Il gozzo mediterraneo: oltre la tradizione
Il gozzo e la sua storia
È passato attraverso secoli di storia adattandosi ai cambiamenti di una nautica in costante evoluzione, ma il gozzo non ha perso il suo fascino originale e resta
il padre di tutte le barche mediterranee.

Si porta sulle spalle il peso della tradizione, un presente pieno di mille sfumature e un futuro certo e aperto a tutto ma succube, probabilmente, di irrinunciabili scelte tecnologiche: avremo quindi, forse, un gozzo elettrico? Un’ipotesi che fa rabbrividire i più integralisti amanti del genere, ma a ben vedere questa è una barca che di rivoluzioni ne ha già viste parecchie ed è tuttavia sopravvissuta ad ogni cambiamento, perché non ci dimentichiamo che il gozzo è il simbolo di una tradizione marinara che ha sfidato i secoli e ancor oggi coinvolge la cantieristica e affascina i diportisti.
E se volessimo andarne a cercare le origini più remote, per quanto vaghe e indefinite, potremmo addirittura risalire ai Fenici, come suggeriscono i grandi occhi spesso dipinti sui masconi dei gozzi mediterranei per garantire la sicurezza della rotta, o la palla rossa posta alla sommità della pernaccia di certe antiche palamitare, che riproduceva la costellazione dell’Orsa Maggiore, tipico riferimento dell’andar per mare fenicio.
La barca del “mestiere”
La storia è quindi lunga, ma prima di tracciarne le linee potrebbe essere utile capire con esattezza cosa si intende per gozzo, perché parliamo di una tipologia di barca su cui anche consultando sedicenti dizionari nautici è facile fare confusione, per cui partiamo dalle sue radici, che sono principalmente quelle di una barca da lavoro, o per essere ancor più precisi, di una barca utilizzata dai vecchi pescatori di mestiere, e qui è inevitabile dipingere un quadro di doverosa anche se un po’melliflua poesia.
Ecco allora una barca non più grande di 4-6 metri la cui principale caratteristica è quella di avere una poppa e una prua praticamente uguali. La scelta non è casuale, e vedremo perché.

Al timone, strettamente a barra, c’è uno di quei vecchi pescatori di mestiere fra le cui rughe piene di sole e di sale puoi leggere tutte la sofferenza di un lavoro duro e profondamente cambiato negli anni, ma che allora richiedeva una profonda conoscenza del mare e una vigoria fisica in grado di giocare fra le onde per ore e ore. Una conoscenza che consentiva di ritrovare una secca in mezzo al mare anche senza ecoscandaglio e una vigoria fisica che consentiva di raggiungerla…a remi, ma a volte anche a vela, necessariamente latina, perché ai tempi in cui è nato il gozzo non esistevano altri sistemi di propulsione.
Poi, una volta raggiunta la meta entrava in gioco la struttura a doppia punta, che consentiva di muovere con facilità la barca avanti e indietro anche con piccoli colpi di remo, seguendo i segnali trasmessi dalle lenze e il movimento del pesce, possibilmente tenendo la prua o la poppa al mare per evitare il rollio di una carena tonda, dislocante, e giustamente considerata marina, ma certamente non comoda.
Si pescava prevalentemente a bolentino perché ovviamente era impossibile mantenere le velocità di traina, anche se a volte affidandosi alle correnti e allo scarroccio poteva nascere una via di mezzo. Ma c’era anche chi calava palamiti, nasse, o piccoli tramagli, il tutto in versione come detto ridotta dato che non esistevano mezzi meccanici che potessero supportare il recupero degli attrezzi e tutto doveva essere fatto a mano. Certo la ricchezza dei fondali era a quel tempo ben altra storia rispetto a quella odierna ma questa, appunto, è tutta un’altra storia.
Di quei gozzi, tutto legno e fatica, restano ancora pochi esemplari, che pur nel decadimento strutturale segnato dal tempo e dal mestiere, non mancano di commuovere. La struttura, con il suo reticolo di ordinate a vista segna la grande robustezza di barche che spesso, a sera, venivano tirate a riva trascinate su traversine di legno ammorbidite dal grasso, mentre gli strati di vernice sovrapposti e ben visibili attraverso le screpolature, parlano di una manutenzione un po’ rustica che non poteva permettersi il lusso di un cantiere. I remi, che lavoravano su uno stroppo debitamente ingrassato che faceva forza su un robusto perno di metallo, erano dotati nella parte superiore di una sorta di rigonfiamento che fungeva da contrappeso per alleviare la fatica della vogata.
