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Safety, security, emergency, survival, rescue

“La barca più casa o più auto?”

Siamo nella stagione in cui quasi tutte le barche si risvegliano dal loro letargo invernale.
E con loro dovrebbe risvegliarsi nei loro utilizzatori quell’ampio insieme di conoscenze e competenze che, purtroppo, tende a svanire con l’inattività.

In gioco ci sono la sicurezza, la serenità, la salvaguardia della vita umana. Ne parliamo con Umberto Verna, direttore del centro studi per la sicurezza in mare “I ragazzi del Parsifal” – così chiamato in ricordo dei sei ragazzi periti nel 1995 nel Golfo del Leone, durante una regata d’altura – e fondatore della società Safety World che offre servizi e consulenze per la gestione delle emergenze a bordo delle unità da diporto.

Umberto Verna
Umberto Verna

In molti si apprestano a tornare in mare con le loro barche. Con quali prospettive sul piano dei comportamenti?
Devo dire che, soprattutto negli ultimi anni, ho visto un bel cambiamento in senso positivo. Magari non è esattamente quel che desidererei, però sono abbastanza contento. Segno che l’impegno mio e di chi si occupa di questa materia ha portato buoni frutti.

In che cosa ha notato questo cambiamento?
Innanzi tutto – ed è la cosa più importante – nel comportamento mediamente più responsabile dei professionisti. Poi nel fatto che la teoria secondo la quale gli utenti delle barche a motore sarebbero distanti o addirittura disinteressati a questo argomento ha ormai perso in parte la sua fondatezza. Ammesso che sia stato parzialmente vero in passato.

Merito delle norme, dei controlli, di che cosa?
Io non credo in assoluto all’efficacia dell’obbligo in sé. E pure a proposito delle normative ho una mia teoria, una mia convinzione. L’obbligo è utile se con esso parte un’attività culturale, informativa, capace di superare il concetto di imposizione. L’obbligo funziona se è a tempo determinato; poi deve diventare convincimento. Se le leggi elaborate da chi conosce il diportismo e le cose vengono spiegate correttamente, la gente non le scarta. Una legge deve essere prima rispettabile per essere poi rispettata.

Il progresso tecnologico aiuta a formare una mentalità più responsabile?
Le rispondo con un esempio preso dalla realtà. L’evoluzione tecnologica ha permesso di realizzare cinture di salvataggio autogonfiabili talmente facili da tenere indosso da far crollare quel “muro” di opposizione basato sulla scusa della scomodità. Gli allievi delle migliori scuole di vela, da Caprera in avanti, finalmente li indossano normalmente e si incomincia a notarli nei gavoni delle barche da charter. Il passo successivo, ormai prossimo, sarà quello di vederli indossati da tutti, come normali complementi del vestiario. Com’è stato per il casco in bicicletta.

Umberto Verna
Umberto Verna

Ci sono tuttavia dotazioni di sicurezza che sembrano alquanto refrattarie all’innovazione. Per esempio i fuochi: esistono ormai torce laser più sicure meno difficili da usare.
È vero ma qui bisogna stare attenti. Quando si rientra in un ambito SAR (Search and Rescue, ricerca e soccorso – ndr), all’interno di un servizio che non a caso si chiama Global Maritime Distress and Safety System, i dispositivi e le procedure devono essere strutturati in modo tale da poter svolgere la loro funzione indipendentemente dal fatto che la richiesta di soccorso avvenga in Italia o in Turchia o altrove.

Dunque, a proposito dei fuochi, se si pensa di sostituirne l’uso con i più moderni dispositivi di segnalazione elettrici, sicuramente molto potenti e di lunga durata, bisogna essere coscienti che, non facendo essi parte del sistema globale, qualcuno, vedendoli in funzione, potrebbe pensare all’inaugurazione di una discoteca in mezzo al mare.

Al contrario, praticamente in ogni parte del mondo, chi vede un razzo o un fuoco lo interpreta subito come una richiesta di soccorso. Questo tipo di consapevolezza è estremamente importante.

Pensi anche al numero di emergenza 1530 della nostra Guardia Costiera: è utilissimo, ma se un diportista pensa di poterlo utilizzare in Grecia come alternativa al canale 16 VHF si sbaglia di grosso. Ben venga quindi ogni innovazione, ma conoscendone non solo i vantaggi: a chi compra questi nuovi dispositivi occorre spiegarne anche i limiti. E questo è il lavoro che facciamo in Safety World.

Dunque torniamo sempre al tema dell’informazione della consapevolezza.
Esattamente. Salendo sulle barche noto che la gente investe in sicurezza, tende a comprare apparecchi basati su tecnologie più avanzate anche se non obbligatori: il nostro compito è quello di informarla sui loro pregi e sui loro limiti, inserendo questo importante argomento nel più ampio tema della responsabilità del comandante che, soprattutto quando si parla di prevenzione e di incidenti, induce a pericolosi equivoci.

manuale primo soccorso
Manuale Pan Pan medico a bordo

Quali?
Per esempio, quello in base al quale responsabilità e colpevolezza vengono trattate come se fossero la stessa cosa. Me ne accorgo tutte le volte che partecipo a una conferenza o a un convegno, persino tra professionisti. Lo leggo pure sui giornali, purtroppo. Vedi il caso del ponte Morandi, dove tanti suoi colleghi giornalisti hanno subito parlato di colpe con un’imbarazzante leggerezza. Tra essere il responsabile – di un cantiere, di una barca eccetera – e l’essere il colpevole per un incidente avvenuto in quel cantiere o su quella barca deve passare almeno un processo! Ecco perché, tutte le volte che posso, mi sforzo di far fare chiarezza.

