Pierluigi Ausonio e Plana Design, il mago delle carene
Più propriamente preferisce definirsi specialista di idrodinamica applicata. Ma, comunque lo si voglia considerare, stiamo parlando di uno dei massimi esperti internazionali di progettazione navale e di un grande innovatore.
La carena, il guscio che dà forma allo scafo. Un elemento misterioso per i più ma fondamentale per determinare il DNA di una barca: dalla tipologia alle caratteristiche di velocità, di tenuta al mare, di comfort e di economicità in navigazione. Insomma, qualcosa che dovremmo conoscere a fondo nel momento della scelta. E, invece, spesso ne dimentichiamo l’esistenza. D’altra parte sta sott’acqua, non si vede: dunque, semplicemente non esiste! Per fortuna tanti cantieri sono pienamente coscienti dell’importanza di questo fondamentale elemento. A volte la studiano e la sviluppano in casa, ma sempre più spesso si rivolgono a super specialisti del settore: quelli che, in gergo, vengono chiamati “carenisti”.
Uno di questi, e tra i più importanti, è l’ingegnere Pierluigi Ausonio che, negli ultimi trent’anni, con la sua PLANA Design (acronimo di Pierluigi Ausonio Naval Architecture) ha firmato carene per cantieri del livello di Azimut-Benetti, Codecasa, Baglietto, Rodriquez, Mondomarine, Cantieri di Lavagna, Canados, Perini Navi, Picchiotti, Sanlorenzo, Overmarine e molti altri. Carene e non solo, visto che in linea con quello che egli stesso definisce “approccio integrato al progetto”, nel suo lavoro si occupa, direttamente o indirettamente, di tutti gli altri aspetti che hanno a che fare con l’opera viva: dunque propulsione, distribuzione dei pesi a bordo e molto altro. Desiderando saperne qualcosa di più, abbiamo un po’ forzato la sua proverbiale riservatezza – d’altronde disegna carene, ovvero cose che non si vedono – e siamo riusciti a rivolgergli qualche domanda.
Partiamo dall’inizio: come ha incominciato a disegnare carene?
Dopo la mia laurea in ingegneria navale e meccanica ho iniziato a lavorare all’ufficio progetti navi militari degli allora Cantieri Navali Riuniti, poi Fincantieri. Lì ho avuto dei grandi maestri che mi hanno insegnato un modo di lavorare molto rigoroso che prevede un approccio integrato al progetto.
La scuola dell’ingegneria navale italiana in tutto il secolo scorso ha prodotto tantissima innovazione e ha insegnato a disegnare navi al mondo intero. Poi, nei primi anni ’90, ho iniziato a disegnare carene per gli yacht, un mondo dove con una sola carena ci si faceva un po’ tutto, perché i cantieri non avevano grandi conoscenze della cosiddetta architettura navale, ovvero della carena e tutto ciò che è legato alla sua forma.
Un terreno fertile per le importanti novità che stavano per arrivare.
Direi proprio di sì. Per esempio, la carena D2P per Azimut Benetti è nata come una dislocante veloce con un bulbo di superficie: una tipologia oggi tanto decantata da più parti ma che è stata concepita proprio da quella scuola di ingegneri navali italiani di cui le dicevo.
Penso, per esempio, alla motocannoniera Saettia, una unità della Marina Militare Italiana progettata all’inizio degli anni ’80 per i mercati esteri: era una barca quadrielica di 50 metri da oltre 40 nodi davvero molto efficiente.
Rispetto a unità equivalenti, ad esempio, quelle della Marina Francese che facevano le stesse velocità massime, noi eravamo molto più efficienti alle velocità intermedie, consumavamo di meno e avevamo un’autonomia superiore di una volta e mezzo.
Negli anni ’90, con gli stessi principi, il grande progettista olandese Van Oossanen ha disegnato le carene Fast Displacement Hull Form (FDHF) che oggi sono adottate da tantissimi cantieri per i grandi yacht. Per quanto riguarda, invece, il bulbo di superficie che nasce sulle carene wave piercing, il primo ad applicarlo sulla carena di uno yacht fu lo storico progettista e direttore tecnico di Baglietto, l’ingegnere Alcide Sculati, assieme al quale ho avuto modo di lavorare e che mi ha insegnato tantissimo.
Ha parlato di approccio integrato al progetto. Di che cosa si tratta esattamente?
A via Cipro, a Genova, negli uffici dei Cantieri Navali Riuniti, ho imparato che quando si progetta una nave è necessario tenere in debita considerazione tutti gli aspetti che interagiscono tra di loro. Per esempio, non si può ottimizzare la forma di carena in termini di resistenza al moto senza pensare alla scia che lascia, scia dove si troverà a lavorare l’elica.
