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Storie di mare: Pirati dei Caraibi

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Libri, film, serial televisivi e persino fumetti hanno disegnato un’immagine dei pirati sicuramente affascinante ma lontana dalla realtà.
Soprattutto se si parla della cosiddetta età d’oro della pirateria, il cui palcoscenico, fra il XVI e XVII secolo, furono le isole dei Caraibi.

Qual è il primo e più antico mestiere del mondo? Risposta facile, banale, scontata, un po’ retorica e maschilista forse, e un po’ troppo di maniera anche se il primo riferimento sulla prostituzione appare già nel codice di Hammurabi (XVIII sec. A.C.).

Qual è stato il secondo? Intuibile e forse solo una forma un po’ più concreta del primo, nel senso che il commercio fin dal tempo del baratto (tu dare a me, io dare a te pelle di orso), che al tempo poteva essere indifferentemente di merci o di uomini, ovvero prostituzione ma anche schiavi, è stato comunque – strano a dirsi – strumento di unione, comunicazione e, inevitabilmente, progresso.

L’epopea della pirateria caribica ha generato molta letteratura, facendo nascere miti che non hanno riscontro nella realtà, come quello delle fantomatiche mappe del tesoro.

Ma se volessimo indagare più a fondo scopriremmo che anche il terzo più antico mestiere del mondo è strettamente legato ai primi due, perché forse non saremo ben documentati su cosa accadeva al tempo delle prime canoe, ma sappiamo per certo che la pirateria era già in grande spolvero al tempo delle più antiche civiltà mediterranee. E i pirati furono una seria spina nel fianco anche per l’Antica Roma, che alla fine, per liberarsi di questa piaga, nel 67 a.C. incaricò il suo più valente generale, Pompeo, dandogli potere dittatoriale e mettendogli a disposizione risorse straordinarie.

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Per portare a termine la missione e ripulire il Mediterraneo, ridando slancio al commercio marittimo, a Pompeo ci vollero tre anni, ma il consuntivo fu impressionante: 400 navi catturate, 1300 distrutte, incendiate tutte le basi e le fortificazioni costiere, 20.000 pirati fatti prigionieri e – fu calcolato – almeno 10.000 annegati. Il Mediterraneo tornò un mare tranquillo… ma non per molto.

La pirateria riprese rapidamente vigore sia nel Mare Nostrum, unendosi poi a spinte di carattere religioso sotto la mezzaluna islamica, sia lungo le coste del Nord Europa dove scorrazzavano pirati vichinghi e normanni rimasti famosi per le loro crudeltà. Cosa che di certo non mancò neppure ai pirati barbareschi, che divennero un serio problema dopo l’epoca delle crociate, fra i quali non mancarono personaggi di spicco: uno su tutti, Kheyr-ed-din, più noto come Barbarossa, ma anche il suo naturale successore, Dragut, non a caso soprannominato la “spada snudata dell’Islam”. Per arrivare a quell’immagine romantica e suggestiva che oggi suscita la figura del pirata (quello con la spada e la bandana e non certo quelli col kalashnikov che infestano ancor oggi l’Oceano Indiano) ci volle però altro, e la colpa in un modo o nell’altro fu tutta di Cristoforo Colombo.

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Un altro mito più immaginario che reale: la sepoltura del tesoro in isole sperdute.

Un’epoca d’oro

Toccando terra dopo due mesi di navigazione, Colombo pensò di essere approdato in India – un gigantesco errore geografico giustificato solo dalla rusticità degli strumenti di navigazione dell’epoca – ma non poteva immaginare di aver aperto le porte a una gigantesca corsa all’oro e affini (argento, pietre preziose, tabacco, zucchero e via dicendo) e, conseguentemente, a una particolare pirateria che trovò proprio nella struttura geografica dei Caraibi le condizioni ideali per il suo sviluppo.

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Un’immagine di Edward Teach, alias Barbanera.

Facciamo una breve premessa per ricordare che, con il trattato di Tordesillas (2 luglio 1494), siglato dallo stesso papa Alessandro VI, alias Rodrigo Borgia, e poi convalidato da Giulio II nel 1506, era stata tracciata una linea di demarcazione che suddivideva lungo un meridiano gli oceani del mondo fra le due superpotenze dell’epoca. “Tutto ciò che si trovava a oriente del meridiano passante 370 leghe a Ovest delle Isole di Capo Verde…” andava sotto il controllo portoghese, tutte le terre a occidente toccavano invece alla Spagna, che da questo trattato era fortemente favorita.

