Fra leggenda e realtà: I fantasmi dell’oceano
Da sempre il mare è l’elemento ideale per dar vita a favole e leggende. E di certo, ieri più di oggi, le navi fantasma hanno suscitato terrore e superstizione. A volte, però, dietro la fantasia, si nasconde qualche cruda realtà.
A nessuno fa piacere svegliarsi alle due di notte, ma se questo vuol dire salire in coperta a prendere il timone per il proprio turno, se vuol dire ritrovarsi immersi in una profonda e tranquilla notte oceanica semisepolti dalle stelle ascoltando il quieto respiro del mare che scivola lungo la carena, allora tutto sommato ne può valere la pena.

E seguire nel lento scorrere delle ore il movimento delle costellazioni che accompagnano la nostra rotta diventa una piacevole lettura. Poi, a poco a poco, il cielo inizia a cambiare colore, le stelle si spengono e una leggera sbavatura rosea alle nostre spalle segna ancora una volta il miracolo dell’alba. Il momento è magico, e quella indecisa sagoma all’orizzonte non può certo rovinarlo, anzi, incontrare qualcuno nell’immensità dell’oceano è sempre un momento di gioia.
E ora che pian piano quella forma indistinta prende consistenza la cosa si fa ancora più eccitante, perché la sagoma poco a poco sempre più distinguibile è quella di un tre alberi alto e imponente… ma… con le vele a secco, anzi ora che si distinguono meglio…con le vele a brandelli. Vale la pena di accostare di una ventina di gradi, ma ora con la nave a poche centinaia di metri si scopre che tutta la struttura è fatiscente, quasi un miracolo che galleggi, mentre a bordo non si vede anima viva. Come se l’equipaggio si fosse misteriosamente liquefatto. Stupore, perplessità, angoscia, meraviglia… forse abbiamo di fronte un fantasma degli oceani”.

Quanto sopra è realmente accaduto, anzi no, o meglio forse. Boh, chi può dirlo. Paura e mistero sono ingredienti con cui chi va per mare prima o poi finisce per scontrarsi, e quando parliamo di navi fantasma la dicotomia si fa ancora più coinvolgente dovendo dirimere fra fantasia e realtà, fra storia e leggenda, fra ciò che è e ciò che non è ma che ci farebbe piacere che fosse. Del resto quale indiscutibile fascino emanano le navi fantasma che da secoli alimentano la fantasia dei marinai, fermo restando che se la fantasia può giocare il suo ruolo esiste nel sottofondo anche un’inquietante realtà.
La storia delle navi fantasma, intendendo con il termine quelle navi del tutto scomparse e più spesso ritrovate in pieno oceano, inspiegabilmente intatte ma prive di equipaggio, attraversa i secoli e resta ancor oggi attuale. Ed anche se ai racconti dei marinai di un tempo, spesso conditi da un pizzico di fantasia, si sono sostituiti oggi ben più accurati mezzi d’indagine, molti misteri restano irrisolti. Ma indagare su certi affascinanti argomenti è spesso avvincente e la nostra ricerca, pur limitandosi agli esempi più eclatanti, non può che iniziare con la nave fantasma per antonomasia, quell’Olandese Volante divenuto archetipo di una generazione.

