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Le grandi migrazioni marine: Il moto perpetuo

Nutrirsi e riprodursi. Le esigenze più macroscopiche e primordiali della natura sono alla base delle grandi migrazioni marine. Un fenomeno che, nonostante le più moderne tecnologie applicate alla ricerca, mantiene aspetti ancora non del tutto chiariti.

Quanto può essere meravigliosa la natura, le cui soluzioni di sopravvivenza per milioni di specie animali e vegetali sfiorano spesso l’incredibile? Provate però a chiedere cosa ne pensa un’anguilla che, per poter dare continuità alla propria specie, deve sciropparsi oltre 3.000 miglia di oceano o giù di lì: un viaggio infernale e ricco di incognite, guidata dal più misterioso degli istinti, finché, raggiunta la meta e deposte le uova, può finalmente passare nelle praterie celesti…perché così vuole la natura! La storia sarà anche romantica, ma non è una bella storia, e non si capisce perché la natura, che pure ha concesso a tanti pesci di vivere e riprodursi in pace e tranquillità nella propria baietta natia, abbia voluto accanirsi su alcune specie costringendole a disperanti fatiche solo per poi passare a miglior vita.

E se anguille, salmoni e tonni sono le specie più note e più emblematiche del fenomeno migratorio, non sono tuttavia le uniche. Anche le tartarughe, ad esempio, migrano, ed è stata monitorata fra le altre la migrazione delle femmine delle tartarughe franche delle coste brasiliane (Chelonia midas), che, giunto il momento, lasciano il mare di casa per raggiungere dopo 1.400 miglia un’isoletta persa in mezzo all’Atlantico, Ascension, sulla cui spiaggetta depositeranno le uova della loro progenie. Niente, se vogliamo, in confronto alle migrazioni di quelle tartarughe comuni anche in Mediterraneo (Caretta caretta), che nel Pacifico sfruttando le correnti oceaniche intraprendono un viaggio di ben 14.500 km per passare dalle coste giapponesi a quelle della Bassa California: un viaggio che può durare anche più di dieci anni.

Qui sopra una “manciata” di cieche, stadio post larvale dell’anguilla. Le migrazioni sono uno dei fenomeni più legati alla natura delle varie specie, ma se sulla terraferma sono state nei millenni alterate dall’antropizzazione, in mare mantengono ancor oggi le proprie leggi.

Per non parlare di lampughe e marlin, aringhe e merluzzi, squali e sardine , ma anche mammiferi marini come foche e balene, e via dicendo. Come dire che le migrazioni sono parte integrante dell’ecosistema marino.

Però alla fine la domanda resta: perché alcune specie dipendono per la loro sopravvivenza dalle migrazioni e altre no? La risposta, come diceva il vecchio Dylan, è – e per il momento resterà – nel vento, o meglio nel nostro caso nel mare. Vale infatti la pena di ricordare che, seppur molte geniali intuizioni ci riportano fino alla Grecia classica (Aristotele aveva giù intuito le migrazioni dei tonni), una vera e propria indagine scientifica sulla vita sottomarina è iniziata solo nella seconda metà del Novecento.

E per quello che ne sappiamo, ancor oggi le migrazioni sono conseguenziali alle esigenze fisiologiche delle singole specie, per lo più governate da fattori ambientali (temperatura dell’acqua, durata del giorno, disponibilità di cibo) o da fattori interni come i cambiamenti ormonali, ma sullo stesso palcoscenico ogni specie ha poi adattato il copione alle proprie esigenze. Le migrazioni genetiche legate alla riproduzione sono le più comuni e le più eclatanti, come quelle transoceaniche e già citate di anguille, salmoni, tonni, senza dimenticare le balene; né meno impegnative sono quelle delle tartarughe.

Ma ci sono anche migrazioni meno spettacolari, come quelle verticali delle aragoste caraibiche, che all’inizio dell’estate si mettono in fila indiana per poi scendere in profondità alla ricerca di acque più tranquille, o quelle batimetriche dello zooplancton, che risalgono dagli abissi più oscuri in masse di miliardi di minuscoli organismi, incluse le larve di pesci e crostacei: una migrazione giornaliera (upwelling) invisibile all’occhio umano, ma che in realtà è la più imponente in termini di biomassa.

Il fenomeno delle migrazioni, a breve o a lungo raggio, investe come abbiamo visto una quantità di specie, ma non volendo e non potendo fare un discorso troppo generico, abbiamo pensato di puntare l’obiettivo su quelle tre specie che, per la spettacolarità delle loro migrazioni, oltre che per interesse biologico e commerciale, le sovrastano tutte.

