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Navi nella storia: i navicelli, velieri del marmo

Navicelli

Una tipologia di unità da lavoro – di durissimo lavoro – strettamente legata alla Toscana. Velieri dall’originale tipo di armamento, capaci di raggiungere la Sicilia, con il loro prezioso e pesante carico, in 3-4 giorni.

In manovra a Genova

I navicelli toscani, velieri specializzati nel trasporto dei marmi estratti dalle cave delle Apuane, si distinguono tra le imbarcazioni tirreniche per l’originalità della loro attrezzatura velica. Portavano due alberi: quello di trinchetto, che era collocato quasi a prua e inclinato in avanti, era attrezzato con una vela di forma trapezoidale, inferita con canestrelli.

Questa inconsueta “vela di straglio”, tesa tra gli alberi di trinchetto e di maestra, veniva ammainata mollando le due drizze e lasciando scorrere velocemente verso il basso i canestrelli. In alto, sopra questa vela, se ne fissava un’altra di forma triangolare, murata a prua sull’albero di trinchetto e a poppa quasi in testa all’alberetto.

L’originale albero di trinchetto, inclinato verso prua

Il trinchetto, infine, era armato con un fiocco, che era murato a prua sull’apposita asta di fiocco. L’albero di maestra portava una vela di corno di notevole superficie, ovvero un’aurica senza boma e una controranda. Un tratto caratteristico dello scafo era dato dall’altezza dell’opera morta, un particolare che si apprezzava soprattutto osservandolo di poppa, che era a cuneo. Il timone era a barra e, viste le dimensioni del veliero, doveva essere piuttosto faticoso da maneggiare.

L’altezza dell’opera morta

Il navicello era lungo tra i 30 e i 35 metri, largo 7, mentre la portata si collocava di solito tra le 100 e le 160 tonnellate. A vele spiegate e con vento favorevole poteva viaggiare a pieno carico ad una velocità di 8 -9 nodi. L’equipaggio non superava le 4-6 persone, compreso il mozzo (l’fant)…

Il capitano dormiva a poppa in un locale che serviva anche da ufficio, “sala nautica” e deposito viveri. Gli uomini riposavano in cuccette ricavate sopra il gavone di prora e il pozzo delle catene, dove venivano anche conservate le vele di riserva. Il materasso era costituito da uno strapuntino pieno di foglie di granturco a cui i marinai dovevano provvedere personalmente. I marinai conservavano tutto il corredo necessario in un fagotto, che consisteva in un fazzoletto di 80 cm di lato: maglione (e mutande) di lana, due-tre ricambi di camicie, pantaloni, panciotto, fazzoletti.

I navicelli a Sanremo

Oggi, nelle sale del Museo del Marmo di Carrara, alcuni schermi a parete riproducono i filmati di interviste agli ultimi marittimi che hanno navigato sui navicelli. Essi confermano le buone caratteristiche di questi velieri che, con le stive cariche di blocchi di marmo, da Carrara potevano raggiungere in tre o quattro giorni, col vento favorevole, Napoli o Palermo. I marinai ricordano anche quanto fosse dura la vita di bordo, soprattutto nella navigazione notturna invernale, quando tutto l’equipaggio, per ragioni di sicurezza, doveva restare di guardia in coperta. L’unico modo per non congelare, dicevano, era quello di ingurgitare una buona porzione di “acqua pazza” bollente, ovvero il classico piatto povero della gente di mare: una minestra di pesce, pomodori e aglio.

navicelli
Le pericolose operazioni di carico

Sull’origine di queste imbarcazioni, derivate forse da scafi fluviali utilizzati nelle acque interne della Toscana e che sono denominate anch’essi “navicelli”, sono state sviluppate diverse ipotesi, che tengono anche conto della presenza di un “canale dei navicelli” che fu realizzato tra il 1563 ed il 1575 tra Livorno e Pisa. L’evoluzione finale degli antenati dei navicelli, a cavallo tra il Settecento e l’Ottocento, è comunque testimoniata da diverse immagini che li ritraggono armati con una vela latina all’albero di maestra e una mezzanella latina. Quest’ultima scomparve poi nel corso dell’Ottocento mentre, come abbiamo visto, l’albero di maestra, a partire dalla metà dell’Ottocento, fu poi attrezzato con una vela aurica.