Poche tavole di legno, ben incastrate fra le ordinate, formavano il pagliolo, ma a volte sui gozzi di maggiori dimensioni si arrivava a pontare la prua creando al di sotto uno spazio utile per riporre gli attrezzi o, a volte, anche per concedersi qualche ora di sonno quando si usciva a pescare di notte. Tutte barche, vale la pena ricordare, costruite sulla base di disegni approssimativi e per lo più ad occhio da maestri d’ascia di provata bravura ed esperienza.
Il primo passo
Il primo grande passo nell’evoluzione del gozzo fu l’installazione di un motore entrobordo, rigorosamente Diesel e spesso con messa in moto a mano, ovvero a strappo come sui fuoribordo di una volta, montato in posizione centrale per mantenere un miglior baricentro (qualcuno montò poi anche dei piccoli fuoribordo agganciati su un supporto che sporgeva da un lato della poppa: una blasfemia nautica che bypassiamo senza rimorsi) con trasmissione in linea d’asse, ma con l’elica che usciva protetta dal timone.
Quei rumorosi e borbottanti motori con i loro pochi cavalli e con consumi irrisori erano quanto bastava ad ampliare, e non di poco, l’autonomia del gozzo, che a quel punto poteva raggiungere nuove zone di pesca, e soprattutto poteva praticare tecniche diverse e molto redditizie per il pesce pregiato – leggi dentici e ricciole – come la traina.
Nel frattempo il gozzo si è piegato ad esigenze tipicamente locali, modificando in parte la sua struttura e creando tipiche scuole regionali. Ecco allora, solo per citare le più importanti, il gozzo ligure, quello sorrentino e quello siciliano. Letteratura vuole che, almeno nella sua struttura primigenia, l’archetipo della famiglia sia il gozzo ligure, caratterizzato da una prua leggermente più importante della poppa, e spesso da una pernaccia, ovvero un prolungamento verticale del dritto di prua, a volte leggermente rovescio. Forme probabilmente dettate dal mare più fastidioso sulle coste liguri: il libeccio.
Più slanciate le forme del gozzo sorrentino, la cui importanza come mezzo di lavoro e di trasporto doveva necessariamente tenere conto che, al tempo, i collegamenti via terra, data la particolare orografia della costa, erano molto difficoltosi.
La prua era leggermente più alta della poppa, dalla quale lavoravano i pescatori, per contrastare le prevalenti onde di maestrale, ma come in altre occasioni le forme della barca erano più che versatili per adattarsi a particolari esigenze. È il caso, ad esempio, delle coralline napoletane le quali, che lavorassero con il cosiddetto ingegno o con la croce di Sant’Andrea, avevano bisogno di un baglio generoso per la stabilità e di bordi liberi bassi per il recupero dell’attrezzatura e del corallo. Simile al gozzo sorrentino era anche la filuga ponzese, col suo dritto di prua verticale e linee di carena piuttosto piatte, mentre anche i gozzi siciliani, a volte dotati di linee slanciate ed eleganti pur rimanendo legati alle esigenze della pesca, furono adattati a tecniche particolari, in primis quella più affascinante di tutte: la pesca al pesce spada con l’arpione, tipica dello Stretto di Messina.
Del tutto particolare è poi la storia dei gozzi sardi, non tanto per la loro originalità, dato che nascono dalle popolazioni migrate dal continente, quanto per l’amore e la passione dedicate a queste barche. Valgano come esempio le spettacolari regate di Stintino riservate ai gozzi a vela latina, che quest’anno celebrano il loro quarantennale, ma va detto che in Sardegna si tengono altre numerose regate legate a questo tipo di barca. In sostanza, pur avendo descritto alcune versioni tipiche delle nostre coste, non bisogna dimenticare che, Fenici a parte, questo tipo d’imbarcazione è ancor oggi diffusa in tutto il Mediterraneo, senza dimenticare che un gruppo di emigranti italiani portò il gozzo fin sulle coste della California, dove fu chiamato “felucca” o “dago boat”.
