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Cucina a bordo: aggiungi un pesce a tavola

pesce al ristorante

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È fra i protagonisti delle tavole natalizie e non solo. Apprezzato da chi ama navigare anche perché in fondo porta un soffio di mare, il pesce è un alimento prezioso che va però conosciuto per indirizzare al meglio le proprie scelte. Senza dimenticare i problemi di impatto ambientale ai quali certamente non sfugge.

pesci
Pesci e molluschi ben allineati sul tavolo di un ristorante o sul banco della pescheria sono indubbiamente un’attrazione a cui è facile cedere. I pescatori più in gamba preferiscono però servirsi direttamente in mare.

pesca

Se la gola non fosse quella subdola tentazione di fronte alla quale è così dolce cedere, forse alla luce delle minacce che riceviamo ogni giorno dai media faremmo bene a vivere d’aria. Tralasciando gli allarmi obesità, ma soprattutto tralasciando il Covid, fra microplastiche, OGM, polli “aviariati”, pesticidi che contaminano frutta e vegetali, anabolizzanti per mucche e maiali e via dicendo, essere ancora vivi sembra proprio un miracolo.

Dall’elenco appena fatto, però, e non a caso, manca una voce importante: il pesce. Per forza diranno molti, perché il pesce fa bene. Ma ne siamo poi così sicuri? A sentire quello che dicono scienziati, ricercatori, nutrizionisti o semplici e presunti esperti del settore, a ben vedere ci sarebbe poco da star tranquilli anche con tutto quello che proviene dal mare, che nell’immaginario popolare è sempre stato sinonimo di salute. Ma proviamo ad approfondire il discorso.

Molte considerazioni sui benefici del pesce nascono da tradizioni popolari tramandate nel tempo, come quella ben nota che il pesce fa bene perché contiene fosforo e quindi migliora la memoria. Peccato che non esista alcuna correlazione scientifica fra presenza di fosforo e capacità di memoria e peccato anche che il pesce contenga sicuramente una discreta quantità di fosforo, ma sicuramente meno di tanti altri alimenti. Anzi, in un’ipotetica classifica figurerebbe ai limiti della retrocessione, laddove invece ai vertici figurano presenze inaspettate come ad esempio i semi di zucca, i popolari “bruscolini”, le mandorle, i legumi o i classici fiocchi di cereali che spesso mangiamo a colazione.

Partendo dal portafoglio, una banale osservazione ci porterebbe a dire che il pesce fa bene a chi lo vende e male a chi lo compra, però chi come i pescatori sportivi il pesce se lo va a prendere direttamente dal fornitore, cioè il mare, può bypassare questo problema. Ma non altri, perché da un punto di vista nutrizionale la questione va vista in un contesto di attualità, dato che le condizioni dei nostri mari (e quindi dei pesci che li abitano) sono oggi ben diverse da quelle del tempo che fu, ovvero quello dei nostri nonni e ancor più dei nostri bisnonni. I maggiori fattori negativi nel consumo di pesce, infatti, riguardano oggi le contaminazioni chimiche – e non solo – dovute al progressivo inquinamento degli oceani, termine volutamente globale perché, anche se assai vituperato, il nostro Mediterraneo presenta uno stato di salute un po’ migliore rispetto ad altri mari. Le opinioni sono in ogni caso inevitabilmente varie e altrettanto inevitabilmente contrastanti. Senza arrivare agli estremismi dei vegani, che con tutto il rispetto a volte sconfinano nel favolistico, ci sono però dati di fatto difficilmente confutabili.

Salmone e tonno rosso sono pesci ricercatissimi per varie specialità gastronomiche, sushi in primis. Il tonno può anche essere lavorato artigianalmente e messo sott’olio, con una preparazione un po’ laboriosa ma che, se ben fatta, ne fa una vera eccellenza.

Mutazioni… “cromatiche”

Se prendiamo alcune delle specie che sono ambizione massima dei pescatori ricreativi, nonchè di alto valore commerciale come ad esempio il tonno e il pesce spada, premesso che le leggi ne consentono oggi un prelievo limitato, i problemi sono di vario tipo. Se, come spesso capita anche ai pescatori di canna, il tonno (e ancor più il pesce spada) dobbiamo andarcelo a comprare in pescheria, sorge un primo problema perché l’etichettatura pur essendo obbligatoria non è sempre presente o veritiera, e allora vai a sapere di che tonno stiamo parlando e da dove arriva.