In uscita da Genova

Il trasporto fino al mare dei blocchi e delle lastre di marmo dalle cave delle Apuane, che spesso si trovavano a notevoli altezze, rappresentava una fase difficile e pericolosa: l’operazione aveva una qualche somiglianza con il varo di uno scafo, anche se qui bisognava trattenere la massa marmorea che, scivolando su parati insaponati, minacciava di precipitare a valle. Così, dopo aver staccato dalla parete il blocco di marmo, o “carica”, lo si faceva scendere lungo il pendio scosceso della montagna utilizzando l’antico sistema della “lizzatura”.

Sotto il blocco, o i blocchi costituenti la carica di 15-25 tonnellate di massa, si disponevano due “lizze”, travi di legno ricurve verso l’alto lunghe fino a 12 metri. Esse posano su travicelli (parati) disposti trasversalmente alle vie di lizza e insaponati superiormente.

In bonaccia

La carica scivola sui parati, continuamente tolti di dietro e con prontezza portati davanti dai componenti di una “compagnia di lizza” composta da 6 a 15 operai specializzati e da un capo lizza; alcuni di essi, dall’alto, manovrano i canapi ai quali è attaccata la carica, amministrandone le spire di avvolgimento a pioli di legno (piri) infissi saldamente in luogo sicuro.

Nel caso di blocchi di dimensioni eccezionali, la discesa con le lizze poteva comportare delle difficoltà davvero epiche: si ricorda ancora una lizza del 1929: un monolite da 380 tonnellate e lungo 20 metri, destinato a divenire l’obelisco del Foro Italico di Roma. Quella volta, tuttavia, visti i limiti di portata dei navicelli, fu necessario imbarcarlo su una chiatta appositamente costruita, che fu poi trainata fino a risalire il Tevere.

Navicelli
L’Italia nel 1815

Giunti finalmente al piano caricatore o “poggio”, si ponevano poi i blocchi di marmo su carri particolarmente robusti, detti “di foggia romana” perché rimasti immutati nel corso dei secoli, che erano trainati da parecchie coppie di buoi. A partire dal 1890, tuttavia, fu costruita un’apposita ferrovia, detta “Ferrovia Marmifera”, un’opera civile notevole per la sua forte pendenza e l’imponenza e il numero dei ponti e delle sue opere d’arte.

Navicelli
Blocco di marmo su un carro romano

Oggi i “velieri del marmo” sono tutti scomparsi e di loro rimangono solo i ricordi e le vecchie immagini. Tra questi, è particolarmente rilevante quanto ci ha lasciato il capitano viareggino Raffaello Martinelli, detto “il Bava”. Si tratta di un centinaio di disegni, titolato Tipi di barche, piroscafi e battelli 1892 -1928 corredati da commenti manoscritti. La sua testimonianza è particolarmente interessante perché Martinelli è un vero uomo di mare, uno del mestiere, che ha potuto osservare dal vivo le barche di cui parla. Ecco come egli presenta il navicello in una tavola datata 1915:
“Questo disegnato nella fig. 75 è il vero tipo di navicello, che appartiene alle marine di Avenza (Carrara) e Forte dei Marmi. Oggi in maggioranza costrutti sui Cantieri di Viareggio, ve ne sono parecchi che superano le 150 tonnellate di carico. I loro viaggi sono costieri, dal punto nel quale caricano marmi frequentano per destinazione Genova, Livorno, Napoli e Palermo. Qualche volta vengono mandati a Taranto e Brindisi, ecc. Come pure a Barcellona (Spagna).

Come si vede sono con una vistosa quantità di tela, i cui velami fanno camminare straordinariamente il navicello, però a mare calmo. Col tempo cattivo sbuffano come tori. Se tentano lottare nelle diverse loro circostanze col tempo cattivo fanno una mano di terzaroli alla maestra e sopra continuano col grande freccia (sic) rimpiazzano il trinchetto, l’uccellina e il polaccone con vele più piccole e nel caso di temporale (a loro dicendo) tolgono il freccia, (sic) il piccolo uccellina e anche il piccolo polaccone e veleggiano col cosiddetto trinchettino (mezzo) e sostituiscono alla maestra con vele di fortuna, dette velette sia latina o trapezoide come randa, ripeto. Però sbuffano come tori”.

