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Storia della navigazione: I Signori della Porpora

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L’aver monopolizzato la più preziosa delle tinture dell’antichità non deve far passare in secondo piano le capacità marinaresche di un popolo che inventò e dominò la navigazione commerciale nel Mediterraneo.

C’era un tempo in cui il mare era un confine ignoto e apparentemente invalicabile, poi qualcuno poco a poco osò avventurarvisi e si scoprì che l’immensa distesa liquida non era un ostacolo, ma al contrario poteva essere un mezzo di comunicazione.

Il mare era il naturale confine dei Fenici, che seppero sfruttarlo al meglio per intraprendere commerci in tutto il Mediterraneo, e non solo.

La storia della navigazione nasce così, un po’ per avventura un po’ per necessità, e di certo non è stata facile perché c’erano da superare paure e problemi tecnici di cui non si aveva alcuna conoscenza e, se certo ci fu un salto dalla prima canoa scavata in un tronco d’albero a vere e proprie imbarcazioni capaci di affrontare le onde, il passo successivo non fu certo inferiore, perché si trattava di abbandonare la costa per affrontare un orizzonte privo di riferimenti, soprattutto con una governabilità dei mezzi assai approssimativa.

Per questo oggi, navigando felici sulle nostre barche, non dovremmo dimenticare il debito che dobbiamo a chi per primo ha tracciato quelle rotte, a chi per primo ha dato al legno la forma e la struttura di una barca in grado di affrontare il mare aperto. E se è vero che nulla nasce dal caso e che, spesso, un albero può avere radici che si allungano nello spazio e nel tempo, è anche vero che a dare il primo grande impulso alla storia della navigazione è stato un popolo per molti versi misterioso, ma sicuramente coraggioso e intraprendente: i Fenici.

Cartagine
L’antico porto di Cartagine.

Il commercio nell’anima

Nell’analizzarne l’evoluzione in chiave nautica, non possiamo dire che furono loro a inventare le prime navi, perché già quando questo popolo ha cominciato a lasciare tracce nella storia, il Mediterraneo era attraversato da altri popoli, Greci in primis. Basterebbe infatti ricordare che dei Fenici si inizia a parlare intorno al 1200 a.C. (per capirci, più o meno l’epoca della guerra di Troia avvenuta intorno al 1180 a.C.) e che ben prima gli Egizi trafficavano lungo il Nilo con le loro grandi imbarcazioni di papiro (però quello era appunto un fiume) e i Greci, per spostarsi lungo le loro rotte, erano obbligati ad affidarsi a venti e correnti con mezzi dalle scarse qualità nautiche.

Il merito dei Fenici fu soprattutto quello di aver dato alle loro navi innovative capacità di navigazione, alla navigazione una struttura professionale, e al commercio marittimo un’organizzazione mai avuta prima, il che portò alla fondazione di colonie sparse un po’ in tutto il Mediterraneo fra le quali, tanto per citare le più famose, Cartagine, che ebbe poi un suo sviluppo autonomo; Tharros, sulla costa occidentale della Sardegna; Motya in Sicilia; Cadice in Spagna; ma anche centri diventati poi importanti città come Panormo (Palermo), Cagliari, e forse la stessa Marsiglia.

Prima però di scendere nel dettaglio di questo contesto, è forse giusto ricordare che i Fenici non furono solo i signori dell’antico Mediterraneo, perché a loro dobbiamo altri step di assoluta importanza nell’evoluzione della nostra civiltà: uno su tutti, la trasformazione dell’antica scrittura cuneiforme in un vero e proprio alfabeto sillabico fonetico formato da 22 lettere (tutte consonanti, le vocali furono aggiunte più tardi dai Greci).

Fenici
Le origini dei Fenici non sono ben definite, ma a loro si devono importanti tappe della civiltà, come l’alfabeto fonetico e il perfezionamento della costruzione navale.

Le origini di questo alfabeto vanno riportate alla città geograficamente siriana di Ugarit, uno dei centri abitati più antichi al mondo (VI millennio a.C.) che, paradossalmente, fu scoperta solo nel 1928, in modo del tutto causale, da un’equipe di archeologi francesi. In seguito, i caratteri ugaritici furono ripersi e standardizzati dai Greci e lo stesso termine “alfabeto” non nasce a caso bensì dall’unione delle prime due lettere: alfa e beta.

