Un viaggio tra archeologia e storia: l’evoluzione della pesca
Praticata fin dal paleolitico, la pesca fu dapprima figlia della fame, poi fonte di commercio, quindi passione e divertimento. Dunque, una storia ben più antica e articolata di quanto normalmente si creda.
In principio furono le mele, che erano però rare e carissime, tanto che ad Adamo ed Eva, impossibilitati a pagare, costarono la cacciata dal Paradiso. Dopo aver rinunciato alle mele, visti anche i risultati, l’uomo si è poi dedicato a frutti e bacche, tuberi e radici, funghi e insetti, o uova rubacchiate da qualche nido.

Per passare alla sua carriera di cacciatore – il passo successivo – occorrevano però armi adatte, come constatarono i nostri antenati quando provarono ad abbattere a randellate un mammuth, cosa che però riuscì dopo aver imparato a lavorare i metalli e a costruirsi armi più efficaci. A quel punto cacciare piccoli e grandi esemplari di selvaggina era diventato più facile e l’uomo poteva indubbiamente essere considerato un cacciatore.
Ma un giorno si affacciò a quell’immenso ignoto liquido, poi chiamato mare: un limite invalicabile e anche un po’ inquietante, ma ricco di promesse.
E doveva essere un mare di incredibile ricchezza, con i pesci che saltavano da tutte le parti e che non sapeva come prendere. Così cominciò prima a raccattare i molluschi che trovava nella fascia di risacca e, quando qualche pesce restava imprigionato nelle pozze di marea, una bella mazzata e il gioco era fatto. Ma come farne una fonte più costante di cibo?
All’inizio il gioco fu risolto con le armi già inventate per la caccia: archi e frecce, lance e fiocine. Poi, finalmente, l’intelligenza che già da allora ci distingueva dal resto del mondo animale partorì un’invenzione straordinaria: una lenza e un amo. Sorprende pensare che, se fra una lancia primitiva e un moderno fucile da caccia grossa c’è un abisso tecnologico, fra ami e lenze di allora e quelli di oggi il principio è rimasto sostanzialmente lo stesso.
Ma si fa presto a dire una lenza e un amo. Come costruirli? Per le lenze siamo agli antenati degli antenati degli antenati dei moderni trecciati oggi utilizzati nella pesca sportiva, frutto di alta tecnologia, perché le prime lenze furono realizzate intrecciando fibre vegetali di varia natura e peli di animali. Per gli ami la storia fu un po’ diversa. Il problema infatti non era tanto quello di far abboccare un pesce, che in quelle epoche remote immaginiamo attaccasse qualunque cosa gli fosse messa davanti, quanto il riuscire a trattenerlo e portarlo fino a riva. Quanti splendidi pesci si saranno liberati proprio a due passi da terra?
Era quindi necessario creare un qualcosa che impedisse all’amo di sfilarsi, ciò che in seguito sarebbe stato chiamato “ardiglione”. Le prime soluzioni furono veramente…primitive. Vennero utilizzati rametti dotati di grosse spine, le lische di qualche grande pesce, poi un legnetto appuntito ai due estremi, con la lenza collegata al centro e via dicendo, finché si arrivò ai primi veri tentativi d’amo realizzati dapprima con ossi d’animali lavorati in forme simili a quelle attuali (in Palestina sono stati ritrovati ami d’osso risalenti a 9000 anni fa) e poi veri e propri ami di ferro, rame e bronzo.
Riavvolgendo il nastro non si può tuttavia non immaginare che, un giorno, l’uomo abbia deciso di sfidare quell’ambiente tanto ostile quanto affascinante e si sia avventurato nelle acque marine con la più primitiva delle possibili imbarcazioni: un tronco d’albero. Che poi abbia unito l’utile al dilettevole, portandosi dietro le sue rudimentali lenze è più che plausibile: ed ecco il primo fisherman della storia!

