Speciale catamarani: efficienza idrodinamica, perché due è meglio di due
L’efficienza idrodinamica del catamarano
La speciale efficienza idrodinamica del catamarano è dovuta fondamentalmente alla sua possibilità di superare più agevolmente la cosiddetta velocità critica, che – ricordiamo – è la velocità alla quale la carena genera un’onda trasversale (quella che si disegna sul fianco della carena) lunga quanto la carena stessa.
In pratica, in corrispondenza della velocità critica, l’imbarcazione naviga su due creste d’onda autoprodotte, una a prua e una a poppa. Superare la velocità critica significa che la distanza tra le due creste aumenta, la cresta poppiera arretra e l’imbarcazione cade nel cavo d’onda che essa stessa ha generato, appoppandosi. Banalizzando, possiamo immaginare una barca che naviga in salita!
Ora, è evidente che l’entità dell’appoppamento della barca sarà determinato dall’altezza dell’onda prodotta, ovvero dall’altezza tra la cresta e il cavo. Infatti, mentre la lunghezza delle onde che si formano intorno allo scafo in movimento è sostanzialmente indipendente sia dalla forma della carena sia dal dislocamento, ma è legata alla sola velocità, la loro altezza è invece strettamente connessa alle caratteristiche della carena.
È stato calcolato che l’energia spesa dalla barca per la formazione delle onde varia proporzionalmente alla loro lunghezza e al quadrato della loro altezza. L’altezza dell’onda che la carena forma muovendosi è quindi assai rilevante ai fini del calcolo della sua resistenza. Grazie alla loro snellezza, alle entrate affinate, al basso rapporto tra dislocamento e lunghezza, gli scafi dei catamarani hanno tutte le caratteristiche ideali per generare onde di prua di modeste dimensioni, sistemi di onde basse caratterizzate da scarsa pendenza.
Il risultato
Il risultato è che, in corrispondenza della velocità critica, la resistenza cresce ma non si impenna come quella degli scafi dislocanti convenzionali. Basta quindi un modesto incremento della forza propulsiva per portarsi a velocità superiori pur continuando a navigare in dislocamento, cioè senza che agiscano sulla carena forze di sostentamento idrodinamico, se non in misura marginale.
Ok, tutto chiaro. Ma a quanto corrisponde questa velocità critica? 10 nodi, 20, 50 nodi? Dipende dalla lunghezza della barca. Facciamo qualche esempio ma, prima di tutto, andiamo a vedere cos’è questa velocità critica. Essa si esprime con un numero adimensionale chiamato numero di Froude, in onore del padre dell’idrodinamica William Froude, secondo la seguente relazione
in cui V è la velocità espressa in m/s, L la lunghezza di carena in metri e g è l’accelerazione di gravità in m/s2, oppure con il quoziente di Taylor o velocità relativa
in cui la velocità è espressa in nodi e la lunghezza in piedi. Come si vede entrambi sono il rapporto tra velocità e lunghezza di carena (g è una costante) ma cambiano solo le unità di misura, internazionali per il primo e anglosassoni per il secondo.
Come abbiamo accennato, per una carena di una fissata lunghezza, al crescere della velocità cresce la lunghezza dell’onda trasversale prodotta, fino ad arrivare ad una velocità in cui questa lunghezza è pari alla lunghezza al galleggiamento della carena stessa. A questo punto abbiamo raggiunto la velocità critica a cui corrisponde un valore del numero di Froude FN= 0.4, oppure una velocità relativa
La velocità critica a quale velocità reale corrisponde?
Utilizzando queste formule possiamo poi facilmente calcolare a quale velocità reale corrisponde la velocità critica della nostra barca. Se parliamo di un piccolo gozzo di 6 metri scopriremo che la velocità critica è di circa 6 nodi, mentre per una barca di 12 metri, un 40 piedi, la velocità critica sale a circa 8,5 nodi, per diventare circa 11 nodi per 20 metri (65 piedi). Come si vede, la velocità critica cresce al crescere della lunghezza della barca tanto che, per una nave di 100 metri risulta di oltre 24 nodi. Da questi numeri è evidente come questo problema sia più sentito sulle piccole imbarcazioni.
Orbene, abbiamo detto che i catamarani possono agevolmente superare la velocità critica perché la loro forma, snella con le estremità affusolate, genera onde meno ripide e di dimensioni contenute che determinano un aumento di resistenza più graduale all’aumentare della velocità rispetto ad un monocarena generalmente più tozzo.
Quanto è snella una carena?
Ma che significa, in concreto, una forma snella quando si parla di una carena?
Basta fare il semplice rapporto tra la lunghezza e la larghezza della carena (L/B, lenght/beam) per avere immediatamente una indicazione sulla snellezza della carena: infatti, se un monocarena generalmente non supera un rapporto L/B di 3-4, ovvero la sua lunghezza è pari a 3-4 volte la sua larghezza, i singoli scafi di un catamarano possono arrivare ad essere lunghi anche oltre 10 volte la loro larghezza (rapporto L/B=10). È evidente che rapporti L/B così elevati determinano forme di carena estremamente snelle che permettono, dunque, di ridurre fortemente la formazione ondosa prodotta e, di conseguenza, ridurre la resistenza all’avanzamento, ottenendo velocità di un certo rilievo senza la necessità di potenze esagerate.
