America’s Cup: cosa resta delle Formule 1 del mare
Analizziamo le analogie tra gli AC 75, le barche volanti dell’ultima edizione dell’America’s Cup, e la Formula 1: i foil come le gomme, lo scafo
come il telaio, le vele come il motore.

Ne hanno parlato i commentatori televisivi e i giornalisti per cercare di spiegare al grande pubblico queste strane e complicatissime macchine volanti che sfrecciavano a 40 nodi spinte da un vento di soli 15! Ne abbiamo parlato spesso anche noi su queste pagine, cercando di andare un po’ più nel dettaglio tecnico.

E spesso, anche noi abbiamo fatto ricorso a questa analogia sia per necessità di semplificazione sia perché, proprio come per la Formula Uno, resta difficile riuscire a immaginare come la tecnologia sviluppata per gli AC75 – le barche volanti – possa riguardare noi comuni mortali che con la barca semplicemente navighiamo … senza volare!
Prima di entrare nell’argomento, torniamo con la mente alle nottate passate davanti alla televisione quando aspettavamo di vedere queste barche, meravigliose e mostruose allo stesso tempo, volare sfiorando l’acqua piatta del Golfo di Hauraki: tutti, almeno in un momento, abbiamo pensato a cosa sarebbe accaduto se ci fosse stato un po’ di mare, qualche ondina più alta di 20 o 30 cm. Oppure siamo rimasti increduli quando le abbiamo viste cadere in acqua perché il vento era diminuito troppo e trasformarsi da cigni in brutti anatroccoli incapaci di volare.
Perché il volo è la loro essenza. A questo riguardo, come non ricordare il pathos con cui abbiamo seguito l’ottava regata della finale dell’America’s Cup, quando prima Te Rehutai – la barca neozelandese – e successivamente Luna Rossa Prada Pirelli a causa di un calo di vento si sono piantate sul campo di regata: sembrava che avessero bucato. Peccato che i kiwi abbiano ripreso la marcia in modo più rapido dei nostri eroi, rimontando un distacco notevole e infliggendone uno clamoroso al traguardo. I foil come i pneumatici? Non è una forzatura.
Come è evidente che i bracci dei foil (foil arm) collegati allo scafo dei velocissimi AC 75 abbiano molti punti in comune con un telaio (in particolare con le sospensioni) di un’auto di F1 e il complesso albero-vele rappresenti la parte propulsiva.
Come accade per la Formula U1, gli AC75 sono barche pensate, studiate e progettate per navigare in una sorta di laboratorio ideale, un mare dove non ci sono onde, dove il vento ha un’intensità predefinita, né un po’ di più né un po’ di meno.

– l’imbarcazione del team New York Yacht Club American Magic – è stata dovuta a una
perdita di “aderenza” dei foil: alla folle velocità di quasi 50 nodi barca ha decollato per poi
ricadere rovinosamente e rischiare di affondare.
Esattamente come le monoposto che corrono esclusivamente su piste appositamente costruite. Nessuno neppure immagina, infatti, di vedere una F1 su uno sterrato di campagna, girare in una nostra città, fare una manovra nel traffico, parcheggiare, distruggersi alla prima buca. Proprio come le auto della Formula 1, gli AC 75 sono delle vere e proprie barche-laboratorio dove sono state studiate, o meglio sviluppate ulteriormente e in modo più approfondito, soluzioni innovative.
È interessante quindi analizzare similitudini e differenze. Partiamo dai foil.