Gli Spagnoli ci misero infatti poco a capire che quelle isole scoperte da Colombo erano la porta d’ingresso a straordinarie ricchezze e ci misero altrettanto poco a imporre la propria bandiera e a organizzare una rete di commercio marittimo in continua spola fra le due sponde dell’Atlantico, senza peraltro escludere le coste del Pacifico, dove, doppiato Capo Horn, risalivano con facilità fino a Panama.

Mai esca poteva essere più succulenta e i pirati ci si buttarono a picco dando inizio a quella che a tutt’oggi viene considerata come l’”epoca d’oro della pirateria”, che si basava su una serie di condizioni favorevoli.

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Le ricchezze conquistate, che nel caso dei corsari andavano in parte ai regnanti, furono enormi.

La prima era indubbiamente costituita dalle grandi ricchezze che partivano dalle coste caribiche con le navi commerciali dirette in Spagna, le quali, prima di affrontare l’oceano, dovevano attraversare i tanti arcipelaghi del centro America. La seconda era data proprio dalla conformazione geografica della zona, che offriva mille rifugi sicuri alle veloci e maneggevoli navi dei pirati e ottime basi di lancio per attaccare i lenti vascelli commerciali appesantiti dal carico.

Va poi considerato che, per quanto gli Spagnoli tentassero di mantenere il dominio dei Caraibi, non ci volle molto perché sulle isole arrivassero altre potenze fortemente interessate al business, Francesi e Olandesi, in primis, poi soprattutto gli Inglesi che vantavano grandi tradizioni marinare e che fornirono i più importanti personaggi della pirateria caribica.

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La “vita breve ma intensa” dei pirati metteva ben in conto ciò che li aspettava in caso di cattura: l’impiccagione, a volte in loco, a volte altrove.

Cosa che fu anche conseguenza della fine della guerra di successione spagnola e della smobilitazione della Royal Navy, il cui personale calò in soli due anni da quasi 50.000 uomini a 13.645, lasciando senza lavoro migliaia di marinai che trovarono presto soluzioni alle loro problematiche. La vita dei pirati o corsari che fossero, offriva infatti avventura, libertà e possibilità di arricchirsi e se il prezzo da pagare era una vita dura, anche se non tanto quanto quella che si faceva nella Royal Navy, serviva pure un certo disincanto poiché le possibilità di lasciarci la pelle, in battaglia o appesi a una forca, erano elevate.

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Ricchissime di tartarughe, cibo ricercato dai pirati, le isole dei Caraibi ne hanno spesso ereditato il nome. Da non confondere però l’isola di Tortuga, base dei Fratelli della Costa, e La Tortuga, al largo delle coste venezuelane.

Pirati o corsari?

Prima di addentrarci in una più approfondita disamina della pirateria, è però importante fare un preciso distinguo sui termini con cui identificarla. Nel lessico comune si tende infatti a fare di tutta l’erba un fascio, ovvero a mettere sullo stesso piano corsari, pirati, bucanieri e filibustieri, mentre fra questi termini esistono marcate differenze, soprattutto fra i primi due.

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Sul Tamigi i cadaveri venivano esposti a lungo, come monito, nell’Execution Dock.

I corsari infatti erano per così dire…dei pirati legalizzati, in quanto forti di una “lettera di corsa” con cui l’autorità affidava loro il compito di assalire e saccheggiare le navi nemiche, con il permesso di trattenere una parte del bottino. Erano in pratica una sorta di divisione della marina militare del Paese “a costo zero”, anzi con una possibilità di guadagno per gli stessi governanti. La differenza con i pirati veri e propri, che invece depredavano qualunque nave trattenendo l’intero bottino, era in realtà minima: entrambi, come vedremo, erano un mix di efferatezze e crudeltà, gesti di nobiltà e – cosa strana ma assolutamente veritiera – un esempio di democrazia nautica.

Discorso a parte per i bucanieri, termine che prima di confondersi nel lessico comune identificava un gruppo di cacciatori inglesi e francesi, piuttosto rustici, che gli Spagnoli avevano cacciato da Hispaniola (oggi Haiti e Repubblica Dominicana) e che si erano rifugiati sulle coste della vicina isola di Tortuga (da non confondersi con La Tortuga al largo delle coste venezuelane) per cacciare il bestiame abbandonato in libertà dagli Spagnoli. Sudici e malvestiti, sempre sporchi di sangue secco, dormivano sotto le stelle e usavano affumicare le loro prede su una graticola (boucan) per poi venderle alle navi di passaggio.