L’anguilla europea è ormai inserita nella Lista Rossa degli animali considerati in pericolo critico. Allevata fin dal tempo dell’antico Egitto, è ancor oggi un pesce molto popolare anche in Italia, soprattutto nel delta del Po e nelle celebri Valli di Comacchio, dove viene ancor oggi allevata secondo gli antichi metodi.

L’incredibile anguilla

Due delle migrazioni più spettacolari, come detto, sono quelle di due specie, anguille e salmoni, che poco hanno in comune, almeno morfologicamente, ma che condividono la triste fine del loro straordinario percorso oceanico: anche la femmina del salmone, infatti, dopo aver depositato le uova nel suo fiume nativo…muore.

L’anguilla europea (Anguilla anguilla), anche se ormai minacciata di estinzione ed inserita nella lista rossa dello IUCN (International Union for Conservation of Nature) è pesce di casa nostra che conosciamo bene, al contrario del salmone, ben noto solo grazie ai banchi delle pescherie dato che in Mediterraneo non se ne è mai vista traccia. Ma delle nostre anguille sappiamo poi tutto? Quanti sanno ad esempio che il “capitone” è in realtà solo la femmina dell’anguilla, apprezzatissima sulle nostre tavole natalizie, che arriva a dimensioni oltre dieci volte maggiori di quelle dei maschi? Al di là degli aspetti gastronomici, ciò che più affascina di questo pesce è però il suo incredibile ciclo riproduttivo, che merita un approfondimento.

“L’anguilla non è né maschio né femmina, nasce dal fango e non può generare nulla”. Nonostante molte geniali intuizioni, Aristotele non capì molto di questo che, nonostante l’aspetto serpentiforme, è un pesce come tanti altri, ma solo perché pur sezionandolo non aveva trovato alcun organo sessuale. La scienza moderna, del resto, ha risolto il problema solo nel 1777, quando Carlo Mondini, un capace ittiologo italiano, analizzando una grossa anguilla femmina scoprì delle ghiandole sessuali completamente sviluppate. Per la cronaca, la prima anguilla maschio fu invece scoperta solo nel 1824.

Valli di Comacchio

La scienza definisce oggi l’anguilla una specie catadroma eurialina, ovvero un pesce che dopo aver trascorso la maggior parte della sua vita in acqua dolce, con la maturazione delle gonadi e l’inizio del suo ciclo riproduttivo, scende verso il mare per uno straordinario viaggio che durerà in media sei mesi. Viaggio che in genere inizia verso l’autunno, quando maschi e femmine si uniscono alla foce dei fiumi e si mettono in moto per raggiungere una meta lontana qualche migliaio di miglia, il Mar dei Sargassi, viaggio durante il quale subiranno diverse mutazioni morfologiche: cesseranno infatti di nutrirsi, cambieranno il colore della loro pelle, il cui ventre passerà dal dorato all’argenteo, e gli occhi diventeranno più grandi per adattarsi alle profondità oceaniche.

Quale strano impulso della natura porti questi pesci a scegliere una meta tanto lontana e anomala per riprodursi resterà sempre un mistero, come misteriosa resta la loro capacità di orientarsi nell’immensità oceanica. A questo proposito può essere interessante notare che uno studio condotto da un’equipe canadese, taggando con un ricevitore satellitare 38 femmine di anguille alla foce del San Lorenzo, ha permesso di tracciare il percorso dell’unica anguilla arrivata poi a destinazione nel Mar dei Sargassi, rilevando un percorso di circa 2400 km con una media di 49 km al giorno, e passando dai gelidi 2,5° della Nuova Scozia ai più che confortevoli 25° del mar caraibico senza particolari problemi.

L’esempio canadese, vale la pena notarlo, è stato imitato dai ricercatori italiani, che nel delta del Po hanno recentemente liberato 50 anguille al largo di Marina di Ravenna, dopo averle taggate con un GPS: destinazione Mar dei Sargassi. Mare che in fondo potrebbe avere qualche attrattiva per le anguille, essendo in pratica una gigantesca isola formata da alghe superficiali, per l’appunto i sargassi, che impediscono il rimescolamento delle acque sviluppando due diversi gradi di temperatura e densità.