E quel bel colore rosso acceso così invogliante? Viene da citare la sottile ironia di un comandante della Guardia Costiera (che ogni anno compie sui mercati del pesce migliaia di controlli), il quale ha detto: “A volte sui banchi del mercato avvengono miracolose mutazioni genetiche!”. Del resto un’inchiesta televisiva di qualche tempo fa spiegò bene come certe invoglianti sfumature cromatiche del pesce in vetrina – discorso che riguarda anche il salmone – siano spesso frutto di coloranti artificiali, anche se non dannosi per la salute, e singolare a proposito è l’aneddoto più volte riportato di un tossicologo, acclarato esperto del settore, che dopo aver comprato in pescheria un bel trancio di tonno fresco e averlo posato sul tavolo della cucina, appena spenta la luce vide il tonno diventare fluorescente.

pesca tonno

Non è chiaro se queste pennellate di make-up ittico siano dannose o meno per la salute. Sicuramente dannoso è invece il contenuto di mercurio, uno dei peggiori inquinanti dei nostri mari, che si accumula inevitabilmente nei predatori di vertice come appunto tonni, pesci spada…e squali. Già, squali come la verdesca e lo smeriglio, a volte venduti come tali, ma più spesso contrabbandati come pesce spada.

Per la cronaca, a livello di mercurio, il pesce spada guida la classifica con 976 ppm (parti per milione), seguito dal tonno rosso con 639 ppm, mentre anche specie più piccole e notoriamente salutari per altri aspetti, come lo sgombro, non ne sono esenti (454 ppm). Discorso che di certo non vieta il consumo di questi che sono fra i più apprezzati pesci del nostro mare, ma ne suggerisce un uso moderato.

Tonno
Tonno sott’olio

Se poi volessimo ancor più approfondire il discorso tonno e affini, ricordiamoci dell’anisakis, termine esotico e intrigante dietro il quale si nasconde uno schifoso verme parassita che vive nell’intestino dei grossi predatori (ma non solo), dove arriva dopo il lungo percorso di una catena alimentare che nasce dai grandi cetacei. L’anisakis può creare seri problemi di salute, ma per fortuna può essere eliminato con facilità. In primis perché vivendo nell’intestino del pesce se questo viene eviscerato appena catturato si elimina il problema.

Se l’operazione tarda e si da il tempo al parassita di migrare dalle viscere ai muscoli dell’animale, ricordiamoci che si tratta comunque di un animaletto ben visibile ad occhio nudo essendo lungo qualche centimetro. Infine, a scanso equivoci, è bene sapere che l’anisakis si può eliminare ricorrendo all’abbattitura (24 ore in freezer a -20°), nel caso foste inguaribili adoratori di carpacci e sushi, o più semplicemente rinunciando al crudo a favore di una più sana cottura. Per la cronaca vale la pena ricordare che per i ristoranti che vogliono mettere nel menù pesce crudo, incluso ovviamente sushi e sashimi, l’abbattitura è obbligatoria per legge fin dal 1992. D’altro canto, la salute (86{2e3577d2bd6aebaa150c85c33fcd353783f1aa6c690283591e00ef60b3336fc8}) e la sostenibilità (70{2e3577d2bd6aebaa150c85c33fcd353783f1aa6c690283591e00ef60b3336fc8}), come acclarato da una recente inchiesta dello Studio Deloitte, sono i parametri a cui gli italiani fanno maggior attenzione nei propri acquisti alimentari.

Occhio alla pinna

Meglio allora tonno in scatola o magari il pesce d’allevamento? Dipende. Intanto da una parte il tonno non può purtroppo essere allevato, ma solo messo all’ingrasso nelle famigerate “gabbie”, mentre al di là degli ovvi limiti organolettici creati dal processo di lavorazione, quello che viene genericamente venduto per tonno in scatola a ben vedere (in senso letterale dato che l’etichetta lo riporta, ma bisogna andarselo a leggere con gli occhiali) non sempre è pregiato tonno rosso, ma assai più spesso pinna gialla (Thunnus albacares, specie che non esiste in Mediterraneo) se non addirittura bonito o alalunga. Il che non toglie che sia comunque genericamente parlando tonno, e comunque un pesce ugualmente appetitoso. Basta solo esserne consapevoli. Ovviamente occhio poi a non generalizzare, perché esiste anche dell’ottimo tonno rosso in scatola e, a titolo di curiosità, per rimanere sul tema, ricordiamo che l’Italia ne è uno dei più forti consumatori.