Questa strana colonia si arricchì presto di avventurieri, disertori, disperati di vario tipo e commercianti, cominciò ad armarsi, diede vita ai Fratelli della Costa e scoprì altrettanto rapidamente quanto fosse più facile arricchirsi depredando le navi di passaggio. Uno dei più celebri bucanieri fu Henry Morgan che, per le sue imprese contro gli Spagnoli, divenne un beniamino del re d’Inghilterra e, dopo essersi trasferito in Giamaica, dove fu anche vice governatore e latifondista, morì nel proprio letto ricco, sereno e con tutti gli onori governativi.

A rendere affascinante per quanto un po’ irrealistica la figura dei pirati dei Caraibi hanno contribuito i racconti affidati all’immaginazione popolare e debitamente arricchiti a seconda delle convenienze, ma soprattutto opere letterarie come quella di Robert Louis Stevenson che, con la sua Isola del Tesoro, libro di grande successo anche ai suoi tempi e che in seguito vantò oltre cinquanta versioni cinematografiche, regalò uno stereotipo del pirata che non aveva però molto riscontro nella realtà. Nessun pirata, salvo il caso particolare di William Kidd, ha mai sepolto tesori in qualche isola sperduta, né portava pappagalli sulla spalla, mentre se i “quindici uomini sulla cassa del morto” possono essere un’acrobazia letteraria, la nota bottiglia di rum – o meglio le decine di bottiglie – erano una realtà assolutamente reale, anzi sottovalutata: l’ubriachezza, forse come unica fuga onirica da una vita dura e faticosa, era una costante sulle navi dei pirati che, una volta a terra, sperperavano gran parte del bottino in donne e liquori.

Da notare che se Stevenson, grazie alle sue esperienze, aveva comunque una buona infarinatura di navigazione, Emilio Salgari, al quale si deve un’altra condizionante raffigurazione allegorica dei pirati, non fece che pochi passi fuori dalla sua Torino, benchè coltivasse l’ambizione di diventare un capitano di marina. Il suo più reale legame con i pirati – è triste ricordarlo – furono le modalità del suo suicidio, conseguente a una forte depressione: il 25 aprile del 1911 si squarciò la gola e il ventre con un rasoio.

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Le ricchezze conquistate, che nel caso dei corsari andavano in parte ai regnanti, furono enormi.

Uno strano miscuglio

In realtà le ciurme piratesche contenevano un po’ di tutto, dai marinai in cerca di avventure a disadattati e disperati che a terra non avevano molte alternative. Gente per lo più di bassa classe sociale, anche se ci furono diverse eccezioni. Non mancavano criminali in fuga, nobiluomini decaduti e, probabilmente, anche prelati come Lancelot Blackburne, futuro arcivescovo di York. A bordo venivano accolti uomini di ogni colore e religione, pescando spesso anche fra gli equipaggi delle navi catturate (alcuni come cuochi e chirurghi erano in realtà obbligati ad arruolarsi), gente per lo più giovane e priva di legami familiari, ma sarebbe un errore pensare che questa sorta di brodaglia umana rendesse la vita di bordo infernale e disordinata.

Una delle caratteristiche più singolari e interessanti della pirateria furono proprio le regole che la governavano e che erano ben chiare a chiunque si aggregasse alla ciurma, se non altro perchè gli veniva imposto di firmare un regolamento che era meglio non infrangere. Il “codice” di bordo era estremamente severo e preciso e chi non rispettava le regole poteva anche finire a mare o abbandonato su un’isola deserta con l’unica compagnia di un barilotto d’acqua, un pugno di tabacco, una pistola e un po’ di polvere da sparo. Non è chiaro se per difendersi o per suicidarsi. È quello – tanto per dire – che capitò ad Alexander Selkirk, dalle cui vicende Daniel Defoe trasse ispirazione per il suo Robinson Crusoe.