Si rischia che le performance dell’elica decadano e che il risultato complessivo non sia soddisfacente. Oppure, sempre rimanendo sull’ottimizzazione della carena ai fini della resistenza, vanno sempre tenute presente le conseguenze che certe variazioni di forma possono avere sul seakeeping, la manovrabilità, la stabilità dinamica eccetera.
Oggi, sia per ridurre tempi e costi sia per avere un prodotto più evoluto tecnologicamente, si tende ad affidare le varie parti del progetto a dei super specialisti che, inevitabilmente, lavorano a compartimenti stagni, ottimizzando il più possibile la parte che li riguarda direttamente. Questo è un rischio perché può accadere che l’estrema ottimizzazione della carena ai fini della resistenza comprometta l’efficienza di altri aspetti altrettanto importanti. Il mio approccio, invece, prevede di farsi carico di tutti gli aspetti della progettazione, compresa la propulsione. Questo è quello che io chiamo approccio integrato al progetto.

Come fa a gestire da solo tutti questi aspetti della progettazione, soprattutto in relazione ai tempi brevissimi imposti oggi dai cantieri che, specie sulle grandi unità custom o semicustom, si giocano l’ordine sui tempi di consegna?
Fino alla fine degli anni ’90 ci riuscivo. Curavo direttamente il progetto della carena, delle appendici, della linea propulsiva, dell’elica. Poi, l’utilizzo sempre maggiore di codici di simulazione numerica, di strumenti sempre più dedicati allo sviluppo del progetto mi hanno inevitabilmente portato ad affidare parti specifiche del lavoro a personale formato ad hoc, capace di utilizzare correttamente software specialistici in continuo aggiornamento.
Però sempre sotto la mia diretta supervisione. L’attività di simulazione numerica è infatti indirizzata su precise linee fornite sulla base della mia esperienza e della mia sensibilità, così come i risultati sono poi da me interpretati e contestualizzati all’interno del progetto per verificarne la correttezza e l’adeguatezza.
Perciò, in PLANA Design, io e due collaboratori ci occupiamo dell’architettura navale, quindi progettiamo carena, elica appendici eccetera; nella società NAV.ARS, assieme ai miei soci – gli ingegneri Daniele Chiamenti e Luca Fresco – ed ad alcuni collaboratori, ci occupiamo di simulazioni CFD, progettazione e disegni di struttura, calcoli di stabilità, progettazione e disegni in materia di allestimento e di sicurezza; nella società DETRA dell’ingegnere Piero Travi, vengono studiate, sviluppate e costruite le eliche custom per navi e grandi yacht.
Principi a parte, qual è il metodo che permette di tradurre in pratica tutto questo? Insomma, come nasce il progetto di una carena e di tutto quello che c’è intorno?
Una volta si progettava seguendo la cosiddetta spirale di progetto (metodologia secondo la quale si scompone il progetto in più fasi che vengono analizzate in successione in modo iterativo, n.d.r.). Oggi non abbiamo più tempo per seguire questo approccio, almeno nel campo del diporto dove, come abbiamo già detto, i tempi richiesti per lo sviluppo del progetto sono ridottissimi.
Se in Fincantieri per sviluppare un progetto avevamo a disposizione anni, oggi, quando va bene, abbiamo 6 mesi prima di iniziare con il taglio delle lamiere di uno yacht. C’è chi cerca di superare il problema predisponendo le cosiddette piattaforme ingegneristiche, che potremmo definire come dei progetti preimpostati che, però, vincolano il cliente a muoversi nell’ambito di precisi limiti e specifiche che non possono essere modificati. In pratica, l’armatore potrà scegliere molte cose ma non toccare l’assetto generale della barca, dallo scafo alla propulsione, dalla sala macchine all’impostazione degli impianti.
Ovviamente, le cose cambiano quando dobbiamo sviluppare ex novo un progetto, tuttavia, ferma restando l’esigenza di lavorare in tempi tempi brevissimi, è fondamentale partire con il piede giusto.

A) – Modello della carena del M/Y SF40 sviluppata da PLANA Design per Mondomarine (costr. 28/1), in prova a bassa velocità presso la vasca navale di Napoli.
B) – Modello della carena planante per propulsione con idrogetti sviluppata da PLANA Design per Azimut-Benetti (utilizzata sulla serie Azimut 120 SL) in prova presso la vasca di Zagabria.
C) – Modello della carena dislocante veloce del m/y 54 M GranSport, progettata da PLANA Design per OVERMARINE Group, in prova presso la vasca di Zagabria.