Fretta o superficialità?
In Italia i processi prevedono addirittura tre gradi di giudizio, proprio a garanzia di tutti. Se noi riuscissimo – e io ci sto provando in tutti i modi, con i miei corsi, con la mia società – a far capire quanto questo sia importante, cioè quanto l’essere il responsabile a bordo non significhi necessariamente essere il colpevole, il classico scaricabarile che fa seguito a qualsiasi evento drammatico diminuirebbe. In altre parole, se io accetto le mie responsabilità e la gente non mi giudica subito “colpevole”, insomma se mi dà il tempo di spiegare, possiamo fare una seria “analisi post incidentale” e arrivare assai meglio alla verità dei fatti e a comprenderne le dinamiche per trarne insegnamento: imparare dagli incidenti.

Dunque, il vostro centro studi svolge l’analisi post-incidentale secondo il metodo del processo?
No, i processi li lasciamo fare ai giudici e a chi ha il dovere di farli. Noi adottiamo le tecniche più diffuse di “analisi post-incidentale” adattandole al diportismo e mirate non a giudicare bensì ad acquisire informazioni reali che permettano di imparare un mucchio di cose e di incidere positivamente sui comportamenti.

Insomma, la solita questione culturale.
Per forza. L’italiano è stato educato ad essere costretto a fare certe cose, perciò, se si accorge di non essere controllato, tende a non farle quasi per spirito di contraddizione. Una cosa che dico spesso: per un anglosassone, il condizionale should significa “se non lo fai mi spiegherai perché; ne dovrai rendere conto”; per molti altri quello stesso condizionale significa “ah, allora non è obbligatorio, posso non farlo”.

è anche per questo che molti stranieri pensano che in Italia si possa fare di tutto, approfittandone?
Sono contrario alle generalizzazioni, perciò sono più incline a pensare che se uno straniero viene in Italia e si mette al timone ubriaco è probabile che lo faccia pure a casa sua. D’altra parte molti italiani, quando navigano o viaggiano all’estero, mi sembrano più attenti alle regole.

Cerchiamo ora di andare sul pratico, possibilmente offrendo qualche buon consiglio. Come possiamo elevare il nostro livello di sicurezza a bordo?
Anche qui, prima di rispondere, sono costretto a fare una premessa. Prima ho parlato di responsabilità e colpevolezza come di due cose completamente diverse. Ebbene, pure la sicurezza e l’emergenza sono due cose diverse. In Italia, la parola ‘sicurezza’ viene utilizzata per dire tutto e, perciò, finisce per non dire niente. È così nella nautica ma è così anche nella vita di tutti i giorni. Per esempio, quando per sicurezza si intendono le telecamere nelle strade, si parla in realtà di security, non di safety. In Italia gli estintori sono considerati dotazioni di sicurezza, ma è sbagliato: sono dotazioni di emergenza. Tra safety ed emergency c’è un abisso. Nei miei corsi insisto tanto su questa linea, che per alcuni è troppo sottile, ma è un esercizio fondamentale per fare in modo che il cervello si sintonizzi nella maniera corretta e coerente di fronte ad ogni tipo di situazione.

Le farò quindi domande più mirate usando l’inglese che, paradossalmente, appare più chiaro anche per un italiano. Cosa fare per migliorare la safety?
Essendo dedicata esclusivamente alla prevenzione, la safety non ha bisogno di equipaggiamenti, bensì di atteggiamenti. Quindi inviterei gli opinion leader, i professionisti, quelli che all’interno di ambienti e associazioni sono ritenuti più bravi a dare il buon esempio. Istruttori e allenatori in primis.

E per l’emergency?
In questo caso l’equipaggiamento e il suo utilizzo contano molto. Il mio slogan è “nessun equipaggiamento ti salva la vita se non lo sai usare”, perciò, per esempio, inviterei a considerare il fatto che tutti, a bordo, dovrebbero prendere dimestichezza con il Vhf. Tutti dovrebbero insegnare a chi fa parte dell’equipaggio ad usarlo a modo, proprio come si fa con la toilette.

A proposito di questo, non trova che a bordo di barche persino di gran nome ci siano troppi dispositivi che, in realtà, sono fatti per funzionare a terra?
Assolutamente sì, sono d’accordo: stufette, interruttori, salvavita eccetera sono causa dell’aumento che riscontriamo di incendio a bordo in porto. Non è che non ne esistano di fatti apposta per l’ambiente marino, tuttavia, per evidenti motivi di sottovalutazione o di risparmio, a bordo si vedono molto raramente. Ma non c’è poi molto da meravigliarsi: qualche tempo fa sono stato invitato a un convegno intitolato “La barca: più casa o più auto?”. Il mio intervento si è concluso con: “più barca!”

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