L’Olandese volante
La prima testimonianza sull’avvistamento di questo brigantino fantasma è regale. Nel senso letterale della parola, dato che il sedicenne guardiamarina che lo avvistò alle quattro del mattino dell’11 luglio 1881 al largo della costa australiana, da bordo della nave da guerra inglese Inconstant, era un principe. Per l’esattezza, quel George Frederick Ernest Albert che divenne dopo qualche anno re Giorgio V d’Inghilterra. “Uno strano bagliore fosforescente l’avvolgeva, come se fosse una nave fantasma: entro questo alone spiccavano a 200 yard di distanza gli alberi, le antenne e le vele di un brigantino che apparve mentre ci affiancava a sinistra, dove l’ufficiale di guardia lo vide dal ponte, come pure il guardiamarina di cassero…”. All’autorevole testimonianza del futuro re fecero eco quelle di altri tredici uomini dell’equipaggio e di altre due navi.
E poiché fra i marinai leggende e superstizione sono abituali compagne di navigazione, il fatto che dopo qualche giorno un marinaio morì cadendo dalla coffa, e dopo qualche settimana morisse anche il comandante, unendoci alcuni luttuosi precedenti, fece nascere la maledizione dell’Olandese Volante: chiunque lo avesse incontrato in mare, nella sua spettrale apparenza, sarebbe andato incontro a qualche disgrazia. Ma questo vascello maledetto era solo frutto di fantasia?
Alla base della leggenda c’è in realtà una nave olandese al comando di un certo Hendrik van der Decken, avventuriero di pochi scrupoli e molta determinazione, che un giorno del 1641 doppiando il Capo di Buona Speranza diretto verso le Indie Occidentali incappò in una violenta tempesta. Benché la nave fosse ridotta a brandelli e rischiasse di affondare, il comandante ignorando le suppliche dell’equipaggio e arrivando a uccidere un marinaio troppo arrogante, volle proseguire, incoraggiato, si narra, dall’apparizione di un demone a cui aveva promesso l’anima. Una sfida che non fu ben vista dall’Onnipotente, che condannò ciò che restava della nave a vagare per gli oceani fino al giorno del giudizio.
La fantasia crea spesso leggende, ma la cosa singolare è che, nella stessa zona in cui affrontò la tempesta, la nave apparve diverse altre volte: nel 1939 attraversando a vele spiegate la baia di False Bay, e nel 1942 nei pressi di Robben Island. E forse chissà che non sia apparsa anche a qualche solitario del mare che magari ha poi taciuto la cosa per pudore. Ma sarà tutta leggenda o forse sotto sotto si nasconde un pizzico di realtà? Sarà solo un miraggio o un effetto ottico creato da particolari condizioni atmosferiche, come alcuni suggeriscono? Quello che è certo è che l’Olandese Volante fu una fonte d’ispirazione per pittori, scrittori, musicisti, giornalisti, registi cinematografici e via dicendo, diventando la più “reale” delle leggende. E il mare è bello anche per questo.
Il Mary Celeste
A contendere la fama dell’Olandese Volante c’è un altro vascello, che ha però radici più storiche, dato che il Mary Celeste, un brigantino canadese a vela quadra di 31 metri varato in Nuova Scozia nel 1861, fu in realtà ritrovato e abbordato. Curiosamente, il periodo è quasi coincidente con quello della nave olandese, dato che era il 4 dicembre 1872 quando il Dei Gratia, un brigantino inglese, avvistò il Mary Celeste che navigava alla deriva al largo delle Azzorre, diretto a Genova con il suo carico di 1701 barili di alcool industriale. Accostata la nave e saliti a bordo, gli uomini del Dei Gratia, alla guida del capitano Morehouse, trovarono la nave deserta. A bordo non c’era la minima traccia di panico o di allarme.
Nella cabina del comandante, l’armonium aveva ancora sul leggio uno spartito; c’era una bottiglia di sciroppo per la tosse aperta; nel piatto della colazione, un uovo sodo sgusciato a metà. Tutto sembrava perfettamente in ordine anche nelle cabine dei marinai. Persino in cucina le stoviglie erano ordinatamente al loro posto e tutto sembrava pronto per servire la colazione all’equipaggio: era come se di colpo il tempo si fosse fermato e tutte le persone a bordo, inclusa la moglie e la figlia del comandante, si fossero improvvisamente e misteriosamente volatilizzate. Unica stranezza: mancava una scialuppa.

Fra l’altro il diario di bordo del comandante del Mary Celeste, il trentasettenne Benjamin Spooner Briggs, riportava come ultima annotazione un punto nave al largo delle Azzorre e una situazione di burrasca che però contraddiceva le condizioni in cui fu ritrovata la nave. Ma quello che resta un mistero è come il Mary Celeste abbia potuto restare in rotta per dieci giorni e oltre 500 miglia senza nessuno a bordo.
Il Dei Gratia trainò comunque la nave fino a Gibilterra, il comandante Morehouse intascò il premio del recupero e la nave venne sottoposta a un profondo restauro. Ma non trovò poi grande impiego: i marinai la ritenevano maledetta e rifiutavano di imbarcarsi. Insomma, passò di mano ben diciassette volte prima di incagliarsi nel 1884 e finire miseramente la sua storia su un reef al largo di Haiti. Sulla sorte dell’equipaggio si è detto di tutto e di più e, fra le tante teorie, non sono mancate quelle più fantasiose che chiamavano in causa l’intervento degli alieni o di mostri marini.
Quelle più realistiche andavano dall’ammutinamento a un improbabile attacco dei pirati (il carico era rimasto intatto); da un’improvvisa fuga per paura di un’esplosione causata dai fumi dell’alcool a un’allucinazione collettiva causata da un fungo, l’ergot, assunto con l’alimentazione (in particolare con il pane di segale).
La teoria più recente e accreditata, però, frutto delle ricerche della documentarista Anne MacGregor e dell’oceanografo Phil Richardson, ipotizza che gli strumenti del comandante fossero difettosi e che, con l’oceano che montava, una pompa fuori uso e la presunta vicinanza di un’isola data dall’errato rilevamento, il comandante abbia suggerito di abbandonare la nave per raggiungere la costa. Però di quella scialuppa mancante non fu mai trovata traccia e questo, con le dovute proporzioni, ci ricorda che, anche in caso di naufragio con la nave non semiaffondata, la mossa più sicura è quella di restare attaccati allo scafo.