Nel curriculum dei Fenici possiamo però aggiungere un’altra chicca, che oggi sarebbe un dettaglio di poco conto ma che all’epoca fu invece di primo piano, perché i Fenici inventarono e ottimizzarono il sistema per estrarre da una conchiglia molto comune in Mediterraneo – il murice – una tintura ricercatissima nell’antichità: la porpora, che a Roma divenne il colore per eccellenza delle classi più elevate, date anche le difficoltà della lavorazione e di conseguenza l’alto costo del tessuto. E volendo possiamo aggiungere che, pur non essendone gli inventori, i Fenici portarono a un elevato livello la lavorazione del vetro. Ma restiamo a ciò che a noi più interessa: il loro rapporto con il mare.

Tiro
I resti dell’antica città di Tiro.

Da dove venivano

Le origini di questo popolo non sono nitide e ben tracciabili, anche perché più costituire una “nazione” vera e propria retta da un unico sovrano, quello che si creò sulle coste dell’attuale Libano fu più che altro un raggruppamento di città-stato indipendenti l’una dall’altra, di cui Biblo, Tiro, e Sidone furono le più importanti. Sul chi fondò queste città, che sorsero quasi contemporaneamente, non ci sono ancora molte certezze, e le uniche fonti attendibili sono quelle tramandate da antichi documenti egizi.

Se non sappiamo da dove venivano, possiamo però sapere dove andavano, anche se oltre alle certezze – come quella che abbiano ampiamente navigato oltre le Colonne d’Ercole – ci sono fantastiche suggestioni. “Noi siamo figli di Canaan, veniamo da Sidone, la città dei re. Il commercio ci ha gettato su questo lido remoto, in una terra di montagne. Abbiamo sacrificato un giovane agli dei e alle dee, nel diciannovesimo anno di Hiram, nostro potente sovrano. Partiti da Ezkiom-Geber, nel Mar Rosso, abbiamo viaggiato con dieci navi. Siamo rimasti insieme per due anni intorno alla terra di Cam (Africa), ma la tempesta ci ha separato dai nostri compagni. Così siamo arrivati qui, dodici uomini e tre donne, su una spiaggia che io, capitano, governo. Che gli dei e le dee possano benevolmente soccorrerci”.

Questa traduzione di una tavoletta di pietra composta da 246 caratteri fenici, nota come il “Testo di Paraibo”, sarebbe di per sé stessa già eloquente e suggestiva, ma assume un valore decisamente inquietante se si pensa che è stata ritrovata nel 1872 …in Brasile! Che dire, qui si potrebbero accendere le più incredibili suggestioni. Potrebbero i Fenici, pur conosciuti per notevoli imprese di navigazione (ad esempio il periplo dell’Africa), essere giunti oltre Atlantico duemila anni prima di Colombo, magari trasportati involontariamente da vento e correnti?

La tavoletta è un falso? Eppure è stata al centro di un dibattito fra i più grandi specialisti della materia. Sia come sia, resta il fatto che quel popolo insediatosi nella terra di Canaan, pur traendo il massimo dal poco terreno coltivabile, non aveva altri sbocchi di sopravvivenza se non il mare. E sulla spinta di questa esigenza i Fenici divennero i migliori navigatori del Mediterraneo, anche perché l’unico materiale allora disponibile per costruire imbarcazioni e navi era il legno, che, grazie alle foreste che circondavano il Paese, costituiva la maggior ricchezza del territorio.

Il legname, che era al tempo e per certi paesi come l’Egitto una merce preziosa che doveva essere importata, consentì ai Fenici di sviluppare l’arte della costruzione navale, tanto è vero che dobbiamo dir loro grazie per uno dei passaggi più importanti nella storia della cantieristica: quello grazie al quale si passò dalla costruzione dello scafo privo di ordinate, realizzato con una struttura a tavole portanti sagomate, incastrate e cucite fra di loro (sistema poi migliorato con il successivo uso di cavicchi e biette), a uno scafo dotato di chiglia e madieri che, vetroresina a parte, seppur modificato è in uso ancora oggi. Unitamente a una certa rastrematura di poppa e prua, questo contribuiva notevolmente a migliorare l’andatura della nave consentendogli anche una moderata possibilità di risalire il vento.

Il sapiente uso delle varie essenze di cui era ricca la loro terra e lo sviluppo di tecniche cantieristiche allora sconosciute consentì ai Fenici di costruire navi in grado di affrontare navigazioni molto impegnative.

Una sofisticata cantieristica

Nel descrivere le antiche imbarcazioni, soprattutto quelle fenicie, va tenuto conto che non abbiamo in merito disegni tecnici o schemi di lavorazione, perché la gran parte delle testimonianze giunte fino a noi si basano su immagini votive o evocative, realizzate in bassorilievo o a tutto tondo in terracotta, ma in ogni caso molto approssimative.

Qualcosa di più sulle navi fenicie si è appreso dal ritrovamento di alcuni relitti, in particolare da quello delle navi puniche di Marsala e di Marsiglia, ma anche in questo caso, comprensibilmente, si tratta di deduzioni abilmente tratte dagli archeologi sulla base dei ritrovamenti.

