I grandi personaggi: un uomo di nome Thor
Per il pantheon vichingo era l’antico dio della folgore; per noi Thor è stato un norvegese coraggioso che ha fatto dell’Oceano Pacifico il palcoscenico della sua più grande avventura.
Da millenni il coraggio e l’amore per l’avventura spingono l’uomo a confrontarsi con la natura. E quando si è trattato di confrontarsi con l’oceano, di imprese pazze – soprattutto negli ultimi decenni – se ne sono contate molte.
Oggi la traversata dell’Atlantico è offerta in charter, quasi fossero due pieghe fuori porto, ma c’è stato anche chi per amore dell’impresa ha voluto compierla a remi, poi in windsurf, poi addirittura su un SUP. Ci aspettiamo che qualcuno prima o poi si faccia avanti con un pedalò, o magari con una cuffia e un paio di pinne. Certo sono state tutte imprese estreme ma compiute in sicurezza, con l’assistenza dei moderni mezzi di comunicazione e la (quasi) certezza di essere soccorsi in caso di problemi. Soprattutto sono state imprese prevalentemente sportive.
Bene, fatta la necessaria premessa, ora cancellate tutto, riavvolgiamo il nastro, e parliamo di un’impresa folle che più folle non poteva essere per una serie di motivi che vedremo più avanti, a partire dal fatto che non si è svolta dieci o quindici anni fa, ma nell’ormai lontano 1947, quando per certe cose bisognava essere marinai, ma di quelli veri. Però bisognava anche essere uomini, con una fede e una tenacia oggi forse perdute.
Quelle che indubbiamente aveva Thor Heyerdahl, che però non aveva idea di come si governasse una barca. La sua unica certezza era che la rotta su cui voleva avventurarsi era già stata percorsa molti secoli prima, con lo stesso mezzo alquanto rustico che intendeva utilizzare. Se oggi si chiede a un ragazzo cosa sia il Kon-Tiki è assai probabile che risponda…un bel locale dove servono ottimi aperitivi. Per gli appassionati di mare di pelo ormai bianco, invece, quel nome riporta a un’impresa che per le difficoltà della preparazione e per come fu portata a termine va considerata assolutamente leggendaria.
Una civiltà sconosciuta
Thor Heyerdahl non era decisamente un tipo comune, perché non a tutti verrebbe in mente di andare a passare il proprio viaggio di nozze, lungo un anno, in una sperduta isoletta delle Marchesi, per la cronaca Fatu-Hiva. Certo c’era anche l’idea di studiare la fauna locale, dato che Thor era un biologo, ma l’idea di base era quella di staccarsi dalla civiltà, forse per un anno, forse per sempre. Fu però a Fatu-Hiva, che un tempo – ricordiamo – ospitava tribù di cannibali, che osservando i resti di una precedente civiltà e i suoi presumibili legami storici e culturali con le antiche popolazioni del Sud America, Heyerdahl concepì la sua teoria.
Al contrario di quanto fino ad allora ritenuto, ovvero che la Polinesia fosse stata colonizzata da genti provenienti da Ovest, tutto faceva intendere che in un passato precolombiano le isole fossero state scoperte e abitate da una popolazione proveniente dal pur lontanissimo Perù. E Thor ne ebbe ulteriore conferma interrogando un vecchio cannibale, probabilmente ormai sdentato, che quando gli fu chiesto da dove provenisse la sua gente allungò il braccio e indicò senza indugio l’Est, ovvero il Sud America.
Questa era quindi la tesi da dimostrare, niente di più facile, salvo il fatto di coprire 4300 miglia di oceano con un mezzo tutto da costruire sulla base di antichi disegni e con gli stessi materiali e tecnologie dell’epoca preincaica; salvo trovare i mezzi economici per affrontare un’impresa del genere; salvo trovare uomini disposti a condividere questa follia; salvo trovare un supporto scientifico per dare credibilità alla sua teoria. L’ultimo dei problemi per questo norvegese d’acciaio sembrava essere quello di affrontare l’Oceano Pacifico, lui che sapeva a malapena come reggere un timone. Ma tutto sembra possibile quando la fede è cieca, o meglio, quando la fede vede già la meta prima ancora di partire.