Dalle pagode alle piramidi
Lasciandoci alle spalle l’uomo primitivo e affacciandoci alle prime testimonianze storiche, vediamo che ai Cinesi, che oggi stanno conquistando le roccaforti più sacre della nostra epoca, oltre agli spaghetti, alla bussola e alla polvere da sparo, dobbiamo anche la nascita della pesca ricreativa. Incisioni che risalgono al 1500 a.C. mostrano che già in quell’epoca venivano ampiamente utilizzati vari modelli di rete e che gli ami in bronzo o in ferro erano già dotati di ardiglione.
Certo all’epoca non era facile distinguere fra la pesca puramente ricreativa e una pesca finalizzata al proprio sostentamento, ma lo stesso Confucio, che era un appassionato pescatore, potrebbe essere un buon esempio e precursore di quell’etica oggi sempre più diffusa, dato che rifiutava di pescare con la rete per non catturare più pesce di quello che sarebbe stato necessario per la sua sussistenza.

E, tanto per legarci all’attualità e alla moderna tecnica del catch&release, il rilascio della preda tipico della più rispettosa pesca ricreativa (“un pesce è troppo bello per essere pescato una sola volta”, dicono gli americani) era già comune fra gli imperatori cinesi. Nei loro stagni privati e ben popolati di carpe koi, passavano infatti intere giornate impugnando le loro canne di bambù e ogni pesce pescato veniva poi rilasciato, avendo già donato al pescatore – dicevano – felicità e soddisfazione.
In termini più strettamente tecnici, che dire poi dell’imperatore Han Wu-dè che, nel suo tempo libero, amava pescare usando una canna armata con una lenza di seta e un amo d’oro.
Da notare che all’epoca le canne erano realizzate con sottili spezzoni di bambù, un arbusto fibroso e imputrescibile: lo stesso che fino a qualche decina di anni fa veniva esportato in occidente per lo stesso motivo. Che poi i Cinesi avessero escogitato altri insoliti sistemi di pesca, utilizzando come “attrezzi” cormorani e lontre addomesticate (tecniche ancor oggi praticate), è tutta un’altra storia, così come dobbiamo loro i primi esempi di acquacoltura e le prime leggi di fermo biologico. In quei tempi, infatti, era proibito pescare nei periodi di riproduzione delle varie specie e le punizioni per chi infrangeva le regole erano assai severe.
Per rispetto della storia, va però detto che, in periodi più o meno concomitanti, anche in Egitto si pescava alla grande sia per alimentare il commercio – dato che il pesce era il maggior nutrimento della popolazione – sia per puro divertimento.

Già si conoscevano gli ami in bronzo, privi di ardiglione ma dotati di occhiello, mentre lenze intrecciate di fibre vegetali dovevano comunque essere di notevole resistenza dato che le enormi vertebre di pesci rinvenute negli scavi testimoniano di esemplari che potevano anche superare i due metri di lunghezza. E attraverso le testimonianze di dipinti tombali del 3000 a.C. possiamo notare come le reti da pesca fossero sistemi di prelievo già comuni lungo il Nilo.
Certo, pescare in un fiume era assai più facile che pescare in mare, soprattutto considerando la qualità delle imbarcazioni dell’epoca, e per giunta, a quel tempo, c’era chi sul Nilo poteva prendersela comoda.
Ad esempio i faraoni e gli alti dignitari di corte che, come mostrano antichi dipinti, se ne andavano a pesca lungo il fiume comodamente seduti in poltrona (non proprio una sedia da combattimento), canna in mano e schiavi adibiti a sbandierare ventagli di piume di struzzo per alleviare la calura, mentre altri schiavi erano addetti a recuperare le prede appena pescate.