Gli equipaggi fantasma
I ritrovamenti di navi vaganti prive di equipaggio sono in realtà numerosi, e quasi mai esiste una spiegazione logica. Logica fu però la fine dello schooner inglese “Jenny”, ritrovato nel 1840 in Antartide, nello Stretto di Drake, prigioniero dei ghiacci con all’interno perfettamente conservati dalle basse temperature i sei membri d’equipaggio e un cane. L’ultima annotazione del comandante lasciò senza parole l’equipaggio della baleniera che l’aveva scoperta: “4 Maggio 1823. Niente cibo da 71 giorni. Sono l’unico sopravvissuto”. La nave era praticamente andata alla deriva per 17 anni con a bordo il suo equipaggio tragicamente morto assiderato.
Inglese era anche il “Resolven”, un brigantino commerciale di 30 metri generalmente impiegato nel trasporto di legno e baccalà, che fu ritrovato il 29 agosto 1884 mentre vagava alla deriva e privo di equipaggio, al largo della penisola canadese di Terranova. Il Resolven fu ritrovato da una nave militare inglese senza nessuno dei sette uomini d’equipaggio e dei quattro passeggeri, apparentemente intatto salvo un pennone spezzato e una vistosa abrasione su una fiancata.
Ma le cose più stupefacenti erano il fornello della cucina ancora acceso e l’ultima notazione di bordo che risaliva ad appena sei ore prima del ritrovamento. Il fatto che mancasse una scialuppa fece pensare a un’improvvisa fuga dalla nave, ma per quale ragione? Pirateria? Ammutinamento? Un iceberg in rotta di collisione? Il mistero resta, ma curioso che la nave, successivamente recuperata, affondò poi nel 1888 al largo di Northport guadagnandosi negli anni (anche lei) il titolo di nave maledetta. Ben altre tre navi, infatti, mandate sulla stessa rotta per rimpiazzare il carico della Resolven affondarono o subirono enormi danni.

Fermo restando che abbandonare la nave dovrebbe essere l’ultimo e disperato atto prima del suo affondamento, la sparizione degli equipaggi può trovare spiegazioni più o meno logiche e altre totalmente prive di fondamento. Ad esempio ci si domanda ancora che fine abbia fatto l’equipaggio del Carrol A.Deering, un cinque alberi mercantile di ben 80 metri per 2000 tonnellate salpato da Norfolk nell’agosto del 1920, che dopo aver consegnato il suo carico di carbone a Rio Janeiro intraprese la via del ritorno fermandosi a Barbados per rifornirsi.
Fu poi visto l’ultima volta dal guardiano del faro di Cape Lookout, al largo della Carolina del Nord, quando un uomo dell’equipaggio riuscì a comunicare con un megafono che la nave aveva perso le ancore in una tempesta. Tre giorni dopo la nave fu ritrovata incagliata sui Diamond Shoals, banchi di sabbia – peraltro mobili – affioranti sette miglia al largo di Cape Hatteras: secche che hanno sulla coscienza non meno di 600 naufragi, tanto da essere conosciute come il “Cimitero dell’Atlantico”. Quando i soccorsi riuscirono a raggiungere la nave, a bordo trovarono solo due gatti.
Mancavano però due scialuppe, cosa che poteva avere un suo perché, ma in cucina era tutto pronto per il pranzo, cosa assai meno logica. Dell’equipaggio e del carico non fu mai trovata traccia e, sebbene le ipotesi più accreditate furono quelle di un ammutinamento o di un atto di pirateria, non mancarono ipotesi ben più azzardate: dopotutto non siamo lontani dal Triangolo delle Bermuda. Diversa ma non meno inquietante fu l’ipotesi scaturita dal messaggio contenuto in una bottiglia ritrovata tempo dopo al largo di Buxton Beach (Capo Hatteras) e considerato autentico: “Deering catturata. Hanno preso tutto e ammanettato l’equipaggio. Equipaggio nascosto in tutta la nave. Nessuna possibilità di fuga. Avvertire la compagnia». Per la cronaca, il relitto Deering, che costituiva un pericolo per la navigazione, fu poi fatto esplodere nel marzo del 1821. Parti dello scafo portate dalla risacca furono raccolte e riutilizzate dai locali di Hatteras Island per riparare e costruire case.
Le ultime parole
Gli ultimi messaggi di chi si sentiva a un passo dalla fine sono indubbiamente drammatici. “Capitano e ufficiali morti. Tutto l’equipaggio morto o moribondo, la morte è vicina anche per me”. Questo il testo, che più drammatico non potrebbe essere, lanciato nel febbraio del 1948 dal cargo olandese “Ourang Medan”: un S.O.S. raccolto dalla nave Silver Star che, dopo tre ore, riuscì a raggiungere la nave ma solo per trovare un orrendo spettacolo di morte. A bordo trovarono l’intero equipaggio morto, con i cadaveri che curiosamente avevano gli occhi sbarrati dal terrore che, come le braccia, sembravano tesi verso il cielo.