E se è vero che il Mar dei Sargassi ha sviluppato un suo particolare ecosistema, è altrettanto vero che le sue peculiari caratteristiche non attirano i grandi predatori oceanici, creando (oggi, ahimè, plastica a parte) una zona di grande tranquillità, ideale per la deposizione delle uova, che avviene ad una profondità di circa 450 metri dove la temperatura si aggira sugli 11°. E qui comincia la seconda parte della storia.

Un’anguilla femmina, che può arrivare a misurare anche un metro e mezzo di lunghezza, è in grado di deporre circa cinque milioni di uova, ma quante di queste arriveranno a formare un esemplare adulto? Ben poche. La storia prevede infatti che, mentre la madre passerà a miglior vita, dalle uova nascerà una piccola e assai indifesa larva nastriforme, detta leptocefalo, che presa la via delle correnti oceaniche inizierà a ritroso il viaggio verso le coste europee, dove avverrà un altro dei misteri legato a questa specie. La larva, infatti, nel corso del viaggio che potrà durare fino a tre anni, si sarà intanto trasformata in un serpentello trasparente chiamato ceca e, a quel punto, sarà in grado di ritrovare il proprio fiume d’origine e risalire fino alle sue acque natìe dove rimarrà per un periodo variabile dai 5 ai 15 anni, prima di far ripartire l’intero ciclo.

Grande frequentatore dei mari nordici, il salmone è uno dei più incredibili pesci migratori. Ma è anche un pesce di grande rilevanza commerciale, allevato in maniera intensiva in grandi gabbie dove non sempre vengono rispettate la salute dei pesci e quella dell’ambiente.

Il salmone, un GPS naturale

Oltre che in scatola, affumicato, e sui banchi delle pescherie, il salmone è presente anche in natura, purtroppo non nei nostri mari preferendo quelli freddi del nord Atlantico, ma anche lui è protagonista di una straordinaria migrazione.

Al contrario dell’anguilla, nasce in acqua dolce ma dopo qualche anno scende verso il mare dove passa i migliori anni della sua vita girovagando fra Baltico e Groenlandia, ovvero fino a quando, raggiunta la maturità sessuale e cedendo al più naturale degli impulsi, intraprende la migrazione di ritorno dove, raggiunta non si sa come la foce del fiume natìo, nulla sembra fermarlo… salvo qualche volta gli orsi che ne sono ghiotti e che, come visto in mille documentari, riescono a catturarli con incredibile abilità. A dire il vero c’è un altro problema che ostacola la risalita dei salmoni, ed è l’uomo.

Allevamento salmoni

Non tanto in veste di predatore, quanto in quella di costruttore di dighe e sbarramenti lungo fiumi e laghi che, pur con tutta la buona volontà, il salmone non riesce a superare, e anche se si sta cercando di trovare soluzioni, al momento nei Paesi più antropizzati la situazione non è rosea.

Sia quel che sia, i salmoni sopravvissuti riescono, in un modo o nell’altro e con la precisione di un GPS, a raggiungere il luogo esatto dove solo qualche anno prima avevano visto la luce, e qui le femmine rilasciano milioni di uova che una volta fecondate dal maschio e ricoperte di sedimento daranno inizio a un nuovo ciclo. Tutto questo, in realtà, ha ben poco a che fare con il salmone che portiamo sulle nostre tavole, proveniente al 90{2e3577d2bd6aebaa150c85c33fcd353783f1aa6c690283591e00ef60b3336fc8} dalla maricoltura diffusissima nei Paesi nordici.

Divenuti ormai piatti internazionali e diffusissimi anche in Italia, sushi e sashimi hanno fortemente inciso sulla richiesta di salmone fresco.

Su ciò che accade negli allevamenti, dove centinaia di migliaia di pesci vivono stipati all’interno di grandi gabbie e in condizioni tutt’altro che salutari, sono stati girati e resi pubblici diversi documentari, ma alla resa dei conti gli allevamenti ittici influiscono indirettamente anche sugli esemplari liberi, e quindi sulle migrazioni.

Nelle grandi gabbie circolari, poste a breve distanza dalla costa, i salmoni vengono infatti cresciuti a base di mangimi che poco hanno a che fare con quello che troverebbero in natura, oltretutto in spazi in cui le migliaia e migliaia di pesci presenti in ogni gabbia inquinano non poco l’acqua e l’ambiente circostante. Il risultato è che spesso questi pesci sono vittime di parassiti e agenti patogeni, con il pericolo più che reale che esemplari fuoriusciti dalle gabbie, come spesso accade, possano unirsi ai salmoni selvatici contaminandoli.