E partiamo allora dall’ultimo anello della catena. Le radici dei Polinesiani si allungavano fino alle coste del Perù? Erano state antiche popolazioni peruviane a colonizzare questi arcipelaghi persi nel mezzo dell’Oceano Pacifico? Heyerdahl ne era straconvinto, peccato fosse l’unico, o quasi. Le sue deduzioni, però, non erano pura fantasia.
Già durante la sua “luna di miele” a Fatu-Hiva, Thor aveva notato nel corso delle sue ricerche zoologiche resti di una cultura sconosciuta e probabilmente estinta. Trovò sculture che ricordavano i possenti monoliti delle antiche civiltà sudamericane, legami con i moai dall’isola di Pasqua, notò che alcuni degli stessi abitanti mostravano caratteristiche somatiche che poco avevano a che fare con l’attuale popolazione, ma soprattutto notò che se l’isola fosse stata colonizzata da gente venuta dal mare, questa poteva essere venuta solamente da Est, perché non si possono coprire più di 4.000 miglia senza l’aiuto del vento e della corrente, come dire degli Alisei e delle correnti: quella di Humboldt, prima, quelle sud equatoriali dopo. E a Fatu-Hiva Thor raccolse dai racconti dei vecchi saggi (che comunque, ci piace ripetere, al tempo erano stati cannibali), leggende che parlavano di tribù scomparse e del loro grande capo, Tiki, il figlio del sole.

La scintilla era accesa e, negli anni che seguirono, tornato in patria, Heyerdahl si immerse in un oceano di libri e documenti per dare corpo alla sua intuizione, fino ad averne l’assoluta certezza: prima che gli esploratori occidentali scoprissero le meraviglie di quegli arcipelaghi corallini, sulle isole viveva già una popolazione di pelle chiara che coltivava campi, viveva in villaggi con strade ben tracciate, aveva templi in forma di piramide a gradini, ma non conosceva né la scrittura, né la ruota, cacciava con asce di selce, non conosceva l’uso del ferro e parlava una lingua che, pur differenziata nei vari dialetti, mostrava chiare origini comuni.
Un popolo preincaico di cui non si sapeva – né si è mai saputo – più di tanto, presente in Perù fin verso il 1100, salvo poi essere cacciato via dagli Incas e scomparire quasi all’improvviso da quelle montagne. E la conferma definitiva arrivò quando nello studiare le tradizioni Inca, che parlavano di quel popolo bianco scomparso e del loro re, Virakocha, dio del sole, Heyerdahl scoprì che il nome originale di quel re era Kon-Tiki, e che fu scacciato dagli Inca fino alla costa per poi scomparire verso Ovest, ovvero verso il mare. E Tiki era il nome di quel dio di cui parlavano le antiche tradizioni di Fatu-Hiva.

Una follia realizzabile
Le teorie di Heyerdahl, raccolte in un corposo manoscritto che portò in America per presentarlo a vari editori, erano indubbiamente affascinanti, ma nel mondo scientifico non trovarono alcun credito, soprattutto perché nessuno accettava l’idea che si potessero percorrere 4000 e passa miglia di oceano con una zattera di balsa. Insomma, il suo manoscritto non trovò mai un editore. Fu allora che Thor decise di provare le sue teorie nel modo più diretto possibile, ovvero ripercorrendo lui stesso quella rotta.