Non furono rilevati a bordo segni di asfissia o di avvelenamento e, ancora una volta, di fronte a una situazione inspiegabile, furono chiamati in causa gli UFO. Più concreta fu la situazione che ci riporta indietro di qualche secolo, cioè all’11 ottobre del 1775, quando l’Herald, una baleniera del New England, ritrovò al largo della Groenlandia l’Octavius, una goletta a tre alberi, semicoperta dal ghiaccio tanto da apparire vetrificata: a bordo furono trovati i 28 membri dell’equipaggio completamente congelati, con l’ultima notazione di bordo riportata su un diario (anch’esso congelato) che risaliva all’11 novembre 1762, nella quale il comandante riportava che la nave era prigioniera dei ghiacci da diciassette giorni: come a dire che l’Octavius aveva vagato nel gelo dell’Artico per 13 anni.
Ma ancor più sorprendente era l’annotazione che riportava l’ultima posizione della nave: 160° Latitudine Ovest, 75° Longitudine Nord. Un punto nave che indicava l’Alaska, in pratica a centinaia di miglia dal luogo del ritrovamento. Per tredici anni, venti e correnti avevano spinto la nave in quell’apparentemente impossibile passaggio di Nord-Ovest che congiungeva il Mar Glaciale Artico con l’Oceano Atlantico: una rotta poi cercata a lungo, nei secoli successivi, da una quantità di esploratori di mezzo mondo. Le ultime drammatiche ore dell’equipaggio dell’Octavius erano testimoniate dall’atteggiamento dei corpi: il comandante era riverso sul libro di bordo con in mano ancora la penna; da una parte, sotto le coperte, c’era una donna con gli occhi sbarrati; un marinaio era morto tenendo in mano un acciarino e coprendo con la sua giacca il corpo di un bambino.

Come gli Zombi
Proprio come i morti viventi, anche le navi… a volte ritornano! L’S.S.Cotopaxi, apparentemente una delle tante vittime del Triangolo delle Bermuda, era partito da Charleston (South Carolina) il 29 novembre del 1925 diretto verso l’Avana con un carico di oltre 2.340 tonnellate di carbone. Nessuno sa cosa sia successo, se non che 2 giorni dopo la nave smise di comunicare e fu data per dispersa, probabilmente vittima con i suoi 32 membri d’equipaggio di una violenta tempesta tropicale. Non era una nave di grande importanza, a giudicare dal fatto che nessuno si dette grande pena per accertare le cause della sparizione, tanto più che trovandosi nella zona del triangolo maledetto ci poteva stare di tutto: dagli UFO alle onde anomale, dagli Atlantidi ai mostri marini.