Un banco di tonni rossi, pesce dalle straordinarie caratteristiche e protagonista di grandi migrazioni.

Il tonno rosso, il signore dei sette mari

L’altro grande campione delle migrazioni marine è il tonno rosso, pesce che per il suo alto valore commerciale comanda il vertice della classifica ed è, di conseguenza, studiatissimo. Grande, a volte gigantesco, veloce, potente: fino a quattro metri di lunghezza per 6-700 kg di muscoli, un’esistenza senza sosta in viaggio fra mari e oceani, tropici e acque gelide, superficie e abissi. Ben più che anguille e salmoni, il tonno è stato progettato da Madre Natura per scorrere i sette mari in lungo e in largo.

Il tonno rosso è il pesce più sfruttato commercialmente, tanto da aver costretto gli organismi internazionali (ICCAT) a regolamentarne severamente la pesca. Sui mercati giapponesi raggiunge quotazioni stratosferiche, con un record stabilito nel 2019 quando Kiyoshi Kimura, CEO di una catena di famosi ristoranti, pagò tre milioni di dollari per un tonno di 278 kg.

È infatti un pesce che per la sua idrodinamicità sembra disegnato nella galleria del vento: il corpo, simile a una pallottola, ha un profilo fusiforme in grado, grazie anche alla distribuzione di pinne e peduncoli vari, di minimizzare gli attriti dei filetti fluidi con tutta l’invidia dei migliori architetti navali. Le pinne sono piccole ma robuste, appendici più di stabilizzazione che di spinta, e per giunta nel nuoto di velocità si ripiegano lungo i fianchi delegando totalmente alla parte posteriore del corpo e alla grande pinna caudale tutta la potenza propulsiva.

Le stesse squame, piccole e quasi impercettibili al tatto, offrono una superficie di scorrimento idrodinamico ottimale. Il vero capolavoro nella fisiologia del tonno è però invisibile, ed è quella fitta rete di capillari chiamata “rete mirabilis”, ovvero un sistema circolatorio in grado di innalzare la temperatura corporea del tonno di oltre tre gradi rispetto a quella dell’acqua circostante.

Ne consegue una grande adattabilità alle variazioni termiche e una capacità di ossigenazione del sangue che si trasforma in potenziale carburante energetico nel momento dello sforzo. Con queste caratteristiche da granturismo di lusso il tonno è in grado di inabissarsi fino a mille e passa metri di profondità, compiere con noncuranza migrazioni oceaniche a velocità costante di 10-15 nodi, e in pratica non dovrebbe avere nemici in mare, anche perché la sua crescita è molto rapida e, raggiunta una taglia rassicurante, è in grado di sfuggire a tutti i predatori. Anzi no, tutti meno uno: l’uomo.

Al centro di un giro d’affari miliardario e in gran parte illegale, il tonno rosso è stato decimato negli ultimi decenni soprattutto per soddisfare l’appetito orientale, ma oggi anche molto europeo, di sushi e sashimi. Una strage indiscriminata che ha portato la specie sull’orlo del collasso, e che solo in questi ultimi anni, con severe misure protezionistiche e una cresciuta coscienza ecologica, ne ha consentito la ripresa parziale. Parziale nel senso che i tonni sono tornati ad essere presenti nei nostri mari, ma con una taglia fortemente ridotta dall’overfishing, tanto che oggi esemplari sopra i 130-150kg sono già catture occasionali, mentre i giganti da 250-300 kg un tempo frequenti sono diventati una rarità.

In grado di esibire spunti velocistici da 80 km/h, ma anche di mantenere velocità sostenute per lunghi periodi, percorrendo fino a 40 miglia al giorno, il tonno è da una parte un predatore di primo livello e dall’altra un migratore instancabile in grado di passare da un oceano all’altro seguendo ciò che suggerisce la sua natura.

E quando la natura chiama a raccolta per la stagione riproduttiva, i tonni si riuniscono in grandi banchi e, seguendo quello che sembra quasi la percorrenza di un antico tratturo che si ripete uguale da millenni, convergono nelle loro aree riproduttive che si trovano sostanzialmente nel nostro Mediterraneo. Entrati da Gibilterra, i grandi banchi seguono la corrente che percorre in senso antiorario l’intero perimetro del Mediterraneo. Una metodicità che nei secoli, se non nei millenni, ha dato vita anche lungo le nostre coste a una pesca di sbarramento, le ben note tonnare, che nonostante l’apparenza un po’ cruenta sono un metodo di pesca che non ha mai intaccato lo stock del tonno rosso.