Quanto ai più classici pesci d’allevamento, in particolare spigole, saraghi e orate, va detto che esistono differenze sostanziali a seconda della qualità dell’acquacoltura di provenienza (tipo di mangimi, integratori, posizione dell’impianto ecc.), che incidono sul gusto e sulla salubrità della carne. Sul piano dei contenuti organolettici ricordiamo che il pesce selvatico è meno grasso, ma ha anche un minor contenuto di Omega 3 e, se questo può essere paradossalmente vero, di certo il pesce allevato perde sul piano del gusto.

Se è possibile che palati non avvezzi possano appaiare il sapore di un pesce acquistato sul banco della pescheria e apparentemente fresco a quello di un pesce allevato, chi conosce bene il gusto e la consistenza di un pesce mangiato poche ore dopo essere stato pescato (o anche prima: provate ad assaggiare una sfilettata di dentice appena uscito dall’acqua, dopo averlo messo sotto limone per una mezz’oretta) sa che stiamo parlando di due lingue differenti.

A parte le specie a noi più note fra quelle d’importazione, con l’eccezione del salmone (che è uno dei pesci d’allevamento più consumati, controllati e più ricchi del famoso Omega 3), senza voler fare ulteriore terrorismo alimentare, il fatto che il pangasio, tanto per fare un nome, provenga per la maggior parte dagli allevamenti posti nei fangosi e tutt’altro che salubri fiumi del Vietnam (sono pesci che rendono perché robusti e ad alto tasso di accrescimento) non fa certo piacere. Anche per specie di largo consumo e reclamizzati benefici alimentari, come ad esempio il merluzzo, bisogna vedere bene quale sia la sua provenienza.

Il Mar Baltico e molti mari del Nord, note zone preferenziali per la pesca di questo pesce, sono bacini ad alto tasso di inquinamento, senza contare che parliamo di una specie che negli anni è stata sfruttata oltre i limiti sopportabili dallo stock, tanto da costringere i governi a limitarne la cattura. Lo stesso salmone di provenienza nord europea, prevalentemente norvegese e scozzese, pur essendo un pesce sempre più apprezzato anche in Italia e di notevoli caratteristiche nutritive, è stato vittima nel recente passato di allevatori senza scrupoli. Celebre in proposito un documentario RAI in cui si mostravano le sofferenze e le deformità subite dai pesci negli allevamenti intensivi, che a volte riuniscono in una vasca di trenta metri fino a un milione di esemplari.

La maricoltura ha conosciuto in questi ultimi anni un notevole sviluppo, ma non tutti i produttori sono affidabili. Spigole, orate e saraghi sono i pesci più allevati, ma non bisogna dimenticare i cosiddetti pesci poveri come le sarde, che possono diventare una perfetta compagnia per gli spaghetti.

Ma il pesce fa bene

Se a questo punto avete deciso di mettere il pesce al bando dalla vostra tavola, occhio perché sarebbe un errore. Abbiamo detto tutto il peggio di questo prezioso alimento, ora parliamo del meglio. Il pesce è buono e costituisce un alimento decisamente importante per la nostra dieta. Il suo apporto di proteine, vitamine, sali minerali e acidi grassi essenziali (fra cui il già citato Omega 3), oltre all’alta digeribilità delle carni, lo rende un cibo preferenziale.

Il suo consumo è in costante aumento sia a livello mondiale sia in Italia, dove oggi se ne consumano annualmente circa 29 kg pro capite, che non è tuttavia cifra che possa giustificare la nostra mancata autosufficienza: siamo infatti costretti a importare da oltre 40 Paesi il 70{2e3577d2bd6aebaa150c85c33fcd353783f1aa6c690283591e00ef60b3336fc8} del pesce consumato. Il che, per una penisola che si sviluppa su 8000 km di coste, è un po’ paradossale. Ancora più assurdo è però pensare che su oltre 250 specie di pesci commestibili presenti nei nostri mari, l’interesse dei consumatori si concentri prevalentemente su una decina di esse, con varie conseguenze fra cui quella di concentrare pure le catture su pochi tipi di pesce, incidendo sullo stato di salute degli stock ittici.