D) – Modello di una carena del tipo D2P con bulbo “wave piercing”, sviluppata da PLANA Design per Azimut-Benetti, in prova presso la vasca di Zagabria. Questo tipo di carena è utilizzato sui motoryacht delle serie Benetti Fast 125, Azimut Grande 35 Metri, Azimut Grande 32 Metri, Azimut Grande Trideck 38 Metri.
Il che significa?
Significa per esempio non partire in ogni caso da un foglio completamente bianco, bensì da una carena preliminare scelta sulla base delle poche informazioni in nostro possesso, che so una specifica iniziale, il più delle volte molto scarna, e un layout di massima.
Con queste informazioni incominciamo a fare delle valutazioni in termini di disposizione dei pesi e di baricentro, rese possibili dalle esperienze acquisite e dai nostri database. Poi, sulla base di dati di resistenza al moto desunti da serie sistematiche e prove in vasca navale di carene simili, passiamo a calcolare la potenza necessaria dei motori. Poi, ancora, avviamo uno studio parametrico sull’elica per ottimizzare il rapporto di riduzione e definire il diametro, l’inclinazione della linea d’asse, la clearance (la distanza minima dell’elica dallo scafo, n.d.r.).
Fatto ciò, proseguiamo con l’elaborazione del piano delle capacità (disegni e tabelle che definiscono tutti gli spazi destinati ai carichi liquidi imbarcabili, n.d.r.) per definire l’assetto in acqua della barca e le sue caratteristiche di stabilità, per poi passare a impostare le strutture e i disegni per la classifica della nave. Terminato tutto questo, si passa al progetto di dettaglio, cioè il progetto esecutivo che, di solito, viene curato dal cantiere stesso.
Le prove in vasca navale sono ancora utili?
Certamente! Perché è vero che con la fluidodinamica computazionale – la cosiddetta CFD – si possono fare tante cose, come verificare preliminarmente certe soluzioni o i risultati di una modifica oppure mettere in flusso le appendici, tuttavia, almeno per ora, le informazioni fornite dal modello provato in vasca difficilmente possono essere del tutto sostituite, sia in termini complessivi sia per la visione e lo studio di fenomeni particolari. Penso per esempio agli spray di una carena veloce: un fenomeno che già è difficile valutare in vasca, ma è ancora più complesso da osservare e studiare con la CFD. Però torniamo sempre al problema di fondo, cioè quello relativo ai tempi imposti dal cantiere per lo sviluppo del progetto.

Dalle prove in vasca alla ricerca idrodinamica il passo è breve. Il suo nome e quello di PLANA Design ricorrono spesso tra gli autori di pubblicazioni scientifiche. Si tratta di un’attività propedeutica al suo lavoro di progettazione?
Direi di sì, anche se in certi casi possono costituire una distrazione di risorse dalla mia attività principale.
Ma la passione e l’interesse per questo lavoro, i miei legami con l’Università di Genova, la voglia di fare meglio, mi hanno sempre spinto a partecipare a tanti progetti di ricerca e analisi scientifiche, spesso in collaborazione con il gruppo Azimut-Benetti e DETRA Eliche.
Ce ne può descrivere qualcuno, tra quelli che ritiene più importanti o significativi?
Ho lavorato e lavoro per tanti cantieri, per cui è difficile fare delle classifiche. Con Codecasa ho progettato il mio primo motoryacht. Era il 1991 e si trattava di una barca non usuale, un 36 metri in lega leggera con carena dislocante veloce per una prestazione massima oltre i 25 nodi. Anche con il gruppo Azimut-Benetti ho iniziato a disegnare molte delle loro carene fin dalla metà degli anni ’90 e continuo ancora oggi.

In particolare ho sviluppato progetti per tutto il loro range, dalle carene plananti di 40 piedi fino alle dislocanti di 110 metri, compresa la carena D2P di cui abbiamo già parlato. Ricordando i miei inizi, molto significative sono state le esperienze con i traghetti veloci per le navigazioni regionali e per le isole della serie Acquastrada. Parlo in particolare dei TMV70 per i quali, per il Gruppo Rodriquez e sotto la direzione dell’ingegnere Sculati, abbiamo sviluppato la propulsione mista, eliche più idrogetto. Anche con Baglietto la collaborazione continua tuttora.
L’estate scorsa è stato varato il 54 metri della linea V-Line con una carena dislocante che abbiamo sviluppato appositamente per migliorare comfort ed efficienza garantendo al contempo grandi volumi interni. Un’altra esperienza per me molto significativa è stata quella con Overmarine dove abbiamo sviluppato carene dislocanti veloci molto innovative come il Mangusta GranSport 54 metri, una barca da oltre 30 nodi con autonomia atlantica.