Navicelli
Trasporto di marmo dalla cava al porto

Ho tentato di interpretare quest’ultima affermazione del Martinelli: con una prua di forme piuttosto piene, una stiva posta a poppavia e un centro velico avanzato, quando questi velieri navigavano sbandati con mare grosso, dovevano “rompere” pesantemente sulle onde, provocando un suono simile a quello di un toro sbuffante. Anche Marco Bonino ha raccolto una testimonianza simile a Viareggio, dove si diceva che i navicelli sulle onde erano “sgallettati”, ovvero che con mare formato le loro prue tendevano ad alzarsi sull’acqua come un gallo che canta.

Per capire il contesto in cui hanno operato questi velieri bisogna ricordare che il tratto di costa tra la foce del Magra e Viareggio, lungo una quarantina di chilometri, nella prima metà dell’Ottocento non aveva porti degni di questo nome, ma solo un lunghissimo arenile. In mancanza di approdi, i navicelli venivano quindi tirati a secco sulla spiaggia per caricarvi i blocchi di marmo mediante un ingegnoso sistema di imponenti “capre” e paranchi. Venivano poi riportati in acqua trascinati da una “vetta”, composta da quattro carri trainati ognuno da una coppia di buoi.

Navicelli
Il difficile trasporto di un gigantesco blocco di marmo

Sul litorale di Avenza, dopo diversi tentativi – falliti – di costruire un porto, finalmente nel 1853 l’imprenditore inglese William Walton realizzò un pontile caricatore in legno che si spingeva per 300 metri in mare aperto per raggiungere un fondale adeguato e che terminava con una mancina meccanica. Poi, a partire dall’Unità d’Italia, lo sviluppo del mercato interno, non più frammentato in tanti staterelli, favorì anche lo sviluppo dell’estrazione del marmo. Così nel 1874 al pontile Walton si affiancò il “nuovo” pontile Binelli e poi, nel 1880 il “nuovissimo” pontile Pathe. Ogni pontile aveva un doppio binario e disponeva di una gru della portata di parecchie tonnellate. Comunque, fino al 1922, quando fu iniziato il porto di Marina di Avenza (poi Marina di Carrara), il traffico del marmo avveniva in mare aperto, utilizzando pontili caricatori che non offrivano riparo dalla violenza delle onde e che potevano quindi essere utilizzati solo con mare calmo.

Navicelli
Il monolite destinato a diventare l’obelisco del Foro Italico, in Roma

Ancora negli anni Venti del Novecento la flotta dei navicelli impegnati nel trasporto del marmo consisteva in un centinaio di unità di portata tra le 80 e le 160 tonnellate, affiancate da una ventina di brigantini goletta (scune) da 150-200 tonnellate.4
In mancanza di un porto a Marina di Carrara, molti navicelli attraccavano a Bocca di Magra, dove la riva che costituisce la foce del fiume veniva considerata un ancoraggio sicuro. Qualche volta però, in seguito a piogge torrenziali, poteva succedere che il Magra aumentasse di colpo la sua portata, scaricando a valle un’enorme massa d’acqua. è rimasta nella memoria la piena del novembre 1902, quando la furia delle acque del fiume raggiunse una violenza eccezionale.

L’episodio fu devastante nella sua gravità – una quarantina di navicelli ruppero gli ormeggi e furono trascinati in mare aperto per poi esser spinti sulla spiaggia, due si incendiarono e finirono poi contro la scogliera, ventuno si inabissarono senza che si potesse localizzare il punto dell’affondamento – fu per lungo tempo al centro di un dibattito serrato. La tragedia da una parte, la perdita di imbarcazioni dall’altra, costrinse armatori e industriali ad affrontare i problemi aperti con una determinazione mai prima verificatasi”.

Lo scafo robusto e gli ampi volumi sottocoperta hanno permesso ad alcuni navicelli di sopravvivere fino alla fine del ventesimo secolo. L’ultimo esemplare è stato Ernesto Leoni varato a Viareggio nel 1920 e che, trasformato per il charter per le immersioni subacquee, ha trascorso un lungo periodo in Mar Rosso, sulla costa del Sudan; ha poi terminato la sua carriera una quindicina di anni fa sul piazzale di un cantiere di Bodrum (Turchia), dove il suo scafo è stato giudicato non più recuperabile.