A bordo vigeva tuttavia una sorta di democrazia in cui il comandante aveva un compito prioritario durante gli attacchi, le fughe e, ovviamente, la conduzione della nave, ma per il resto condivideva la stessa vita dei marinai che, laddove il suo comportamento non fosse stato gradito, potevano tranquillamente estrometterlo dall’incarico, eventualmente buttandolo a mare. Lo stesso bottino veniva equamente suddiviso fra l’equipaggio, con una ripartizione che teneva conto dei vari ruoli, fra cui erano ovviamente privilegiati quello del comandante e del quartiermastro (che era una sorta di commissario di bordo), ma senza eccessi. E perfino le decisioni su cosa, dove, quando attaccare e come depredare una nave erano prese di comune accordo.

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Carichi di merci preziose, i galeoni spagnoli erano spesso lenti e poco manovrabili, dunque facile preda dei pirati.

Fra gli aspetti meno nobili da assegnare alla pirateria (ma va detto che all’epoca certi atteggiamenti erano propri anche agli eserciti regolari), c’era l’inarrestabile frenesia con cui saccheggiavano non solo le navi ma anche le città costiere su cui spesso infierivano: oltre a depredarle di ogni ricchezza, stupri, torture e uccisioni di vario tipo erano all’ordine del giorno. Anzi, in merito alle torture, quasi sempre scelte dal comandante e mirate soprattutto a far confessare alle vittime il luogo dove era nascosto l’oro, c’è da dire che l’archivio di quelle in uso fra i pirati era da un lato fantasioso ma dall’altro assolutamente orrendo.

Il salto dalla passerella per finire in bocca agli squali, oltre ad essere al confronto un sistema da educande, in realtà visse solo nella fervida immaginazione di J.M. Barrie, il creatore di Peter Pan e di Capitan Uncino. Più serio il classico giro di chiglia, sempre molto gettonato, che non finiva sempre bene, in quanto dipendeva pure dallo stato della carena: ammesso che il malcapitato non affogasse prima, se questa – come voleva la normalità – era ricoperta di denti di cane, il poveretto tornava a bordo grattugiato come un parmigiano. Andava altrettanto male con il famoso gatto a nove code (una frusta con nove terminali arricchiti di nodi, ami e palle di moschetto), anche perché sulle profonde ferite inferte dalla fustigazione veniva in genere gettato un mix di acqua, sale e aceto.

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Per pulire la carena dei galeoni da incrostazioni e denti di cane (che rendevano fatale il famigerato “giro di chiglia”) le navi venivano talvolta spiaggiate.

L’arte della tortura

Volendo fare una rapida panoramica sull’orrido, potremmo ricordare Francois l’Olonnais, un francese che, considerato fra i bucanieri più feroci, per far confessare gli uomini catturati amava strappare il cuore di uno per farlo mangiare all’altro (per nemesi storica l’Olonese morì sulle coste del Golfo di Uraba, dove fu divorato da una tribù di cannibali). Il taglio di mani e piedi era un’altra prassi tutt’altro che insolita, così come l’appendere la vittima a un pennone calandolo periodicamente in mare, mentre nei casi più spiccioli il malcapitato veniva gettato sbrigativamente in mare legato a una palla di cannone, oppure legato all’ancora che veniva calata in profondità.

François l’Olonnais, considerato uno dei pirati più crudeli.

Nel caso non bastasse possiamo ricordare la pratica del “woolding”, in cui la vittima (citiamo dalle cronache dell’epoca), dopo averle lussato le braccia, veniva legata all’albero con una cima che circondava la testa, cima che veniva progressivamente stretta fino a quando gli occhi uscivano praticamente dalle orbite. Nel caso non fosse stato sufficiente a farla confessare, la si poteva poi appendere letteralmente …”per le palle”, mentre successivamente gli veniva tagliata prima una fetta di naso, poi un orecchio, poi l’altro. Singolare, tuttavia, che se in questi casi un membro dell’equipaggio avesse infierito ulteriormente sulla vittima, sarebbe stato severamente punito!

A parziale motivazione di queste nefandezze, va detto che i pirati consideravano giustamente che il diffondersi delle notizie circa la loro crudeltà avrebbe più facilmente convinto gli equipaggi delle navi abbordate ad arrendersi subito, consegnando il carico senza spargimento di sangue. Anche per questo le navi degli assalitori, che spesso si avvicinavano issando una bandiera amica, a un certo punto cambiavano vessillo e innalzavano il Jolly Roger, la nota bandiera pirata. A questo punto, se la nave assalita si arrendeva e collaborava, bene. Altrimenti veniva issata una bandiera rossa, che significava lotta senza quartiere, ovvero fino a morte certa.