Ovviamente c’erano da superare alcuni monumentali aspetti organizzativi, ma qui il nostro giovane esploratore (all’epoca trentaduenne) ebbe un pizzico di fortuna. A New York, frequentando quello strano circolo che era l’Explorers Club, trovò i primi mezzi logistici per organizzare la spedizione e in città incontrò quasi per caso anche il primo compagno per la sua impresa: Herman Watzinger, anche lui un marinaio d’acqua dolce, ma esperto ingegnere idrografico ben preparato su termodinamica e refrigerazione. All’Explorers, Thor incontrò anche il suo secondo uomo d’equipaggio, Peter Freuchen, un gigantesco e ben noto esploratore polare dalla lunga barba, una specie di orso bianco che quando scoprì il progetto di Heyerdahl, allargò gli occhi, diede un gran sorso di birra ed esclamò: “Voglio venire anch’io!”.
Poco a poco l’organizzazione prendeva forma, la stampa cominciava a parlarne e, in breve, arrivò un primo finanziatore: un editore che promise di raccogliere il capitale necessario in cambio dell’esclusiva di tutti gli articoli. E dato che da cosa nasce cosa, cominciarono a muoversi anche le istituzioni, una su tutte l’esercito americano, che si offrì di fornire attrezzature e viveri (le famose razioni K) affinché potessero essere sperimentati in condizioni estreme. Certo c’era da costruire la famosa zattera, che dopo tutto sarebbe stata la vera protagonista dell’impresa, e necessariamente doveva essere costruita in Perù per ragioni logistiche, ma anche perché era l’unico posto in cui trovare i materiali adatti. Le autorità portuali di Lima concessero gli spazi del loro porto militare e cominciò quella che sembrava la cosa più facile e che, forse, fu la più difficile.
I magnifici… sette!
Sulla base delle cronache dei primi colonizzatori spagnoli, Heyerdahl sapeva bene quali materiali e quali tecnologie costruttive avrebbe dovuto usare per essere fedele alla sua teoria. E sapeva anche di avere poco tempo a disposizione, in quanto sarebbe dovuto partire nell’arco di pochi mesi, ovvero prima della stagione degli uragani. La base della zattera – diciamo in termini più che grossolani la carena – doveva essere costituita da nove grossi tronchi di balsa, lunghi circa 14 metri per 60 cm di diametro, tenuti assieme da inserti trasversali di altri legni e funi di canapa spesse 3 cm. L’unico albero, composto da più fusti intrecciati di mangrovia, avrebbe avuto un’altezza quasi nove metri, mentre un’unica vela quadra di 4,60 x 5,50 m (a volte se ne aggiunse una più piccola) sarebbe stata fissata a un boma di bambù. Per rendere percorribile la “coperta”, sui tronchi sarebbe stata stesa una robusta stuoia e, come rifugio, venne prevista una capanna in stuoia di bambù e foglia di banano di 4,20 x 2,40 m. Last but nor least, un remo lungo quasi 6 metri in legno di mangrovia avrebbe dovuto fungere da timone.
Il problema principale, stranamente, fu quello di trovare alberi di balsa della necessaria grandezza. Per cercarli, Heyerdahl e i suoi compagni dovettero inoltrarsi nella giungla alle pendici delle montagne, dove era già iniziata la stagione delle piogge e dove giravano tribù alquanto bellicose che cacciavano con frecce avvelenate e amavano svuotare ed essiccare le teste dei loro nemici. Ma sembrava che nulla potesse fermare Thor, proprio come l’omonimo dio vichingo. Trovò l’aiuto di un piantatore di balsa, risalì con non poche difficoltà le Ande, si inoltrò nella giungla fino a trovare i suoi giganteschi alberi di balsa, li fece tagliare e trasportare a valle fino a un fiume dove, riuniti in una specie di simil zattera, furono portati fino al mare.
Superato il principale ostacolo, il resto sembrava più a poratata di mano, a partire dal trovare altri membri d’equipaggio, che infatti non fu difficile. Uno era una vecchia conoscenza di Thor, Knut Haugland, un norvegese eroe di guerra, decorato per essersi infiltrato come radiotelegrafista in pericolose azioni di sabotaggio; ma anche Torstein Raaby, altro norvegese, era una conoscenza dei tempi di guerra, anche lui un radiotelegrafista che guidò l’azione di affondamento della “Tirpitz”, corazzata gemella della “Bismark”. Inutile dire che a loro fu affidato il compito di tenere le non facili comunicazioni radio durante la traversata e questo fu quasi il completamento dell’equipaggio perché Thor non voleva superare le sei persone.