Potenza, resistenza, velocità consentono ai grandi banchi di tonni migrazioni fra le più importanti del mondo animale, e se è vero che a livello mondiale esistono due principali popolazioni di tonno rosso, una in Mediterraneo e una nel Golfo del Messico, e dato che la principale area di riproduzione è quella mediterranea su cui convergono in stagione anche i tonni messicani, sorge spontanea la domanda: perché il Mediterraneo?

Prima di ipotizzare una risposta potremmo però chiederci qual è la potenzialità di spostamento di un tonno, a cui si potrebbe rispondere riportando i dati di due tag satellitari con cui furono marcati quasi in contemporanea negli anni scorsi due tonni allamati nel Mare del Nord: dopo pochi mesi e un percorso di 5.000 km, un intero oceano li separava, uno si trovava infatti in Portogallo, l’altro a Cuba.

La migrazione delle aragoste caraibiche, che ogni estate si incamminano in fila indiana per raggiungere acque più profonde, è una delle più curiose.

Sul perché il tonno rosso abbia scelto il Mediterraneo come area d’elezione per il proprio processo riproduttivo, si può ipotizzare come la biodiversità del nostro bacino, oltre a confortevoli caratteristiche termiche, offra una gamma di cibo in grado di soddisfare sia i grandi riproduttori sia le piccole larve e le forme giovanili. Allo stesso tempo mancano i grandi predatori, soprattutto quelli in grado di insidiare un pesce che, come già detto, superato il primo stadio giovanile, è in grado di sfuggire ad ogni pericolo.

Ma cosa accade una volta esaurita la fase riproduttiva? Il tonno rosso è un instancabile corridore del mare, un pesce in continuo movimento, e una volta compiuto il suo dovere biologico riparte per nuove strade. Oggi sappiamo per certo che solo una parte dello stock fa migrazioni dall’Atlantico al Mediterraneo e viceversa, che alcuni entrano per riprodursi e poi ritornano in Atlantico a nutrirsi, mentre altri entrano e poi si fermano per un anno o più, e altri ancora restano stanziali o quasi in Mediterraneo. Come a dire che per il tonno il mare non ha confini e le distanze sono sempre relative quando si dispone di certe potenzialità. Valgano in merito altri due esempi: un tonno marcato in Turchia ha raggiunto le isole Faroe dopo soli 82 giorni, mentre due tonni di appena un anno di età si sono spostati dal Golfo di Biscaglia (Spagna) alle acque di fronte a New York in appena due mesi.

Il mondo delle migrazioni è molto vario e vede protagonisti rettili come le tartarughe, crostacei come le aragoste e perfino mammiferi marini come le balene, senza dimenticare il plancton con le sue quotidiane migrazioni verticali.

Un mistero irrisolto

Per quanto le moderne tecnologie a base di tag satellitari abbiano consentito di scoprire molte cose sulle migrazioni marine, nessuno è stato ancora in grado di capire quale meraviglia magnetica o chimica possa guidare i pesci lungo percorsi di migliaia di miglia. Le tag satellitari, lo ricordiamo per i meno addetti ai lavori, sono piccole meraviglie di tecnologia dal costo di diverse migliaia di dollari, che vengono inserite in maniera del tutto indolore nel corpo del pesce prima di rilasciarlo. La tag è temporizzata, seguirà il pesce in ogni suo spostamento registrando una quantità di dati sulle caratteristiche ambientali e direzionali e, alla data prevista (in genere dopo qualche mese), si sgancerà risalendo in superficie, da dove trasmetterà i suoi dati agli istituti scientifici attraverso la piattaforma satellitare Argos.

Pur essendo studiata anche attraverso tag satellitari, la migrazione delle balene conserva ancora aspetti poco conosciuti.

Il sistema ha consentito grandi progressi nella conoscenza delle migrazioni ma, come detto, quale fisiologica tecnologia guidi i pesci verso la loro meta resta un mistero. L’ipotesi più diffusa è tuttavia quella di un’ipersensibilità che consenta loro di seguire tracce chimiche o magnetiche impercettibili per qualunque strumentazione, tracce ben inserite nel loro DNA o memorizzate nel corso del viaggio di andata. Non è tuttavia escluso che anche la posizione delle varie fasi lunari possa avere un significato. Per cui il mistero tale resta e, in fondo, che Madre Natura abbia ancora mantenuto qualche segreto non ci dispiace affatto.

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