Non dimentichiamo poi che, oltre al potere dissuasivo della fama piratesca di torturatori folli, possiamo facilmente supporre l’effetto terrorizzante della sola vista di quella massa di uomini dall’aspetto selvaggio, armati di spade, pistole, moschetti, che urlavano e imprecavano come ossessi, per giunta spesso sostenuti da una “musica” ossessiva (nell’equipaggio dei pirati erano spesso presenti dei musicisti). Il noto pirata Barbanera, per dire, si infilava delle micce fumanti sotto il cappello per apparire una sorta di demonio appena uscito dall’inferno.
Questo sempre dopo aver cannoneggiato la nave quanto bastava a far capire chi comandava. Non di più, innanzi tutto perché mandare a fondo la nave con il suo carico non conveniva a nessuno; poi anche perchè, se la nave attaccata lo meritava, i pirati erano pronti a impossessarsene, issare il Jolly Roger e farne la nuova unità della loro flotta.

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Vita breve ma intensa

Entriamo così in un capitolo interessante, ovvero quello delle navi della pirateria. Se è vero che spesso certi imponenti vascelli a due o tre alberi venivano catturati e adattati rinforzando la cannoneria e le strutture di coperta, è altrettanto vero che le imbarcazioni d’assalto utilizzate dai pirati erano spesso agili velieri non più lunghi di 13-14 metri, molto più maneggevoli e con un pescaggio ridotto che consentiva loro di addentrarsi in sicurezza nei bassifondali delle isole. Grandi o piccole che fossero, queste navi avevano sempre equipaggi molto numerosi e non è difficile immaginare quali fossero le condizioni di vita a bordo, sia dal punto di vista igienico sia da quello del comfort.

Costrette a restare a lungo in mare, le navi dei pirati spesso scarseggiavano di viveri e acqua; altrettanto spesso, gallette rafferme e ammuffite erano l’unico cibo disponibile quando non ci si poteva approvvigionare di pesci o tartarughe (ne furono uccise a migliaia). Casi di dissenteria e scorbuto erano all’ordine del giorno, le ferite da combattimento, spesso gravi, venivano curate in maniera molto approssimativa dal medico di bordo. Poi, naturalmente, c’era da mettere in conto la possibilità di naufragare nel corso di una tempesta. Volendo potremmo anche aggiungere che la cronica mancanza di donne a bordo favoriva un tipo di omosessualità forzata della quale, spesso, facevano le spese giovani mozzi dissenzienti. Poca meraviglia che la conquista di una nave o la scorribanda in un villaggio costiero fossero quindi un’occasione di festa: come dire vino, rum, prostitute, eventualmente stupri, rapine e via dicendo.

Del resto “una vita breve, ma intensa”, era il motto ispiratore di questa gentaglia, consapevole di poter morire da un momento all’altro. E lo fu ancor più quando nei primi decenni del ‘700, esasperati dai continui attacchi da parte dei pirati, molti Paesi – con l’Inghilterra in testa – decisero di unirsi e porre fine alla storia. In un primo tempo fu offerta una sorta di amnistia che già ridusse notevolmente i ranghi della pirateria, poi fu guerra senza quartiere: la Royal Navy fu rafforzata e contro i suoi potenti vascelli da guerra armati a volte con oltre cento cannoni, l’abilità dei pirati poco potè fare.

Il destino di quando venivano catturati era pressoché univoco e dai patiboli posti lungo il Tamigi, dove fu eretto il famoso “Execution Dock”, cominciarono a penzolare decine di cadaveri, che spesso venivano ricoperti di pece per poterli conservarli a lungo in “bella” mostra. Si è calcolato che, tra il 1716 e il 1726, più di 500 pirati vennero giustiziati, tutti per impiccagione. Finirono così molti grandi nomi della pirateria, come quelli di William Kidd, Charles Vane, John Rackam alias Calico Jack. Quest’ultimo, peraltro – lo ricordiamo senza entrare troppo nei dettagli – era legato a due famose piratesse: Mary Read e Anne Bonney, che vissero la loro avventura vestite da uomo e furono catturate con lui, ma che non finirono sulla forca essendosi dichiarate entrambe…incinte.

Il fatto che furono credute e che la pena fu sospesa senza ulteriori esami dimostra che le donne hanno sempre una marcia in più: in ogni caso Mary morì in prigione vittima di una violenta febbre, mentre la fine di Anne è sempre rimasta un mistero.<p style=”text-align: center;”></p>

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