Dai Greci ai Romani
Il fatto che Platone considerasse la pesca un’occupazione indegna di un uomo civile, perché richiedeva più scaltrezza e inganno che non coraggio e forza, non impedì ai Greci di appassionarsi ai vari metodi di pesca: dalle nasse alle reti, dalla fiocina alla canna. Anzi, in quest’ultimo settore, i Greci non mancarono di portare innovazioni, come il cosiddetto “corno di bue”, che altro non era che un tubetto di una sostanza cornea posto sul terminale della lenza poco sopra l’amo per proteggere il filo dalle dentature di certi pesci.
Premesso che all’epoca i pesci non dovevano andare troppo per il sottile, il corno di bue non era altro che un antesignano dei terminali di acciaio oggi usati per proteggere la lenza dalla presa di certi pesci come serra e barracuda. Al di là delle citazioni omeriche, Oppiano, poeta greco che scrisse un’opera sulla pesca (Halieutica) dedicandola all’imperatore Marco Aurelio, offre altri interessanti dettagli sulle attrezzature dell’epoca.
Le canne più utilizzate erano ricavate da fusti di bambù o di legni particolarmente flessibili ed erano inevitabilmente delle monopezzo prive di rastrematura, per le lenze si usavano il crine di cavallo o le fibre della ginestra finemente intrecciate, mentre gli ami erano in bronzo o in ferro ed erano dotati di ardiglione.

Non mancavano piombi, galleggianti ed esche fantasiose: dai pezzi di polpo fritto ai formaggi fermentati, da semi vari a pezzetti di cipolla e, per i pesci di maggior mole, altri pesci come cefali e menole, che però non si sa se venissero innescati vivi. Non male anche le pasture, spesso aromatizzate con vino profumato; decisamente più inusuale il metodo consigliato per attirare i saraghi: pare infatti che bastasse portare in acqua una capra, meglio ancora un capro, il cui odore sembra fosse irresistibile per i saraghi. Provare per credere.
Ai Greci spetta però anche il merito di aver inventato la prima esca artificiale, che usavano nei fiumi, imitando con piume di gallo una mosca molto appetita nei corsi d’acqua della Macedonia, mentre, pur non essendone accertata la paternità, in mare già utilizzavano stuoie di canna galleggianti sotto la cui ombra si rifugiavano i pesci: in pratica niente di diverso dai nostri attuali cannizzi siculi e precursori delle moderne FAD (Fishing Aggregating Device). Da notare che in quei tempi tonni e pesci spada erano ben conosciuti e pescati, mentre in mare girava fra altri mammiferi acquatici anche un cospicuo numero di foche, già allora perseguitate per i danni che arrecavano alle reti.

Pesci imperiali
In un mare che non aveva certo problemi di overfishing, il tonno polarizzava l’interesse dei pescatori ed è sorprendente come già se ne conoscessero le rotte migratorie. I Fenici, ad esempio, furono tra i primi a sfruttare la situazione e a sviluppare un sistema di reti di sbarramento in cui incanalare e poi catturare i tonni, primo embrione di quelle tonnare che furono poi sviluppate dagli arabi prima di diventare una fiorente industria nel nostro Paese.
Furono poi i Romani, con tutta la potenza e l’estensione del loro impero, a dare alla pesca un ruolo di primo piano. A testimoniarlo non sono solo le numerose e dettagliate scene che appaiono in centinaia di mosaici, ma anche le testimonianze delle antiche cronache.
In tema di pesci i Romani erano raffinati e pretenziosi, conoscevano perfettamente le varie specie, come si può dedurre dai tanti mosaici dell’epoca, e quando il mercato locale non li soddisfaceva si facevano arrivare i pesci più pregiati da ogni parte dei loro possedimenti…anche se c’è da chiedersi in che condizioni arrivassero, considerati i tempi di viaggio (si è calcolato che i corrieri imperiali potessero muoversi a una velocità di circa 10 km/h) e la notoria mancanza di congelatori.