Navicelli
Navicello fluviale o becolo

IL NAVICELLO FLUVIALE

La nomenclatura di barche e velieri è un terreno oltremodo scivoloso, nel quale spesso galleggianti diversi hanno gli stessi nomi. Così, in Toscana, il navicello marittimo condivide il suo un nome con un’imbarcazione del tutto diversa: il navicello fluviale, detto anche “bécolo”.

É uno scafo a fondo piatto, lungo da cinque a dodici metri, che in qualche caso veniva armato a tarchia o a vela latina. Presentava poi una prua notevolmente rialzata e dei fianchi rinforzati, utili per la discesa della rapida corrente dell’Arno e, oltre al timone, disponeva anche di due pertiche. Per la risalita del fiume era invece necessario utilizzare dei buoi che trainavano lo scafo lungo l’alzaia.

Il Martinelli lo presenta così:  “è un galleggiante di pochissima immersione, perché navigano essi nei fiumi, fossi, stagni e laghi. Sono in uso in vasto numero a Pisa e tutte le adiacenze fino oltre a Firenze, cioè in Arno. Trafficano con tutte le realtà intermedie e praticano in grande quantità sulla piazza e porto di Livorno portando ogni sorta di merci. Ve ne sono parecchi nel lago di Massaciuccoli, che appartengono a Vecchiano. Molti ancora nel lago di Bientina, Queste alcune volte si azzardano a viaggiare in mare lungo la spiaggia da Livorno Arno e Viareggio però nella circostanza loro favorevole, cioè il bel tempo. Non hanno coperta che eccettuato un piccolo copertino curvo con un piccolo portello a parte per riservare viveri e altro a loro utile. In tempo di pioggia coprono lo spazio interno con incerati a guisa di capanna. Il dormitorio lo improvvisano sotto il copertino, ove è maggior spazio. A poppa sotto al diaccio portano in mezzo un coppo di terra, e quindi per la provvista di acqua.”.

Sull’Arno queste barche trovavano largo impiego anche nel trasporto di sabbia per l’edilizia, che veniva raccolta nel letto del fiume e molte immagini d’epoca li raffigurano accanto al Ponte Vecchio di Firenze.

Cave di marmo di Carrara, oggi

DA MODENA AL TIRRENO: LA VIA VANDELLI

Chi evoca la condizione dell’Italia preunitaria, frammentata in tanti staterelli, ne trova l’esempio più eloquente sulle coste della Versilia, che era suddivisa tra quattro stati: il Regno di Sardegna; il Ducato di Massa e Carrara; il Ducato di Lucca; il Granducato di Toscana. Il Ducato di Massa e Carrara, che comprendeva la spiaggia di Avenza (oggi quartiere di Carrara), dove venivano caricati i “velieri del marmo”, era stato ereditato nel 1829 dalla madre da Francesco IV d’Asburgo-Este, duca di Modena, mentre il Ducato di Lucca (che comprendeva Viareggio) apparteneva a Maria Luisa di Borbone-Spagna.

L’affollarsi di confini lungo la costa della Versilia creava dei problemi anche per quanto riguarda le comunicazioni tra il mare e la Pianura Padana. Nel 1741 il Duca di Modena e Reggio concluse il matrimonio del figlio Ercole con Maria Teresa Cybo-Malaspina, erede del ducato di Massa, raggiungendo così il sospirato obiettivo dell’accesso al mare. I due possedimenti erano però separati tra loro dagli Appennini che in quel tratto, particolarmente aspro, erano attraversati solo da sentieri.

Il Ducato aveva quindi l’esigenza politica, strategica e commerciale di un accesso stradale diretto al Tirreno, all’interno dei propri confini. Così, l’abate ingegnere, geografo e matematico Domenico Vandelli fu incaricato di concepire un nuovo tracciato stradale attraverso l’Appennino e le Alpi Apuane. Il percorso culminava sulle pendici del Monte Tambura, dove raggiungeva la quota di ben 1634 metri. A Vandelli vennero posti dei precisi vincoli costruttivi: oltre a tempi brevi di realizzazione, la nuova arteria doveva permettere il passaggio di carriaggi pesanti, che trasportavano i marmi di estrazione locale. La strada fu portata a termine nel 1751 ma con l’Unità d’Italia, venute meno le sue ragioni politiche, l’opera che era costata tante fatiche venne abbandonata in favore di percorsi più agevoli. Oggi costituisce un apprezzato itinerario escursionistico, a piedi e in bicicletta.

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