alla barca, sia in “rettilineo” sia in “curva”. Non solo. Come i pneumatici potevano
essere cambiati, anche se con modalità diverse rispetto alla F1. Così in finale abbiamo visto
foil estremamente diversi tra Luna Rossa, che ha optato per la forma a Y, e Te Rehutai che
ha adottato la forma a T.
Foil come pneumatici
In questa edizione dell’America’s Cup, la vera rottura tecnica con le barche del passato è rappresentata dai foil, le ali immerse, e il loro sistema di gestione (i flap come quelli che vediamo sul bordo di uscita delle ali degli aerei) che permette di ottenere la configurazione ideale che consente allo scafo di decollare dall’acqua e mantenersi sollevato a velocità incredibili. Il foil posteriore è collegato alla pala del timone che assume una forma a T perfetta, con un pescaggio massimo di 3,5 metri. Poi ci sono i due foil laterali collegati a due bracci basculanti (foil arm).
Hanno un’apertura massima di quattro metri e quando l’imbarcazione si trova all’ormeggio vengono abbassati per ridurre al minimo la larghezza e occupare meno spazio. Nelle manovre, come il giro di boa in virata, entrambi i foil laterali sono in acqua per dare la stabilità necessaria.
Ma nella normale navigazione, solo il foil sottovento è in acqua per fornire la spinta di sollevamento allo scafo, mentre quello sopravento assicura il momento raddrizzante che impedisce il ribaltamento. Al tempo stesso, gestendo la posizione del foil (con il foil arm) e l’angolazione dei flap si controlla l’assetto complessivo, sia per evitare che il foil stesso esca dall’acqua e perda spinta di sollevamento sia per evitare che, al contrario, lo scafo si avvicini troppo all’acqua e vi impatti contro causando una frenata repentina.
Detto questo, il paragone con i pneumatici è evidente. Se da una parte è vero che i foil tengono in volo la barca, dall’altra la tengono collegata all’acqua. Con una forzatura lessicale potremmo dire che i foil danno “aderenza”, tengono la barca “incollata” alla superficie dell’acqua sia in “rettilineo” sia in “curva”, esattamente come i pneumatici. A questo proposito, tutti ricordiamo i disastrosi effetti della perdita di “aderenza” dei foil della barca americana durante la regata con Luna Rossa nei round robin, i gironi eliminatori.
Ma c’è di più. Anche per la scelta dei foil il paragone con i pneumatici regge: in entrambi casi è possibile cambiarli, anche se con modalità diverse. Nella F1 i pneumatici sono forniti da un unico produttore ma è possibile cambiarli anche durante la stessa gara.

Per l’America’s Cup il sistema di movimentazione e i bracci dei foil (foil arm) sono anch’essi forniti – per regolamento – da un unico produttore ma, per il foil vero e proprio, l’ala immersa in acqua, ogni contendente è libero di scegliere la forma ritenuta più congeniale e cambiarlo in vari momenti della competizione. Però, una volta stazzata la barca prima della sessione di gare (gironi, semifinale, finale) il foil non si può più toccare.
Riferendoci alla sola finale, a un esperto è apparsa subito chiara la scelta diversa tra italiani e neozelandesi: Luna Rossa (come Ineos Team UK, che ha chiesto sul tema l’aiuto della divisione Applied Science di Mercedes-Amg) ha optato per un foil con forma a Y mentre Te Rehutai ha adottato foil a T.
Anche sulla possibilità di scelta dei foil il regolamento dell’America’s Cup segue idealmente alcuni concetti della F1 volti a limitare i costi e (in parte) la fantasia progettuale. Per l’intera manifestazione, ai team è stato concesso di produrre solo tre set di foil (abbinabili con 10 set di flap montati sul bordo di uscita di ogni foil), modificabili al massimo per il 20{2e3577d2bd6aebaa150c85c33fcd353783f1aa6c690283591e00ef60b3336fc8}.
Detto questo, meglio la forma a T o a Y? Si tratta di una scelta strategica, visto che le due diverse forme hanno influito sulle le prestazioni delle barche in termini di manovrabilità, facilità di utilizzo e stabilità di volo. Due forme diverse che, in teoria, sono funzionali alle condizioni meteo, fondamentalmente l’intensità del vento.
Un po’ come la scelta di pneumatici da bagnato o da asciutto condizionano le prestazioni di un’auto di F1, con la differenza che una volta scelto il tipo di foil tra i tre a disposizione non è più possibile cambiarlo per tutta la sessione di gare. È come scegliere le gomme da asciutto a inizio stagione e sperare che in gara non piova mai!