Come detto, la loro conoscenza delle varie specie del Mediterraneo era notevole e la storia ci ha tramandato dettagliate informazioni sui loro gusti, nonché divertenti aneddoti. Le triglie, regine del mercato e di cui si apprezzavano particolarmente la testa e il fegato, erano tra i pesci più ricercati e per gli esemplari più grossi si pagavano cifre folli. Per pesci di tre libbre si arrivava a sborsare fino ad 8000 sesterzi, cifra con la quale – tanto per capire – all’epoca si potevano acquistare nove tori.
Ma ai tempi di Tiberio rimase famoso il caso di tre triglie che furono pagate addirittura 30.000 sesterzi e il fatto che all’epoca la taglia di questi pesci fosse notevolmente superiore a quella attuale non cambia la sostanza delle cose. Al colmo della lussuria, poi, mentre Lucullo e Apicio si facevano servire le triglie su piatti d’oro tempestati di pietre preziose, Eliogabalo arrivò a ordinare un piatto di soli barbigli, per il quale fu sacrificata un’enorme quantità di triglie.
Apprezzatissime anche le murene, e non certo perché come vuole la leggenda venissero nutrite con carne umana, mentre nell’allora biondo Tevere venivano pescati con regolarità grandi storioni, definiti “nobilissimi” per il caviale che se ne ricavava, e splendide spigole.

Museo Mandralisca di Cefalù, mostra un
momento di vendita del tonno.
Un altro pesce apprezzatissimo e già allora raro lungo le coste della penisola, ma rimasto poi confinato ai nostri mari più meridionali, era lo scaro (Scarus cretensis), più noto come pesce pappagallo. I romani ne erano ghiottissimi, apprezzandone soprattutto il fegato che veniva infatti venduto a parte. Proprio la bramosia degli scari causò all’epoca un primo esempio di “tropicalizzazione” forzata.
L’imperatore Claudio, infatti, si fece arrivare dalla Grecia, dove questo pesce è molto comune, una grande quantità di scari vivi e li fece scaricare nelle acque di Ostia, emanando poi un decreto che ne vietava la cattura. Cosa che però non resse a una situazione ambientale evidentemente negativa, perché oggi di quei pesci lungo il litorale romano non c’è traccia.
Tanto per restare in tema di gusti, però, vale la pena di ricordare che il garum, la celeberrima e ricercatissima salsa di pesce presente su tutte le tavole dell’impero, a base d’intestini di pesce messi sotto sale e lasciati a macerare al sole per un paio di mesi, sarebbe per noi qualcosa di assolutamente disgustoso. E che se la si potesse aromatizzare con vino, miele, o aceto unito a spezie varie, non migliorerebbe sicuramente le cose.

In tutto questo, al di là delle consuete tecniche di pesca commerciale, i Romani si divertivano a pescare anche con la canna. Appassionato pescatore “ricreativo” fu certamente il poeta Marziale, ma anche Augusto praticava la pesca con passione, mentre Nerone pare si divertisse di più con le reti. E come oggi, anche allora c’era fra i pescatori chi barava, e in questo campo il massimo fu raggiunto da Antonio, protagonista di un noto e vergognoso episodio riportato da Plutarco.
Anche il bell’Antonio era infatti un appassionato pescatore e un giorno, volendo dare prova delle sue capacità di fronte alla donna per la quale spasimava – nientedimeno che la regina Cleopatra – organizzò un trucco assai maldestro. Dopo essersi messo d’accordo con degli abili tuffatori subacquei, ordinando loro di attaccare di volta in volta alla sua lenza dei bei pesci già pescati, iniziò a fare sfoggio di catture a ripetizione suscitando l’ammirazione dei presenti, Cleopatra inclusa.
Peccato che la regina, oltre che bella, era notoriamente sveglia e, accortasi dell’inganno, fece dapprima finta di entusiasmarsi ad ogni cattura, ma il giorno dopo, quando tutti si ritrovarono per un’altra battuta, ordinò ai suoi uomini di sostituirsi a quelli di Antonio e di attaccare alla sua lenza un pesce secco e già salato. Quando l’imperatore recuperò orgoglioso la sua preda probabilmente prima sbiancò, poi arrossì di vergogna.

