Sicurezza: “normativa e dotazioni da rivedere”.
La tecnologia corre e le abitudini dei diportisti cambiano, ma le norme, le procedure e le attrezzature restano indietro. Perplessità sulle omologazioni e sui controlli. Ne parliamo con l’autore di “Mai più Mayday” e “La zattera di salvataggio”.
L’articolo intitolato “Sopravvivenza: 30 ore in una zattera”, firmato dal nostro Nico Caponetto e pubblicato sul numero di gennaio di Nautica, ha – come sospettavamo e, francamente, speravamo – fatto parecchio rumore, tanto tra gli operatori del settore quanto tra i diportisti.
In sostanza, il fatto che il mezzo da noi utilizzato per questo impegnativo long-test sia risultato non all’altezza della situazione, obbligandoci a interrompere la prova allo scadere delle 30 ore, invece delle 48 previste, ha in qualche modo fatto passare in secondo piano l’esperienza umana vissuta dai tre naufraghi volontari e posto in evidenza una serie di problemi che, invece, francamente, non ci aspettavamo.

Li riproponiamo sinteticamente, in ordine di apparizione: subito dopo il lancio, la mancata apertura della zattera nonostante i ripetuti “strappi” al cavo di collegamento (cosa poi risolta, ma mediante un intervento esterno); dopo l’imbarco dei tre tester, l’allagamento per infiltrazione di acqua di mare attraverso una scollatura tra fondo e tubolare inferiore; l’acqua della dotazione di sopravvivenza decisamente sgradevole (pur essendo risultata potabile ai successivi esami di laboratorio); le tute termiche inutilizzabili a causa dell’auto-agglomerazione del materiale con il quale sono state confezionate; soprattutto, il copioso ingresso di acqua piovana attraverso il tessuto del tendalino durante il forte temporale della seconda notte.

Di fronte a questo disastro (difficile trovare una definizione diversa), è perfettamente comprensibile che, come prima cosa, i lettori ci abbiano chiesto conferma del fatto che la zattera – come da noi correttamente dichiarato – appartenesse davvero a una fascia di qualità elevata, che fosse omologata e in corso di validità. E che poi abbiano manifestato quel sentimento di incredulità e preoccupazione che, inevitabilmente, si è trasformato in un’ombra di sospetto estesa a tutti quei dispositivi che rientrano nella categoria delle dotazioni di sicurezza.

A questo punto, recuperata la necessaria freddezza, non potevamo sottrarci alla necessità di fare una profonda riflessione su un tema così fondamentale con l’aiuto di quello stesso esperto che, con la sua struttura, lo scorso mese di ottobre, ci ha messo nelle condizioni di poter svolgere quel prezioso long-test.

Milanese d’origine, Ezio Grillo viene iscritto ad appena sei anni al suo primo corso di vela presso il Circolo Nautico di Chiavari. A 12 anni riceve in regalo un Flying Junior. Poco più che ventenne, inizia la sua attività di skipper professionista e presto collabora con l’agenzia di charter Albatross, che lo mette nelle condizioni di organizzare crociere anche al di fuori del Mediterraneo, sperimentando nuovi percorsi ai Caraibi, nel Nord del Venezuela, in Madagascar, in Malesia, in Thailandia, fino all’Australia.

Dunque, non solo perfeziona l’arte di navigare, ma impara anche a conoscere capillarmente le barche, tanto da essere in grado di ripararle, migliorarle, tenerle in piena efficienza in aree del mondo del tutto prive di assistenza tecnica. Soprattutto impara a sviluppare un rigido approccio alla prevenzione di emergenze e infortuni a bordo, cosa che nel 2006 lo porta ad aprire a Lavagna la F&B Yachting, azienda che si occupa della distribuzione e vendita di accessori ed equipaggiamenti nautici innovativi, specificamente orientati alla sicurezza in mare.
Nel 2020 pubblica per il Frangente il fortunato manuale “Mai più MAYDAY – Equipaggiamenti, soluzioni e consigli per la massima sicurezza a bordo” e nel dicembre 2021, sempre per lo stesso editore, consegna alle stampe “La Zattera di Salvataggio per le barche da diporto – Tutto quello che bisogna sapere per un uso consapevole”.

