienza diversi omicidi, non era certo uno stinco di santo, ma che riuscì a stabilire la prima colonia vichinga su quella lontana isola che battezzò Grönland (Terra Verde), più o meno alla fine del X secolo. In altre parole fu lui ad approdare per primo in quella terra poi chiamata Terranova: dunque fu il primo, ben prima di Colombo, a scoprire l’America, anche se il suo tragitto fu assai più breve e facile.
Questi insediamenti durarono solo qualche secolo, e furono poi abbandonati per le difficili condizioni climatiche – incluso probabilmente l’innalzamento del livello del mare – e per i contrasti con le popolazioni locali, gli Inuit. Interessante però ricordare che nel 2016, dopo aver fedelmente ricostruito un drakkar nell’ambito del progetto Draken Harald Hårfagre, una spedizione norvegese ha replicato il viaggio che portò i Vichinghi dalla Norvegia alla scoperta di Terranova. Fra l’altro la nave – 35 metri di lunghezza per 8 metri di baglio; capace di raggiungere i 14 nodi grazie ai suoi 260 mq di vela – proseguì poi il viaggio fino a New York, facendo una trionfale entrata ai piedi della Statua della Libertà.

Ben più vicina a noi la discesa dei Vichinghi in Mediterraneo, dove, dopo essere approdati sulle coste francesi e spagnole, arrivarono fra l’859 e l’860 fino al Mar Ligure, dapprima mettendo a sacco la città di Luni, in Garfagnana, e proseguendo poi verso Sud per depredare prima Pisa e Fiesole, successivamente minacciando Roma e finendo poi per trovare più facile insediarsi in Sicilia. Qui, oltre a un’eredità genetica e a suggestive tracce architettoniche, i Normanni lasciarono il seme di un’ammirevole struttura geopolitica che portò in seguito alla fusione con il Ducato di Puglia e Calabria e alla fondazione, nel 1130, del Regno di Sicilia sotto Ruggero II d’Altavilla.