Dal passato al futuro
Nella nostra storia non ci addentreremo oltre l’epoca romana per ovvie ragioni di spazio, ma vale la pena ricordare come dall’epoca dei nostri antenati ad oggi, purtroppo, molte cose sono cambiate nel Mediterraneo.
Vale senz’altro la pena di accennare a come il fenomeno del suo degrado abbia subito una straordinaria accelerazione nell’ultimo secolo, o meglio ancora negli ultimi decenni. Antropizzazione delle coste, inquinamento, incremento del traffico marittimo e, soprattutto, esuberi della pesca professionale sono le principali cause di un fenomeno che, oltre all’impoverimento delle specie ittiche e della biodiversità, ha portato alla progressiva riduzione delle loro taglie.
Tanto per fare un esempio, le triglie di età romana arrivavano a pesare fino a due chili, mentre se parliamo di tonni (in assoluto la specie commercialmente più importante al mondo), anche solo qualche decennio fa nelle nostre acque gli esemplari di 250-300 chili erano tutt’altro che rari.
Oggi, nonostante il notevole recupero degli stock ittici dovuto alle forti misure di protezione, un pesce superiore ai 100 chili già fa notizia.
L’impegno globale per la difesa degli oceani, di cui il Mediterraneo è parte pur essendo penalizzato dal suo status di bacino chiuso, sta indubbiamente crescendo, ma gli interessi commerciali in gioco e una politica ambientalista ancora tanto lenta quando inascoltata ostacolano fortemente il recupero di quel 70{2e3577d2bd6aebaa150c85c33fcd353783f1aa6c690283591e00ef60b3336fc8} del nostro pianeta chiamato mare.
Neanderthal di casa nostra
Il rapporto fra l’uomo di Neanderthal, vissuto un centinaio di migliaia di anni fa, e il mare è stato molto più intenso di quanto normalmente si creda. Gli ultimi ritrovamenti hanno infatti dimostrato che questi nostri predecessori, in qualche caso contemporanei dell’Homo sapiens, non solo si nutrivano spesso di pesci, granchi, e molluschi vari, o addirittura di foche un tempo assai più numerose nei nostri mari, ma che addirittura erano in grado di immergersi per raccogliere ricci e frutti di mare.
Al di là del fatto che i neanderthaliani avevano anche scoperto che il cibo cotto era assai più buono di quello crudo (avevano cioè scoperto la cucina), secondo i ricercatori sembrerebbe proprio che questa dieta ricca di acidi grassi e omega 3 abbia contribuito al rapido sviluppo cerebrale dei nostri antichi progenitori.

I nostri mari, i nostri pesci
Osservando l’evoluzione del Mediterraneo, e conseguentemente dei pesci e molluschi vari che lo abitavano in tempi assai remoti, si potrebbe restare stupiti ricordando che qualche decina di milioni di anni fa, ai piedi delle Dolomiti, si estendevano rigogliosi reef frequentati da pesci non dissimili da quelli presenti ancora oggi sulle barriere coralline.
Per averne un’idea basterebbe visitare la “pesciara” di Bolca, non lontano da Verona: un vero e proprio giacimento di pesci e molluschi fossili mirabilmente conservati fra gli strati calcarei a grana finissima del Monte Postale, probabilmente frutto dell’avvicendarsi improvviso di eventi ambientali catastrofici.
Ben più familiari sono le testimonianze lasciateci da Greci e Romani che, nelle loro pitture, sui vasi o negli splendidi mosaici, ci presentano un Mediterraneo abitato dagli stessi pesci presenti oggi sulle nostre tavole. Fra l’altro, un famoso vaso del IV secolo, splendidamente conservato, ci mostra con realismo quasi fotografico come già all’epoca il tonno fosse oggetto di pesca e commercio.

Del resto già Aristotele aveva individuato come il re dei nostri mari avesse migrazioni regolari e facilmente individuabili.
E se parliamo di tonni non si possono non citare le famose pitture rupestri della Grotta del Genovese, a Levanzo, risalenti al Neolitico, ovvero a circa 10-12.000 anni fa, una delle quali mostra chiaramente l’immagine di un grosso pesce, probabilmente un tonno, considerando che le Egadi sono da tempo immemorabile sulla via di migrazione dei grandi banchi migratori di questa specie.