Il sesto, Bengt Danielsson, un etnologo svedese appena rientrato da una spedizione scientifica in Amazzonia, arrivò di sua spontanea volontà: chiese di potersi unire al gruppo perché interessato alle teorie sulle migrazioni e fu subito accolto anche perché era l’unico a parlare lo spagnolo. In realtà al viaggio partecipò poi un settimo ospite: un pappagallo, che Herman si era portato dietro essendo il regalo di una dolce fanciulla.
Mentre la grande zattera di balsa prendeva forma all’interno dell’arsenale militare di Lima, si pensò anche ai viveri, ma senza molte preoccupazioni, perché se gli antichi navigatori avevano attraversato l’oceano mangiando carne affumicata, patate secche e pesce pescato in navigazione, bevendo acqua in parte stivata in capaci zucche e in parte ricavata dalla pioggia…lo si poteva fare anche sul Kon-Tiki. In più c’erano le famose razioni militari di emergenza fornite dall’esercito americano.
Alla partenza furono stivati a bordo viveri per quattro mesi di sopravvivenza, 1500 litri di acqua divisa in 56 barilotti e una quantità di frutta e noci di cocco. Poi, ovviamente, il necessario per filmare e documentare l’impresa, una quantità di libri, una chitarra e due vecchie radio a onde corte. Il 27 aprile del 1947, fra grandi festeggiamenti, la zattera innalzò la bandiera norvegese, lasciò il porto di Callao e fu portata al largo da un rimorchiatore, dove, una volta spiegata la vela su cui era disegnata l’immagine del dio del sole, il Kon-Tiki si lasciò dietro la terraferma per affrontare 4300 miglia di oceano.

Un oceano di vita
Essendo praticamente privo di chiglia, benché avesse alcune piccole e improbabili derive, il Kon-Tiki aveva uno strano modo di navigare. Inoltre si capì presto che ci sarebbe stato da adattarsi ai continui ondeggiamenti del pagliolato, ad essere facilmente presi a secchiate dal mare e a dover manovrare continuamente il remo-timone per evitare di sventare la vela. Però così avevano navigato quegli antichi marinai e così avrebbero navigato Thor e il suo pazzo equipaggio. A 50 miglia da terra il rimorchiatore mollò il cavo, e fu praticamente l’ultima nave a tenere compagnia al Kon-Tiki, perché a quei tempi e su quelle rotte non navigava anima viva.
Paradossalmente, il viaggio, pur avendo momenti tutt’altro che facili, fu entro certi limiti la parte più rilassante dell’impresa, anche perché volente o nolente lì stavi, e non potevi andare da nessun’altra parte. Potevi però godere delle inebrianti sensazioni di essere del tutto fuori dal mondo, e non per modo di dire. L’assoluta solitudine dell’oceano regalava un senso di autonomia, di pace e libertà.
Tutti i problemi personali erano ormai in scia e l’unica cosa che contava era la sfida per glorificarsi nei confronti degli elementi naturali. Giorno dopo giorno, l’oceano dimostrava peraltro che alla solitudine della superficie si contrapponeva un’esuberante vita sottomarina, e mentre lepadi e piccoli crostacei iniziavano a colonizzare la “carena”, lampughe e tonnetti erano spesso in vista; sotto la zattera stazionava un gruppetto di pesci pilota; di tanto in tanto non mancava la pinna di uno squalo curioso e più di una volta comparvero – avvicinandosi a pochi metri dalla zattera – delfini e balene, mentre di notte, attirati dalla pur fioca luce della lampada a paraffina, decine di pesci volanti (ma a volte anche piccoli calamari) finivano per schiantarsi contro la capanna di bambù fornendo cibo in abbondanza.