Qualcosa possiamo però dedurre da antiche testimonianze storiche, come ad esempio una descrizione fatta da Ezechiele, che da biblico profeta ebbe molto a che fare con i Fenici, e soprattutto con Tiro. Da lui ad esempio apprendiamo che: “Con cipressi del Senir hanno costruito le tue fiancate, con il cedro del Libano hanno fatto l’albero maestro, i tuoi remi con le querce di Basan, e il ponte te lo hanno fatto d’avorio intarsiato nel bossolo delle isole di Chittim, e di lino ricamato d’Egitto era la tua vela”. A parte il ponte d’avorio intarsiato – roba da megayacht oligarchici – tutto il resto sembra piuttosto credibile, e, oltre a mostrare una grande conoscenza delle varie qualità del legno, ci introduce alle principali tipologie di nave fenicia.

Per un popolo di mercanti, la nave da trasporto era di indubbia importanza: si presentava con la poppa e la prua arcuate, lo scafo tondeggiante, panciuto e quasi completamente aperto per facilitare le operazioni di carico e scarico, mentre un albero a centro barca sosteneva una massiccia vela quadra appesa a un pennone, regolabile attraverso drizze e scotte in budello animale, tanto da poter consentire il traverso o addirittura di risalire timidamente il vento.

A volte era presente un albero di civada con relativa piccola vela quadra, mentre due remi-timoni, che avevano anche parziale funzione di deriva aiutavano nelle manovre. Un grande occhio disegnato sulla prua, che ritroviamo ancor oggi sui vecchi gozzi maltesi e siciliani, illuminava e proteggeva la rotta. Queste imbarcazioni potevano raggiungere i 25-30 metri di lunghezza, con una capacità di carico di 60-80 tonnellate, e non utilizzavano rematori per non diminuire le capacità di carico.

Molto più snelle e performanti, le navi da guerra fenicie erano anche leggermente più lunghe e presentavano due ponti: uno per i 25-30 banchi dei rematori, chiamati a dare alla nave scatto e potenza al momento dell’attacco, e l’altro per i soldati. Questo era il vero e proprio ponte di combattimento, senza dimenticare il potente rostro posto sulla prua.

Per i Fenici, la nave militare per eccellenza era la cosiddetta “pentecontera”, dove il nome indicava inizialmente il numero dei rematori (25 banchi con due rematori per parte) ma rimase tale anche quando su alcune navi i rematori raddoppiarono per avere maggior potenza, senza necessariamente aumentare la lunghezza dello scafo. Lunghezza che nelle navi di maggior impegno – le quinqueremi utilizzate dai Cartaginesi durante le guerre puniche – poteva superare i 40 metri per 7,5 di larghezza e portare un totale di 250-300 rematori.

Da notare che i Fenici introdussero anche un tipo di “antivegetativa” indubbiamente efficace, anche se piuttosto rustica: la carena delle navi – che essendo in legno dovevano essere protette dall’azione devastante delle teredini – veniva infatti ricoperta da lastre di piombo di 1-2 millimetri di spessore, inchiodate su uno strato di stoffa a sua volta incollato al fasciame con la pece.

Le navi da guerra dei Fenici utilizzavano i remi prevalentemente per le azioni di attacco. Quelle commerciali ne erano invece prive per lasciare tutto lo spazio possibile al carico di merci.

Grandi mercanti, grandi navigatori
Con queste navi mercantili i Fenici crearono una fitta rete commerciale nel Mediterraneo, dapprima svolgendo un piccolo cabotaggio costiero in modo da poter sempre e rapidamente riparare in un porto sicuro; in seguito, affrontando per primi lunghi tratti di mare aperto e la navigazione notturna, durante la quale riuscivano a orientarsi sia con la Stella Polare, che non a caso i Greci chiamavano “stella fenicia”, sia con la costellazione di Orione.

Stando a Erodoto, un’antica nave fenicia, approfittando di venti e correnti favorevoli, poteva viaggiare intorno ai 6 nodi di media, il che in molti casi richiedeva diversi giorni, se non settimane o mesi per collegare le colonie più lontane.

Ma, sempre secondo Erodoto, i Fenici fecero qualcosa di molto più importante dal punto di vita della navigazione, dato che nel 600 a.C., partendo dal Mar Rosso e navigando per tre anni sempre alla ricerca di nuovi sbocchi commerciali per ordine del faraone Necho II, circumnavigarono l’Africa (a titolo di curiosità ricordiamo che questo faraone fu il primo a tentare l’apertura di un canale fra delta del Nilo, leggi Mediterraneo, e Mar Rosso).