Grillo, lei ha avuto un ruolo fondamentale nel test di 30 ore che abbiamo svolto su una zattera, al largo di Sestri Levante. Quali considerazioni ne ha tratto?
L’esperienza è stata sicuramente illuminante, in quanto, nonostante sia stata usata una delle zattere migliori fra quelle omologate in Italia, ci sono stati gravi problemi tecnici. Il più importante e significativo, quello del trafilaggio di acqua piovana attraverso la cappa di protezione. Ebbene, subito dopo il test, abbiamo appurato che il tessuto di cui essa è costituita è regolarmente omologato, cioè, quantomeno sulla carta, rispetta le specifiche richieste in termini di resistenza all’acqua.
Non è molto confortante. I motivi di questo malfunzionamento?
Due sono le possibilità: se durante il test abbiamo superato le condizioni meteo stabilite come limite operativo del tessuto, ne ricaviamo che lo standard richiesto non garantisce l’impermeabilità in condizioni di pioggia battente con vento di circa 30 nodi, cioè quelle che abbiamo avuto nel corso della seconda notte; se non le abbiamo superate, significa che il tessuto non rispettava gli standard minimi dell’omologazione. In questo secondo caso, il produttore del tessuto – e non quello della zattera – non ha testato correttamente il materiale prima di fornirlo.
Restiamo per un momento agli standard minimi richiesti nel mondo del diporto. Chi li stabilisce? E secondo quali criteri?
Questi standard minimi vengono oggi definiti dalla Comunità Europea e divulgati attraverso direttive che ogni Governo deve tradurre in legge. Vengono stabiliti tenendo conto di diversi aspetti: sicuramente la sicurezza, ma anche – che so – il peso, la resistenza ai raggi UV, i carichi di rottura, la reperibilità delle materie prime e, non ultimo – attenzione – il costo: non possono essere resi obbligatori degli equipaggiamenti che sul mercato abbiano un prezzo astronomico.
Trattandosi quindi di un compromesso tra vari fattori, diventa davvero difficile capire quale sia la reale affidabilità di un dispositivo di sicurezza.
Esatto. Ma anche per un altro motivo: trattandosi appunto di sistemi di emergenza (non a caso, la stragrande maggioranza delle zattere invecchia senza essere mai usata), sfuggono a quella stessa esperienza quotidiana che, per esempio, permette al diportista di dare un feedback al costruttore del suo tender o del suo motore fuoribordo, cosa che consente alle relative aziende di migliorare costantemente i loro prodotti.
Si può dire quindi che le dotazioni di sicurezza non sono in linea con il progresso tecnologico?
Ahimè, sì. La mia esperienza professionale di skipper, di divulgatore tecnico e di distributore di questo genere di equipaggiamenti mi suggerisce, ormai da tanti anni, che particolarmente in Italia, per quanto riguarda i dispositivi prescritti dalla legge, siamo rimasti molto indietro sia rispetto all’evoluzione tecnologica sia rispetto alle abitudini e agli usi dei diportisti.

Ci faccia qualche esempio.
Il primo che mi viene in mente: la legge prescrive che, per l’emergenza dell’Uomo in Mare dobbiamo tenere a bordo “pronti all’uso”, a portata di mano e vicino all’acqua, 30 metri di cima galleggiante legata a un’estremità alla barca e all’altra a un salvagente anulare provvisto di boetta luminosa. Innanzi tutto, questo salvagente offre una spinta decisamente scarsa, soprattutto se deve tenere a galla una persona in panico, ancor più se vestita. Ci sono poi delle “manovre di legge” per il recupero del malcapitato che sono quelle che vengono spiegate quando facciamo la patente nautica. Ebbene, sfido chiunque, sotto vela e con equipaggio ridotto o non addestrato (situazione più che consueta), a eseguire con successo una di quelle manovre, non dico con onda formata ma anche solo con un po’ di vento. Per non parlare dell’eventualità che tutto questo avvenga di notte, con quella boetta luminosa che, a causa della sua scarsa elevazione, sparisce alla vista tra un’onda e l’altra. Senza contare – e questo lo considero sconcertante – che queste istruzioni non ci dicono come e con l’aiuto di che cosa riportare a bordo il naufrago.