Nonostante i nostri mari si siano notevolmente impoveriti negli ultimi decenni, la conformazione delle coste e il movimento delle correnti continuano a creare un habitat ideale per un’invidiabile varietà di specie come ricciole, scorfani e saraghi.

Senza contare che, nella ricerca di specie pregiate, i professionisti finiscono per ributtare in mare (ovviamente morto) come by-catch circa il 70{2e3577d2bd6aebaa150c85c33fcd353783f1aa6c690283591e00ef60b3336fc8} del pescato: una follia alla quale la Commissione Europea sta cercando di porre rimedio. Follia pari solo a quella, come capita spesso di vedere sui banchi delle pescherie, di mettere in vendita esemplari sotto taglia particolarmente richiesti dagli amanti delle fritture, o peggio ancora pesci, o meglio molluschi, severamente protetti dalla legge come nel caso dei datteri di mare.

In proposito sarà bene ricordare che se i pescatori di frodo, fra cui quelli che hanno massacrato i fondali del Golfo di Napoli, rischiano grosso, a rischiare pesanti sanzioni sono anche chi i datteri li serve e anche chi li consuma. C’è poi da dire due parole sui già citati gusti monodirezionali dei consumatori che, confinati nell’apprezzamento delle specie più pregiate, trascurano i cosiddetti “pesci poveri” come sgombri, sardine, tombarelli, sciabola, pesci serra e via dicendo.

Un errore dal punto di vista alimentare (sgombri e sardine, tanto per dire, e il pesce azzurro in genere, sono fra i pesci più ricchi di Omega 3, oltre che di iodio e ferro), ma anche ambientale perché così facendo si va ad incidere su quella biodiversità preziosa per l’ecosistema marino. Modificare i nostri gusti imparando ad apprezzare queste specie di sicuro farebbe bene al mare e, poiché l’offerta si basa sulla domanda, in questo modo potremmo influire anche sulle scelte dei professionisti modificandone il target e conseguentemente allentando la pressione sulle specie più stressate.

Sarago inverno

Congelato o surgelato?

Forse la prima cosa da chiarire è la differenza tra questi due termini spesso confusi. La congelazione è un sistema di conservazione degli alimenti che porta il prodotto, in questo caso il pesce, a temperature fra i -7° e -18° assicurandone la qualità per discreti periodi di tempo. Al momento della scongelazione, però, c’è il rischio di perdere una parte dei valori nutritivi e organolettici. Nella surgelazione, invece, il pesce viene portato subito dopo la cattura e in tempi brevissimi a -30° con procedimenti industriali non alla portata dei nostri freezer e poi mantenuto alla temperatura di -18° evitando il danneggiamento della struttura biologica e quindi mantenendo inalterato il sapore e i principi nutritivi.

Siugarelli
Pesci cosiddetti poveri come i sugarelli, la ricca vetrina di un ristorante, o la grande offerta dei surgelati: non c’è che l’imbarazzo della scelta per un alimento fra i più ricercati.

Questo, ovviamente, sempre che sia rispettata la catena del freddo, perché ricordiamo che un alimento scongelato non può essere ricongelato se non dopo cottura. E a questo proposito vanno tenuti presente anche i tempi intermedi fra spesa al market e trasporto a casa, oltre alla conservazione nel freezer casalingo. Anche il discorso sulla sicurezza ha il suo perché, dato che, proprio per la tipicità del procedimento, il pesce surgelato non solo non subisce alcuna degradazione o proliferazione batterica ma è anche attentamente controllato dal produttore.

Sottolineando che trovare pesce realmente fresco sui banchi delle pescherie non è sempre così facile e che parliamo di un prodotto di rapido deterioramento, va detto che il pesce surgelato, essendo privo di conservanti, mantiene una qualità sana e più che soddisfacente per lunghi periodi.

Senza contare che, ai fini della preparazione, un pesce generalmente già pulito (operazione che spesso avviene direttamente a bordo dei pescherecci) e pronto da mettere in pentola semplifica notevolmente la vita. Certo i maghi di canne e mulinelli, quelli abituati a mettere al forno dentici e orate poche ore dopo averli pescati, potranno storcere il naso, ma non tutti sono in grado di andarsi a prendere la cena in mare.