Torniamo alle due differenti forme dei foil scelti per le due barche finaliste. Il foil di Te Rehutai, quello a T, è più piccolo e ha una superficie totalmente piatta che, sicuramente, a fronte di una minore resistenza idrodinamica che rende la barca più veloce, ne penalizza in parte la maneggevolezza e necessita di una maggiore attenzione in manovra.
Lo abbiamo visto nelle partenze, dove Luna Rossa ha quasi sempre prevalso su Te Rehutai. Semplificando possiamo dire che per usare i foil a T occorre rischiare qualcosa in più: ma storicamente, i neozelandesi hanno sempre giocato sull’estremizzazione tecnica.
Il foil a Y scelto per Luna Rossa, invece, con la sua maggiore superficie e un angolo di 150 gradi tra le due ali, a fronte di un piccolo aggravio di resistenza idrodinamica garantisce minori turbolenze, quindi favorisce la manovrabilità e, in termini automobilistici, dà più “aderenza”.
Restando al paragone, i neozelandesi sono stati bravi a progettare delle gomme da asciutto, quindi più veloci, con ottime performance anche quando la pista fosse stata bagnata da una leggera pioggerellina, ovvero il vento fosse stato più sostenuto. E ancora più bravi ad usarle.
Scafo come telaio
Veniamo allo scafo che, con i foil arm, costituisce il telaio della barca. Per la prima volta nell’America’s Cup, un monoscafo è uscito dall’acqua e la sua forma è stata definita soprattutto per offrire meno resistenza aerodinamica che, a causa delle elevate velocità raggiunte, è diventata più importante della resistenza idrodinamica, che ha interessato i soli foil.
Così, come per la carenatura delle auto di F1, la superficie dell’intero scafo, coperta compresa, è stata perfettamente avviata, senza interruzioni e aperture se non quelle strettamente necessarie. Come i canali in cui stava nascosto l’equipaggio per offrire meno resistenza aerodinamica possibile, una sorta di “trincee” comunque avviate con il resto.
Questa è la prima analogia, ma non è l’unica. Al di là degli avviamenti e della limitazione delle aperture al minimo indispensabile, anche la forma scelta per lo scafo presenta delle analogie con le soluzioni adottate per le auto di F1.
A questo proposito, è interessante esaminare la forma estremamente diversa dei due scafi finalisti, frutto di scelte e impostazioni progettuali diverse. Se entrambe, sia Luna Rossa sia Te Reuthai, avevano una lunga e profonda chiglia centrale che in volo sfiorava l’acqua e nelle fasi di transizione tra la navigazione dislocante e il volo forniva quella spinta idrostatica variabile che aiuta il decollo, il resto dello scafo presentava evidenti differenze.
Ai lati della chiglia centrale, la carena di Luna Rossa Prada Pirelli è una carena piatta che si raccorda dolcemente con le murate. Tutto sommato ricorda ancora una barca che ha a che fare con l’acqua.
Te Rehutai, invece, ha un fondo della carena anch’esso piatto che, però, si raccorda con le murate su uno spigolo che a poppa scende verso il basso. In pratica si forma una sorta di doppio tunnel ai lati della chiglia centrale in cui l’aria viene in qualche modo intrappolata al fine di sfruttare il cosiddetto “effetto suolo” che contribuisce a sostenere in volo la barca.
In pratica l’aria tra scafo e superficie dell’acqua viene leggermente compressa, formando un “cuscino” che aiuta a tenere sollevata la barca. E il comportamento in regata ne risente. Si è visto infatti che la barca italiana teneva alzata la prua più dell’avversaria in quanto non aveva, contrariamente a Te Rehutai, sufficiente spinta verticale a poppa.

Nelle stesse condizioni, con i foil più piccoli (e quindi più veloci), Te Rehutai viaggiava a un’altezza rispetto al mare inferiore del 15-20{2e3577d2bd6aebaa150c85c33fcd353783f1aa6c690283591e00ef60b3336fc8} rispetto a Luna Rossa Prada Pirelli con i vantaggi che ne conseguono all’aumentare del vento.
È un po’ quello che è sempre accaduto in F1 dove la carrozzeria, gli alettoni, le minigonne (per chi di F1 non sa proprio nulla parliamo di quegli elementi laterali posti sul fondo dell’auto utilizzati per creare una deportanza che la tiene aderente al suolo), insieme alle sospensioni, i pneumatici e altro ancora, garantiscono l’aderenza della vettura al suolo anche a 300 km/h e anche in curva.
Al di là della capacità dell’equipaggio di Luna Rossa nel marcare benissimo i kiwi, i numeri hanno espresso la superiorità prestazionale di Te Rehutai, soprattutto all’aumentare del vento. Se invece di gareggiare su un circuito relativamente piccolo – persino con dei bordi stabiliti – quale è stato il campo di regata scelto per l’America’s Cup, fosse stata una gara di velocità pura modello dragster non ci sarebbe stato scampo.

Vele come motore
Ovvio che senza un buon motore tutto questo non sarebbe possibile. E, il motore di una barca a vela sono le sue vele. In questa edizione, l’innovazione è stata rappresentata dalla soft wing, costituita da due rande issate parallelamente, all’interno delle quali sono inseriti i controlli della forma. Essa consente di avere un’efficienza pari a un’ala rigida ma con una facilità di utilizzo simile a quella di una vela tradizionale.
Il paragone automobilistico si può tradurre in: più potenza ed erogazione più lineare della stessa. In più, rispetto a un sistema tradizionale si elimina quello “scalino” tra albero e vela che rovina il flusso del vento proprio dove se ne potrebbe estrarre più energia.
Sempre in nome della massima resa aerodinamica è poi sparito il boma, ossia l’elemento su cui viene inserito il lato basso della randa: il motivo è quello di sfruttare al massimo il profilo alare della vela, “saldandolo” alla coperta.
I neozelandesi, poi, sono andati ancora oltre: la coperta è stata ulteriormente abbassata al centro e l’equipaggio è stato relegato interamente all’interno delle due “trincee” longitudinali che restano della coperta, in modo da ridurre al massimo la resistenza al vento, la resistenza aerodinamica. In questo modo i neozelandesi hanno guadagnato anche qualche metro quadrato di vela, l’equivalente di qualche cavallo in più di potenza motore.
Un altro di quei piccoli plus che li ha portati al successo. Anche l’equipaggio italiano era nascosto in trincea, ma si trattava di trincee meno profonde scavate su una coperta non ribassata, tanto che, dopo le prime gare, a prua è stato messo un cupolino per ridurre la resistenza aerodinamica offerta dall’equipaggio stesso che parzialmente sporgeva dalle trincee stesse.