Tonnetti e lampughe venivano pescati con la massima facilità e con attrezzature molto rustiche, segno di un’insidia praticamente sconosciuta in pieno oceano, e a volte si intravedevano pesci inclassificabili, anche di inquietante grandezza. Il top si raggiunse tuttavia quando di notte, a rimanere intrappolato sulla stuoia della zattera, fu uno strano pesce serpentiforme, peraltro di pessimo sapore, tanto strano da finire poi sotto formalina ed essere in seguito riconosciuto dagli ittiologi come un Gempylus serpens, un pesce abissale che di notte risale in superficie per cacciare.
Per variare la dieta, e a titolo puramente sperimentale, sul Kon-Tiki si provò anche a catturare il plankton, molto presente soprattutto di notte, usando uno speciale retino fornito da un biologo marino, ma i risultati, per quanto discordi, furono scoraggianti. In genere, dopo una nottata con il retino a traino si riusciva a catturare un paio di chili di plankton, ma l’odore era pessimo e il sapore, da alcuni giudicato decente, per altri era del tutto improponibile.

L’ultimo atto
In questo modo, a seconda dello stato del mare, ogni giorno si riuscivano a coprire dalle 20 alle 50 miglia, spinti dall’aliseo di Sud-Est, il tutto con turni di due ore sia di giorno sia di notte, quando per ovvie ragioni di sicurezza data l’instabilità della zattera chi governava si legava con una cima di sicurezza. Un’accortezza che divenne obbligatoria anche di giorno, quando il mare era di cattivo umore, dopo aver sfiorato il dramma, ovvero quando Herman Wetzinger scivolò sui tronchi resi viscidi dalle alghe e finì in mare.
La zattera non aveva ovviamente alcuna capacità di manovra e anche senza vela, spinta dalla corrente, era più veloce di Herman che cercava disperatamente di raggiungerla a nuoto. Quando arrivò sfiancato alla pala del remo non riuscì a far presa sul legno scivoloso e in un attimo fu nuovamente lontano. Furono momenti di assoluto panico. Provarono a lanciare un giubbotto di salvataggio ma il vento contrario non gli faceva fare che pochi metri, e quando stavano per mettere a mare il gommone, pur con poche speranze, Knut Watzinger si tuffò imbracciando un giubbotto collegato a una lunga cima, raggiunse Herman che nuotava verso di lui e l’equipaggio riuscì a recuperare entrambi.

A bordo i collegamenti radio, mantenuti con attrezzature un po’ antiquate alimentate da qualche batteria e da un generatore a manovella, erano saltuari, ma il punto nave veniva preso ogni giorno con il sestante e il buon andamento della navigazione dava fiducia a tutto l’equipaggio. Per quanto possa sembrar strano, a bordo non si annoiava mai nessuno. C’era sempre qualcosa da fare: dal controllare la tenuta della struttura sia sopra sia sotto l’acqua, al fare piccole riparazioni alla vela e alle scotte; dal filmare i vari aspetti della navigazione a tenere il diario di bordo; dall’analizzare la situazione meteo al tentare contatti radio; dal cucinare al timonare, al provvedere pescando ad alimentare la cambusa di bordo. L’unico forse ad annoiarsi un po’ era il pappagallo, anche perché parlando solo spagnolo non aveva molti interlocutori. Per l’equipaggio era però una compagnia gradita, spesso un simpatico diversivo, un amico diverso con cui giocare.
Quando durante una tempesta fu portato via da un’onda fu un lutto profondo che durò diversi giorni. E di tempeste, nella seconda parte del viaggio, il Kon-Tiki ne visse e ne sopravvisse diverse, dimostrando nello stupore generale come quella zattera, apparentemente così fragile e primitiva, galleggiando come un sughero poteva superare indenne anche le grandi onde oceaniche. Il tutto non certo senza aver messo a dura prova sia l’equipaggio, perennemente schiaffeggiato dalle onde, sia le strutture, che dopo ogni tempesta dovevano essere rimesse un po’ in ordine. Diverso fu poi il caso di tre gigantesche onde anomale che investirono dal nulla il Kon-Tiki durante una placida notte equatoriale: del tutto inaspettate, e per fortuna senza alcun seguito, lasciarono sgomento l’equipaggio perché di un fenomeno del genere non si era mai saputo nulla.