Il caso tonno rosso

Signore indiscusso dei mercati internazionali, il tonno rosso (Thunnus thynnus) è il protagonista di un business tanto incredibilmente ricco quanto incredibilmente assurdo. Celebri e incredibili sono le cifre pagate al Tsukiji di Tokyo, il più grande mercato ittico del mondo, per questo pesce che per i giapponesi è un vero e proprio oro alimentare. Tanto per capirci, ricordiamo il record di un tonno da 278 kg battuto all’asta per la bellezza di 2.700.000 dollari Usa e andato al re del sushi Kiyoshi Kimura.

Mercato Tokyo
Mercato di Tokyo

Come dire 9.700 euro al chilo, roba da far impallidire il più bianco dei tartufi. E non è certo un mistero che il 90{2e3577d2bd6aebaa150c85c33fcd353783f1aa6c690283591e00ef60b3336fc8} del tonno rosso pescato nei nostri mari parta pacco-espresso verso i mercati orientali, mentre in Italia, per paradosso, si consumano 161.000 tonnellate l’anno di tonno in scatola. Né è un mistero che senza l’azione protezionistica dell’ICCAT (International Commission for the Conservation of Atlantic Tunas ), che oltre dieci anni fa ha posto severi limiti di cattura per il tonno rosso, la specie – che aveva raggiunto un preoccupante deficit di popolazione – forse oggi sarebbe inclusa nella lista rossa di quelle in via d’estinzione.

Senza contare che le richieste del mercato spingono gli operatori verso metodi di cattura spesso altamente pericolosi per altre specie. Le FAD (Fish Aggregating Devices), ad esempio, così come i long- liners, palamiti di superficie lunghi a volte decine di chilometri che operano anche nei nostri mari, sono tecniche di pesca che possono catturare anche cetacei, tartarughe, mante, squali, forme giovanili di altre specie e via dicendo, ovvero specie spesso protette e non commerciabili.

Peraltro un mercato, quello del tonno rosso, in cui la potenza della domanda alimenta una pesca illegale che opera al di fuori di qualsiasi norma o quota ICCAT, creando un impressionante business da diversi miliardi di dollari.

Follie orientali

La crescente tropicalizzazione dei nostri mari ha già portato in Mediterraneo molte specie esotiche fra cui, sempre più diffuso nei bacini orientali, anche il pesce-palla. Questo simpatico pinnuto, noto per gonfiarsi appunto come una palla in caso di pericolo, ha una caratteristica assai meno simpatica: la sua carne, in particolare la pelle, il fegato e le ovaie, è infatti altamente tossica contenendo una sostanza, la tetrodotossina, che può essere mortale (viene considerata 13 volte più letale dell’arsenico) e contro la quale non si conoscono antidoti.

Anche se qualche esemplare è già comparso nei nostri mari, da noi il pericolo è in realtà inesistente.In compenso, in estremo oriente, ed in particolare in Giappone, il pesce-palla è una specialità tanto ricercata quanto costosa che prende il nome di “fugu”. Un piatto da brivido in tutti i sensi, perché solo una parte del pesce-palla altamente selezionata può essere commestibile e un errore nella preparazione può essere mortale. Per questo gli chef abilitati alla sua preparazione devono seguire un corso di vari anni e si prendono una tutt’altro che indifferente responsabilità. Del resto, per la sua qualità eccelsa, il fugu è un cibo riservato agli dei…o no? Forse no!

Chi ha avuto il coraggio di assaggiarlo lo descrive come una carne gommosa e piuttosto insipida e pare che ad essere apprezzato sia soprattutto il leggero formicolio che lascia sulle labbra, oltre all’intrigante senso di sfida al destino di cui a nostro parere si potrebbe fare a meno (idea che sarebbe sicuramente condivisa da quella cinquantina di giapponesi che ogni anno ci lasciano le penne).

Come a dire che i pesci palla sono più pericolosi degli squali. In compenso l’infarto può venire al momento di pagare il conto, dato che un piatto di fugu può costare anche più di 200 dollari. In ogni caso a passare nell’arco di una manciata di minuti dal formicolio a un più sensibile intorpidimento di lingua e labbra, primo sintomo dell’avvelenamento da tetrodotossina a cui seguono vomito, convulsioni, paralisi e a volte il trapasso a miglior vita, ci vuole poco. Quindi non resta che porre grande fiducia nello chef di turno per evitare di celebrare quella che potrebbe essere un’ultima cena, o meglio ancora osservare l’antica saggezza che recita: “pesci e buoi dei paesi tuoi!”.<p style=”text-align: center;”></p>

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