Di contro, è altrettanto evidente che queste forme così snelle e affinate condizionano l’abitabilità degli scafi, tanto che, al diminuire delle dimensioni del catamarano, diventa un limite (quasi) insormontabile. Come si fa, su una barca di 10 metri, a sfruttare e rendere un minimo abitabili degli scafi larghi 1,5 metri nel punto di maggior larghezza? Per questo motivo è raro vedere catamarani cabinati di piccole dimensioni, diciamo sotto i 10-12 metri.
Allo stesso tempo è anche vero che, negli ultimi anni, questo limite si sta pian piano riducendo, soprattutto grazie alle forme di scafo che si allargano ad arte sopra il piano di galleggiamento per aumentare la volumetria interna, senza compromettere più di tanto le caratteristiche idrodinamiche.

velocità relativa (Vr) di una carena dislocante medio pesante, di una planante, di un multiscafo da turismo e di uno da regata. Come si vede, tralasciando le performance del catamarano da regata, che ha forme e rapporti di peso esasperati, la resistenza del catamarano da crociera diventa inferiore rispetto a quella di una carena dislocante e di una carena planante intorno alla velocità critica, quando il beneficio della ridotta resistenza d’onda del catamarano compensa la maggiore resistenza di attrito di quest’ultimo rispetto al monocarena. Inoltre, mentre rispetto a una carena dislocante queste migliori prestazioni si mantengono al crescere della velocità, anzi si amplificano, alle alte velocità la carena planante ha prestazioni migliori dopo che inizia a planare, ovvero a beneficiare di un sostentamento idrodinamico significativo.
Rimaniamo ancora sul tema della forma allungata degli scafi. Queste forme, oltre ad essere estremamente efficienti dal punto di vista idrodinamico, determinano anche una miglior tenuta al mare complessiva e un migliore comfort, sia grazie ai contenuti volumi delle estremità dello scafo che ne limitano i movimenti e le accelerazioni verticali, sia grazie alla quasi totale assenza di superfici orizzontali o sub-orizzontali che impattano violentemente sull’acqua in caso di navigazione con mare mosso (tale fenomeno è tecnicamente denominato slamming). In questo discorso, però, non abbiamo preso in considerazione la grande superficie orizzontale di collegamento dei due scafi (ponte) che può impattare molto violentemente e, per questo motivo, deve essere opportunamente disegnata e posizionata.
Va pur detto che quando si parla di catamarani di grandi dimensioni la distanza del ponte dalla superficie del mare è generalmente tale da evitare tali impatti, o comunque in grado di limitarne sensibilmente gli effetti. Invece, quando si parla di piccole imbarcazioni per le quali la distanza del ponte dall’acqua è inevitabilmente ridotta, generalmente la superficie rigida dei ponti è parzialmente o del tutto sostituita da reti sulle quali l’equipaggio può sostare e camminare ma che rappresentano una superficie aperta attraverso la quale l’acqua che sale dal basso può filtrare senza impattare con violenza.
La larghezza degli scafi
Parliamo ora della larghezza totale che, se da un lato aumenta lo spazio sul ponte di coperta e, più in generale, la godibilità della barca, dall’altro determina non pochi problemi nella sua gestione, a partire dai maggiori costi per un ormeggio in banchina. Questi, rispetto a quelli previsti per i monoscafi di pari lunghezza, possono addirittura raddoppiare, sebbene alcuni porti – come vediamo in altra parte di questo speciale – offrano comunque particolari agevolazioni.
Dunque, se da una parte è vero che tutti i costruttori di catamarani cercano di contenere al massimo questa larghezza, è altrettanto vero che essa non può essere ridotta più di tanto senza compromettere l’efficienza idrodinamica che tanto abbiamo decantato fin qui. Infatti, le onde prodotte dai singoli scafi, seppur di dimensioni ridotte per effetto della forma affusolata degli scafi stessi, comunque interagiscono tra loro determinando un aumento della resistenza. Pertanto, la distanza degli scafi dovrebbe essere tale da non produrre questa interferenza, o comunque tale da limitarla.
A questo punto risulta evidente che sarà necessario un compromesso tra un interasse (piccolo) tra gli scafi che permetta dimensioni gestibili in porto e un interasse (grande) che riduca al minimo l’interferenza idrodinamica. Per dare un’idea di cosa significhi un interasse grande con il quale gli effetti di interferenza idrodinamica sono minimizzati basta guardare ai catamarani a vela da regata, come il Gunboat 68, un catamarano a vela lungo 20,8 metri e largo 9,1. La larghezza di una barca di 30-40 metri! Molto efficiente ma anche un ben problema quando si tratta di ormeggiare in banchina!
Questo riferimento al Gun Boat 68 ci dà lo spunto per accennare ad un altro vantaggio peculiare del catamarano a vela: quando questo si inclina a certe andature, lo scafo sopravvento si solleva dall’acqua generando una minore resistenza idrodinamica (onde e attrito) e, perciò, migliorando ulteriormente le performance.
Aggiungiamoci poi che larghezza significa stabilità di forma, ciò che permette di avere molta superficie velica e di portare più tela in rapporto alla forza del vento. In pratica, è come poter montare un motore più potente (in questo caso, le vele), permettendo velocità superiori rispetto a quelle di un normale monoscafo.
A meno che non si tratti di foil, con i quali cambia tutto perché, di fatto, con essi la barca esce completamente dall’acqua e “vola”! Ma questa e tutta un’altra storia.