A ridarle vita, almeno sul piano della fantasia, è stato il regista Steven Spielberg che, nel suo “Incontri ravvicinati del terzo tipo”, immagina un intervento degli extraterrestri grazie al quale la nave riappare in pieno deserto del Gobi. UFO a parte, un giorno la Cotopaxi riapparve sul serio, peraltro in duplice versione, ovvero sia sott’acqua sia in superficie. Spieghiamo meglio. Grazie agli archivi dei Lloyd’s di Londra, il biologo marino Michael Barnette e lo storico Guy Walters sono certi che un relitto già individuato 35 anni prima al largo della Florida, ma non identificato, fosse in realtà proprio quello del Cotopaxi, aggiungendo che, in realtà, prima di scomparire, la nave avrebbe lanciato un Mayday raccolto dalla stazione radio di Jacksonville. Bene, mistero risolto…o forse no.
Se infatti risaliamo al 18 maggio 2015, troviamo una nota della Guardia Costiera cubana che annuncia di aver intercettato a Ovest dell’Avana, in una zona militare interdetta alla navigazione, una nave senza equipaggio e in stato fatiscente. Affiancata da tre motovedette, dopo aver accertato l’assenza totale dell’equipaggio, la nave fu abbordata. Nello stato di totale abbandono di tutto ciò che era a bordo, ben comprensibile dopo novant’anni, l’unico documento utile alla sua identificazione fu il diario del comandante, che tuttavia, benché riconosciuto autentico, non portava alcun elemento utile a spiegare la scomparsa della nave. Tacciata di essere una bufala, la storia è rimasta sempre poco chiara. Alla fine, meglio accettare la meno spettacolare ipotesi di una falla apertasi nello scafo a causa della violenza della tempesta, come suggerito da Barnette e Walters.
Fantasmi da diporto
Molto più reali sono sicuramente le cronache di eventi che arrivano fino ai giorni nostri, i quali, essendo però poco misteriosi e annegando nelle ipersature news dell’attualità, non ricevono una grande attenzione. Limitandoci a citarne alcuni, può essere interessante soffermarci su quelli che potremmo sentire a noi più vicini. Ad esempio, ricordiamo un catamarano che nel 2007 uscì in mare lungo la costa australiana con un gruppo di tre amici ma poi tornò verso la costa senza nessuno a bordo, anche se tutto era perfettamente al suo posto, incluso un computer acceso, una tazza di caffè a piena a metà e i giubbotti di salvataggio ordinatamente riposti.

Forse uno dei tre amici era caduto in mare e, nel tentativo di aiutarlo, gli altri due si era gettati in mare perdendo poi contatto con la barca? A volte l’esperienza insegna, altre volte non basta. Non bastò a Jure Sterk, un croato di 72 anni, grande navigatore con alle spalle tre Mini Transat. Partito nel 2007 ebbe l’ultimo contatto radio il 1° gennaio del 2009, poi più nulla: la barca fu recuperata il 30 aprile, 800 miglia più a Sud Ovest con le vele a brandelli. Ovviamente, nessuna traccia di Sterk.
Ben più macabro fu il ritrovamento del Sayo, un Jeanneau Sun Magic 44 incontrato nel marzo 2016 da una barca francese in regata round-the-world: disalberato, semiaffondato e alla deriva 50 miglia al largo di Guam, nei pressi delle Filippine. La cosa più incredibile fu che, piegata sul tavolo di carteggio accanto alla radio e a una lettera, fu trovata la mummia del suo comandante, che le autorità identificarono in un tedesco 59enne, tale Manfred Fritz Bajorat, di cui non si avevano notizie dal 2005. A bordo era tutto in discreto ordine e l’unica cosa che mancava era il portafoglio di Bajorat.

La cosa più stupefacente resta l’incredibile conservazione del corpo dell’uomo, deceduto – stando al referto dell’autopsia – per cause naturali, forse un attacco cardiaco. La lettera, ritrovata ben leggibile era indirizzata alla moglie, scomparsa nel 2010 per un tumore: un messaggio d’amore che tinge di romantico questa tragedia. Quanto alla mummificazione, in realtà non c’è alcun mistero. Il celebre anatomopatologo inglese Peter Vanezis ha spiegato che alta temperatura e salsedine sono elementi favorevoli a questo processo naturale, impedendo la proliferazione dei batteri.

Quel 2016 fu segnato da un altro fatto tragico. In ottobre, dopo un breve ricerca, l’aereo da ricognizione mandato in soccorso di Guo Chuan, idolo della vela cinese in piena traversata transpacifica, trovò al largo delle Hawaii il suo maxitrimarano Qingdao China integro ma con la randa terzarolata in bando. Di Guo nessuna traccia.

Di questi episodi, purtroppo, potremmo citarne ancora a decine, il che ci riammenta che per quanto rispetto si possa portare al mare, per quanta esperienza si possa avere sulle spalle, per quanto in ordine possano essere le nostre barche e le nostre attrezzature, l’imprevisto è qualcosa che può sempre accadere. Il mare ha a volte la gentilezza di nasconderne le conseguenze. Altre volte ce le presenta nella loro più cruda realtà.<p style=”text-align: center;”></p>