Chiaro che non avevano alcuna idea geografica della loro impresa, ma a testimoniarne la veridicità resta la sorpresa, narrata nei loro racconti, di quando cominciarono a vedere che il sole sorgeva a destra anziché a sinistra. Più azzardata l’ipotesi di Diodoro, secondo cui i Fenici si spinsero in Atlantico raggiungendo le Canarie e le Azzorre, mentre più certo è che nel VI secolo a.C. un comandante fenicio, Imilcone, passando le Colonne d’Ercole e costeggiando il continente raggiunse la Cornovaglia alla ricerca dell’allora prezioso stagno.

E per chiudere in bellezza ricordiamo anche l’imponente spedizione di Annone, generale cartaginese che, partito con 60 navi e 30.000 uomini, costeggiò l’Africa occidentale fino al golfo di Guinea, quando poi, per esaurimento delle scorte di viveri, fu costretto a tornare indietro.

L’evoluzione della navigazione ebbe poi altri grandi interpreti, ma è indubbio che ai Fenici, alla loro arte navale e alla loro intraprendenza marittima dobbiamo molto. Peccato quindi che, al contrario di altri grandi popoli dell’antichità, abbiano lasciato più tracce nelle loro rotte che in testimonianze documentabili sulla loro storia.

La stele di Nora, in Sardegna.

E se fosse vero che i Fenici hanno raggiunto l’America?

Ma è pensabile che i Fenici abbiano raggiunto l’America duemilaseicento anni prima di Colombo? Per dimostrarlo, nel 2019 l’inglese Philip Beale, dopo aver ricostruito la replica di una nave fenicia del 600 a.C. e aver felicemente realizzato nel 2008 con questa imbarcazione il periplo dell’Africa a testimoniare l’impresa di Annone, ha poi attraversato in tre mesi 6000 miglia di Atlantico, da Cartagine alla Repubblica Dominicana, con il solo aiuto di venti e correnti.

Sulla scorta delle sue ricerche e di alcuni ritrovamenti avvenuti in Brasile, Beale era infatti convinto che i Fenici fossero approdati in America duemila anni prima di Colombo, una teoria che ha ovviamente i suoi detrattori, ma che resta comunque un’affascinante ipotesi.

L’imbarcazione non poteva ovviamente che chiamarsi “Phoenicia” ed è stata costruita in un cantiere dell’isola siriana di Arwad da maestranze locali con la massima fedeltà alle antiche tecniche, seguendo come modello il relitto di una nave punica ritrovata sui fondali di Marsiglia. Il Phoenicia, lungo 22 metri, è stato costruito utilizzando solo legni locali (pino d’Aleppo, cedro, cipressi, e olivo per i cavicchi) e le uniche inevitabili licenze sono state costituite da un piccolo fuoribordo, per le manovre in porto, e un sistema di comunicazione satellitare necessario per ragioni di sicurezza.

I carichi delle navi erano stivati con grande tecnica per evitare danneggiamenti.

La porpora, più preziosa dell’oro

Popolo di grandi risorse, i Fenici misero nel curriculum delle loro “invenzioni” anche la porpora, una tintura di difficile produzione ottenuta dalle ghiandole ipobranchiali di un mollusco gasteropode, il murice, comunissimo anche nei nostri mari. La lavorazione della porpora era tuttavia molto complessa e passava dalla cattura di migliaia di murici, delle cui conchiglie sono stati ritrovati enormi depositi, alla loro frantumazione, che avveniva lontano dai centri abitati dato il nauseabondo fetore dei molluschi in putrefazione. Come ci racconta Plinio il Vecchio nella sua Naturalis Historia, la poltiglia ottenuta dalle conchiglie frantumate era lasciata a macerare in acqua salata e, dopo tre giorni, riscaldata in tini di piombo, o forse di stagno.

Il tutto veniva poi bollito e filtrato ottenendo un liquido giallastro in cui venivano immersi i tessuti. Una volta all’aria, l’ossidazione del liquido portava poi a quel classico colore – porpora, appunto – che ha ornato per secoli le toghe di imperatori, senatori, e della più abbiente élite romana. Questa “lana viola” (ma con la porpora si colorava anche il lino) veniva prodotta soprattutto a Tiro e Sidone già dal secondo millennio a.C. e aveva costi stratosferici giustificati dalla difficoltà di lavorazione. È stato calcolato che solo per colorare parte di una tunica fossero necessari 12.000 murici e da un “listino prezzi” firmato da Diocleziano è emerso che una libbra di polvere di porpora poteva costare fino a 150.000 denari (circa 22.000 euro di oggi) o 1,5 kg d’oro.<p style=”text-align: center;”></p>

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