Nello scorrere dei giorni a bordo non mancavano comunque momenti di relax, dove chi si dedicava alla lettura, chi strimpellava la chitarra, e chi, dopo aver verificato che non ci fossero in giro pinne sospette, si concedeva un bel bagno ristoratore. All’alba del 30 luglio all’orizzonte, dopo 93 giorni di oceano, comparve l’ombra di un’isola, identificata come Puka-Puka, l’avamposto delle Tuamotou: peccato che le correnti la fecero scorrere a lato del Kon-Tiki senza possibilità di modificare la rotta.
Dopo altri tre giorni di isole ne apparvero due, Fangahina e Angatau secondo le carte, e qui sembrava che vento e corrente collaborassero per portare il Kon-Tiki dritto verso le spiagge dell’isola. Sembrava, appunto, perché le stesse isole e i loro reef creavano situazioni meteomarine molto instabili, e quando in piena notte e con l’aiuto degli indigeni locali sembrava che la zattera potesse imboccare la pass del reef e approdare a terra, vento e corrente invertirono la rotta e il Kon-Tiki si trovò nuovamente in alto mare. Che dopo 4300 miglia di oceano l’impresa non potesse essere portata a termine era veramente frustrante.
Ma un paio di giorni dopo il Kon-Tiki si ritrovò la rotta sbarrata da un immenso reef corallino che si estendeva per decine di chilometri. Il fatto che alle sua spalle si stagliasse una paradisiaca isola tropicale – Raroia – non mitigava una realtà che sembrava ineluttabile: quella di sfracellarsi sulla barriera sotto il peso delle lunghe onde oceaniche. Una realtà che i sei uomini di equipaggio si prepararono ad affrontare attrezzando la zattera, e loro stessi, per uno scontro che poteva costare la vita. Legando tutto ciò che poteva essere legato e trovando ciascuno una posizione di resistenza in grado di reggere la forza delle onde.
E quando il reef arrivò, quando il Kon-Tiki fu alzato e sballottato come un fuscello fra il rasoio dei coralli e il risucchio dei cavi d’onda, quando nessuno pensava di poter resistere alle onde che si abbattevano su quel tavolato di balsa e bambù, quando infine superato il reef il mare si addolcì, Thor e il suo equipaggio si ritrovarono all’interno di una meravigliosa laguna. Era il 7 agosto, il Kon-Tiki, appariva quasi come un relitto, avendo perso tutte le sovrastrutture…però galleggiava e il suo equipaggio era a terra sano e salvo. Dopo tutto il vecchio cannibale aveva detto il vero.

L’uomo che veniva dal freddo
Il viaggio del Kon-Tiki fu indubbiamente l’impresa più famosa di Thor Heyerdhal, tanto da valergli nel 1952 l’Oscar per il miglior documentario, ma non fu certo l’unica. Nato ad Oslo il 6 ottobre del 1914, questo straordinario personaggio fece anche lunghi studi sui moai dell’Isola di Pasqua, ripeté poi la traversata atlantica nel 1970 con una barca di papiro come quelle degli antichi Egizi e sette anni dopo, con una barca di giunchi costruita secondo le antiche tecniche mesopotamiche, discese il Tigri e navigò tutto l’Oceano Indiano fino alle Maldive. Avendo una penna felice scrisse numerosi libri e, dopo aver avventurosamente girato il mondo, scelse per la sua vecchiaia un paesino ligure, Colla Micheri, dove si spense nel 2002.
La Norvegia gli tributò funerali di stato e, nel 2011, gli rese omaggio varando una fregata della classe Nansen con il suo nome, mentre Oslo ha dedicato alle sue imprese il Kon-Tiki Museum.
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