C’è già qualcosa di meglio?
C’è qualcosa di molto meglio, ma purtroppo non sostituisce la dotazione prescritta.
Altri oggetti un po’ misteriosi agli occhi del diportista medio sono i fuochi di segnalazione: quasi sempre mai provati, talvolta non funzionanti, non facili da smaltire dopo la scadenza.
Già, i segnali di emergenza a mano pirotecnici. Parliamo di fiamme ad altissima temperatura pericolose di per sé, mentre oggi esistono potenti segnali a mano d’emergenza senza fiamma, che, utilizzando la più avanzata tecnologia a LED, offrono solo vantaggi.

Quali?
Innanzi tutto, come detto, non generano fiamma, perciò nessun rischio di ustioni e di innesco d’incendi; generano un potente segnale luminoso per circa 6 ore, laddove i fuochi durano circa 30 secondi; si possono usare più volte, accendendoli e spegnendoli come una normale torcia elettrica; per questo motivo, in teoria, potrebbe bastarne anche uno solo a bordo, mentre i segnali pirotecnici devono essere invece raccolti in un kit che permetta di lanciare più segnalazioni; infine, non hanno scadenza, poiché per tenerli in perfetta efficienza basta cambiare regolarmente le pile interne che sono di tipo commerciale.

Tutti vantaggi, tranne quello di essere ammessi per legge.
Esattamente. E questo nonostante il fatto che questi tipi di segnali siano stati progettati secondo i requisiti SOLAS (Safety Of Life At Sea, convenzione internazionale volta a tutelare la salvaguardia della vita umana nella navigazione mercantile – ndr) che sono più severi rispetto a quelli che riguardano la navigazione da diporto.
Da qualche tempo si parla addirittura di “razzi a led”, che in realtà sarebbero piccoli droni indipendenti.
Sì, la tecnologia e la ricerca nel campo della sicurezza sono in rapida evoluzione. Sarebbe il caso di stare al passo.

Comunque, l’armatore ha sempre la possibilità di integrare ciò che è prescritto per legge con ciò che di più avanzato la tecnologia gli offre.
Di fronte all’obsolescenza dei dispositivi obbligatori, è certamente una cosa fortemente raccomandabile. Resta il fatto che sarebbe più utile e giusto offrire all’armatore la possibilità di crearsi, volendo, un sistema di dotazioni “regolamentare” basato esclusivamente sulle nuove tecnologie.
Insomma, quantomeno in tema di dotazioni, lei auspicherebbe un approccio di tipo anglosassone.
Sono certamente più favorevole alla piena responsabilizzazione del comandante, confidando sulla sua competenza. In caso di incidente, è il giudice a stabilire se egli aveva a bordo tutti gli equipaggiamenti necessari a fronteggiare l’emergenza. Mi piace molto meno l’approccio nostrano, tendente invece a deresponsabilizzare il comandante nelle sue scelte, in quanto prevede che sia la legge a stabilire che cosa debba avere a bordo. E i limiti stanno proprio in questa pretesa, poiché si tratta di dotazioni spesso obsolete, per i motivi che abbiamo già detto, ma in alcuni casi anche di prescrizioni incomplete.
Incomplete in che senso?
Guardi, basta solo pensare ai vari componenti del sistema di ancoraggio, che non è considerato una dotazione di sicurezza: nessun accenno ai calumi in catena o misti tessile, ai cardini di connessione – le cosiddette girelle – e, soprattutto, alle ancore. In commercio se ne trovano di tutti i tipi: copie di copie di ancore famose; ancore che sono frutto di fantasiosi designer palesemente senza esperienza specifica; ancore a scomparsa che diventano pezzi dello scafo o disegnate per entrare in particolari musoni o delfiniere. Tutte perfettamente ammesse in quanto, per il diporto, non esiste una precisa indicazione per questo fondamentale componente dell’equipaggiamento. Non è una carenza grave?<p style=”text-align: center;”></p>