Una lenta evoluzione
È in questa fase che il gozzo inizia ad affascinare anche diportisti raffinati ed esigenti, passando dal rustico natante di mestiere ad eleganti opere di ebanisteria, dove il legno a vista perfettamente coppalato, assecondato da un ponte in teak cuscinato come un salotto, rendeva queste barche un raffinato gadget nautico. A prescindere dalla sua versione diportistica, il gozzo mostrava comunque un sapiente utilizzo delle varie essenze di legno, anche se queste dipendevano spesso dalle disponibilità locali. Legni dolci e duri si alternavano nelle varie parti della struttura: dalla quercia o rovere per paramezzali, dritti di prua e di poppa, al frassino o all’olmo per le ordinate, al pino per il fasciame, al faggio per i remi e via discorrendo, ferme restando come detto le disponibilità locali. Resta intoccabile l’attaccamento alla carena dislocante, le cui linee d’acqua non si scontrano con il mare ma piuttosto lo assecondano, offrendo un’eccezionale morbidezza di navigazione.
Caratterizzate da forme tondeggianti che si affinano solo verso le estremità, le carene dei gozzi mantengono lo scafo totalmente e perennemente immerso, e non risentono più di tanto di eventuali variazioni di peso a bordo. Nella loro interpretazione tradizionale sono barche pesanti ma robuste, stabili e marine, e per ovvie ragioni montano motorizzazioni di bassa potenza dai consumi contenuti.
Legate però a un sostentamento statico piuttosto che dinamico come quello delle carene plananti, e mancando di superfici idonee a staccarsi dall’onda, le carene dislocanti sono limitate nella velocità. In pratica un gozzo è legato a una “velocità teorica massima di avanzamento”, che è funzione della sua lunghezza al galleggiamento.
Su queste carene, a livello delle piccole dimensioni di un gozzo, sono tuttavia nate e cresciute le principali tecniche di pesca sportiva, dal bolentino alla traina, alla subacquea, quindi anche se oggi sono relegate alla piccola pesca professionale o alla passione dei più nostalgici, gli dobbiamo un grande rispetto ed il dovuto affetto.
Ieri, oggi, domani
Proprio il capitolo dei materiali fu quello che segnò il passo successivo del gozzo, perché con l’arrivo della vetroresina il legno, costoso e complesso nella lavorazione, finì presto per scomparire o comunque per essere limitato ai già citati gozzi di rappresentanza. I primi scafi in vetroresina ripresero comunque forme e dimensioni dei loro predecessori in legno ed aprirono le porte al mercato del diporto e della pesca sportiva.
Il passaggio a una barca per diportisti esigenti e raffinati, pur sempre legati alle caratteristiche del gozzo tradizionale, vide la discesa in campo di cantieri artigianali in grado di realizzare piccole opere ebanisteria, anche se necessariamente con costi correlati che ne fecero una produzione d’elite. Poi arrivò un nuovo grande ed importante step: il gozzo, barca dislocante per antonomasia, si mette un gonnellino sulle uscite di poppa e diventa planante. A compiere il grande balzo, con esperienze e intendimenti diversi sono due cantieri che hanno poi giocato un ruolo importante nella nautica. Il Calafuria 7, presentato nel 1971 da Vincenzo Catarsi al Salone Nautico di Genova, addolcisce le uscite di poppa della carena con una sorta di flap fisso che crea una superficie di supporto per facilitare la planata, ma la barca nasce ed ottiene un grande successo soprattutto come barca da pesca.
Con un salto nel nostro Sud, un nome mitico nel mondo dei gozzi, Aprea, propone invece una versione di gozzo ugualmente planante ma più diportistica.
È l’inizio della più recente storia di questa barca che, pur perdendo parte delle sue caratteristiche storiche, è riuscita a trovare una nuova dimensione di successo, come testimoniano le attuali novità di molti cantieri di antico nome. I nuovi gozzi, rigorosamente plananti e capaci di sviluppare velocità superiori ai 30 nodi grazie a carene specificamente studiate e a motorizzazioni di elevata potenza, sono aumentati di dimensioni, si sono dotati di comodi interni, di coperte totalmente fruibili disegnate per godere il nostro sole, e mantengono nelle forme un’eleganza un po’ retrò sottolineata dai generosi inserti in legno pregiato. Sono in pratica una perfetta fusione fra l’antica tradizione e le più attuali tendenze. Sempre, sia chiaro, nel nome del gozzo.