Cosa resta
Come abbiamo visto, le analogie che gli AC75 hanno con le auto di Formula 1 sono tante. E, come accennato all’inizio, ci resta difficile immaginare come la tecnologia sviluppata per le barche volanti possa riguardare noi comuni mortali che con la barca semplicemente navighiamo senza volare.
Esattamente come per la Formula 1. Se non vedremo mai una sfrecciare sulla tangenziale o a corso Garibaldi (tanto un corso Garibaldi c’è ovunque, in qualsiasi città o paese), allo stesso modo non vedremo mai qualcosa di simile a un AC75 navigare nel Golfo di Napoli o davanti alla Maddalena. Questo è sicuro.
Ma il turbo o l’ABS, così come lo conosciamo sulle nostre auto, sono innovazioni inizialmente sviluppate e implementate in F1. Così come il sistema delle palette del cambio dietro al volante che, ormai comune su molte auto a cambio sequenziale, nacque in F1 fra gli anni ’80 e gli anni ’90. Oppure il KERS, il sistema che accumula l’energia generata in frenata e la “trasforma” in potenza elettrica, introdotto nel 2009 in F1 è ormai diffuso su parecchie auto ibride e sui bus al fine di ridurre i consumi.
Tutte innovazioni che sembravano fantascienza quando furono introdotte nella Formula 1 ma che oggi sono sulle auto che guidiamo tutti i giorni.

Ad esempio, la svedese Candela Speed Boat AB ha studiato una barca con foil completamente immersi all’apparenza del tutto simile a un classico motoscafo, a un bel daycruiser un po’ retrò. Parliamo di Candela Seven, una bella barca di 7.5 metri con due ali orizzontali invisibili, immerse: la prima a centro barca che, dalla posizione di riposo aderente alla carena, può discostarsi grazie a due montanti che fuoriescono dallo scafo; la seconda, a poppa, che può entrare o uscire dall’acqua grazie al movimento di rotazione del montante a cui è collegata. Sullo stesso montante è poi alloggiato un motore elettrico da 55 kw con l’elica propulsiva che spinge la barca fino a 30 nodi. Insomma, su Candela si ha la sensazione di essere su un classico motoscafo, con la differenza che già a 14 nodi si decolla, fino ad arrivare alla non indifferente velocità di 30 nodi con un’autonomia di 60 miglia e con un comfort decisamente superiore, sia in termini di rumore (grazie alla propulsione elettrica) sia in termini di movimenti della barca che, navigando sollevata dall’acqua, non subisce gli scossoni indotti dalle onde. Per non parlare, infine, dei consumi drasticamente ridotti: se con un motoscafo convenzionale servono almeno 2 Euro per un miglio di navigazione, con Candela bastano 10 centesimi. Di contro l’investimento iniziale non è proprio alla portata di tutti, visto che servono 245.000 dollari.
Allo stesso modo, foil e vele tridimensionali, sistemi automatici di gestione e controllo del volo (quelli che movimentano sia i foil arm sia i flap dei foil), anche se non sono delle novità assolute studiate e applicate per la prima volta per l’America’s Cup, sono tecnologie che proprio grazie a questa competizione hanno avuto un’accelerazione enorme in termini di studio e sviluppo, a partire dalla prima edizione con i catamarani volanti AC72, quella del 2013, accelerazione che sicuramente determinerà una loro applicazione massiva nei prossimi anni.
Le barche a vela e a motore con i foil che vediamo in queste pagine sono solo alcune delle proposte frutto di questa accelerazione.
E ce ne saranno sempre di più. Certo i foil di queste barche e quelli che vedremo in futuro non saranno gli stessi degli AC 75, così come le vele. Ma gli studi fatti per queste barche saranno fondamentali per sviluppare e progettare nuove barche con queste nuove tecnologie. Esattamente come è accaduto, e accade, con la Formula 1.
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