Gozzi in passerella
Patrone Moreno

Nato nel 1922 dalla mano di sapienti maestri d’ascia, il cantiere è stato uno dei primi interpreti del gozzo ligure a livello di cantieristica commerciale, e ne ha seguito l’evoluzione con tutta l’esperienza e la creatività assecondate da maestranze di grande mestiere. La sua ultima creazione, il Gozzo 100, dove la cifra celebra gli anni del cantiere che nel frattempo sono però diventati 101, porta la prestigiosa firma di Tommaso Spadolini, che ha saputo ingentilire la spartanità del gozzo con un design molto gradevole caratterizzato dal T-Top e da volumi di prua importanti ma ben allineati, mentre il pozzetto gode di spazio e comodità oltre ad avere un funzionale piano cottura. Diverse le possibili personalizzazioni, che possono arrivare anche a una doppia cabina per incrementare l’abitabilità degli interni, che per altro, nella nuova versione 2023, sono stati totalmente rivisti. Doppia scelta anche per la motorizzazione, che può essere entro o fuoribordo, e vari i colori disponibili per lo scafo, incluse alcune originali e gradevolissime tinte pastello.
Apreamare
Nome mitico nel mondo della cantieristica specifica dei gozzi, sotto la guida di Cataldo Aprea, il cantiere sorrentino ha saputo tracciare per le sue barche un’identità ben precisa, sposando eleganza e prestazioni, qualità dei materiali e un design capace di fondere la tradizione con linee moderne e accattivanti. Apreamare si presenterà ai prossimi saloni autunnali con il suo nuovo Gozzo 35, barca in cui un’attenta gestione degli spazi ha saputo creare un’accoglienza tipica di barche di ben maggiori dimensioni, il tutto condito da un’attenta scelta dei materiali e da accurate rifiniture. Disegnato da Umberto Tagliavini con il supporto dello stesso Cataldo Aprea, affianca a quella standard la recentissima versione Speedster, caratterizzata dalla motorizzazione fuoribordo che può arrivare fino a 2×400 HP, consentendo velocità di punta superiori ai 40 nodi, mentre un elegantissimo gioco di colori fra il nero dello scafo e l’arancio delle cuscinerie crea un look decisamente originale.
Sciallino
Il cantiere ligure è fra quelli rimasti più fedeli alle linee originali del gozzo, pur dandone un’interpretazione moderna che, nei modelli di maggiori dimensioni, unisce la funzionalità e la generosità degli spazi alla cura dei materiali e delle rifiniture. E’ decisamente apprezzabile, però, che il cantiere abbia saputo rispettare la tradizione mantenendo nella sua gamma gozzi di piccole dimensioni come il 19’ e il 23’, quest’ultimo disponibile anche in versione cabinata, ma soprattutto come novità del 2023 in linea con l’evoluzione dei tempi verrà presentato con una motorizzazione ibrida. E sempre nell’ottica della tradizione, ricordando che il gozzo nasce come barca da pesca, vale la pena notare che con il suo 34 Fisherman, Sciallino è uno dei pochi cantieri che abbia dedicato un modello specifico alla pesca sportiva.
Mimì
Dai primi gozzi e lance con cui Salvatore Senese esordì nel mondo della nautica nell’ormai lontano 1975, il cantiere campano ha sviluppato una gamma ampia e importante che va dal center console di 6,5 metri a un 13,5 metri, attuale ammiraglia della gamma. Ai saloni autunnali Mimì sarà presente con la nuova versione del Libeccio 11, disegnato come gran parte dei modelli attuali da Valerio Rivellini per soddisfare una clientela desiderosa di modernità ma allo stesso tempo attaccata alla tradizione.
La nuova versione di questo storico modello ha puntato molto sulla fruibilità degli spazi aperti, con un pozzetto ampliato e caratterizzato da un grande prendisole a isola che sfocia su una spiaggetta poppiera di grandi dimensioni. La cucina esterna duplica quella che si trova sottocoperta, dove sono state ricavate due cabine doppie con toilette in vano separato. Importanti anche le prestazioni, che con 2×250 HP come motorizzazione di base consentono di superare i 30 nodi.