Parlo di oltre 4500 miglia a 12 nodi. Si tratta di una delle rarissime barche da diporto quadrielica esistenti, progettata anche grazie alle importanti esperienze che avevo fatto in passato sulle quadrieliche militari. Sullo stesso tema delle dislocanti veloci, sempre con Overmarine abbiamo sviluppato anche il Mangusta GranSport 45 metri con propulsione tripla, due eliche laterali e un idrogetto centrale.
Tutte esperienze molto stimolanti per dei prodotti se non unici, davvero molto rari nel diporto nautico. Penso poi ai vari Admiral progettati per gli allora Cantieri di Lavagna, oppure ai progetti sviluppati per quasi tutti gli yacht Mondomarine fino al 2016. Senza dimenticare il Canados Open 90, 27 metri di barca spinti a 50 nodi da due eliche di superficie. Davvero una bella sfida.
Passiamo al futuro. Mostrati per la prima volta al grande pubblico una decina d’anni fa e successivamente applicati sulle barche a vela da competizione, i foil sembrano oggi tra i più promettenti strumenti per migliorare le performance di una imbarcazione, non necessariamente facendola volare come le barche dell’America’s Cup. Penso, per esempio, ai foil della Hull Vane di Van Oossanen. Qual è la sua opinione?
Sulle unità a motore, i foil per il sostentamento idrodinamico sono stati utilizzati ben prima che sulle barche a vela. Parlo di ali secanti, come quelle di tanti aliscafi Rodriquez, oppure di ali immerse come quelle delle unità MMI della Classe “Sparviero/Nibbio” costruite dai Cantieri Navali Riuniti. Questi tipi di unità hanno avuto in passato una certa diffusione, sia per utilizzo commerciale sia per utilizzo militare, grazie in particolare alle caratteristiche di elevata velocità. Queste soluzioni presentano però anche numerose controindicazioni che, infatti, a un certo punto, ne hanno condizionato l’ulteriore sviluppo.
Ibrido, idrogeno, elettrico: ritiene che l’utilizzo sempre più ampio di questi nuovi sistemi inciderà sulle forme di carena?
Per quanto riguarda i sistemi ibridi, ritengo che possano essere interessanti nei casi in cui l’incremento dei pesi non costituisca un fattore determinante, perciò penso alle imbarcazioni di tipo dislocante. In questi casi si evitano i problemi legati all’utilizzo dei motori termici a carichi troppo bassi nelle lunghe traversate a velocità ridotte.
Per quanto riguarda invece l’idrogeno, o anche all’elettrico puro alimentato da batterie, ritengo che allo stato attuale della tecnologia possano essere soluzioni interessanti per un mercato di nicchia, ma non per un’ampia diffusione. Non ritengo quindi che questi sistemi possano determinare, a breve, un approccio diverso nel concepire le carene.
Su cosa sta lavorando attualmente? Quali novità?
Ovviamente non posso parlare di progetti che non sono ancora stati presentati, specie se si tratta di soluzioni innovative. Posso però dire che ritengo ormai indispensabile prendere in seria considerazione l’impiego di propulsioni plurimotori, specie sulle unità veloci.
Ma non solo quelle, considerate le difficoltà a livello di ingombri, di pesi e di costi che spesso si incontrano nell’installare motori di medie dimensioni, come gli MTU serie 4000 o i Caterpillar serie 35, con i relativi sistemi di filtri SCR (filtri catalitici per l’abbattimento delle emissioni, n.d.r.).
Mi riferisco in particolare agli yacht al di sotto di 500 GT, dove l’altezza di costruzione è per forza di cose sempre limitata.
In questi casi, per installare potenze complessive superiori a 4000 kW, ritengo necessario ricorrere a 3 o 4 motori di dimensioni più piccole, i cui filtri SCR possono essere installati abbastanza facilmente al di sopra del motore stesso, senza impattare in maniera significativa sulle dimensioni della sala macchine.
La propulsione potrà essere affidata a linee d’asse con eliche convenzionali oppure di tipo diverso a seconda dei casi e delle prestazioni richieste, tenendo in considerazione, per esempio, i consumi alle basse velocità.
L’APPROCCIO INTEGRATO ALLA PROGETTAZIONE NAVALE
Sebbene i tempi di progettazione siano oggi ridotti ai minimi termini, Pierluigi Ausonio continua a progettare rimanendo fedele a quella modalità che chiama “approccio integrato al progetto”. Questa prevede di farsi carico direttamente di tutti gli aspetti della progettazione riguardanti l’architettura navale, compresa la propulsione. Per essere vincente, questo approccio ha bisogno di avere alle spalle esperienza e know-how consolidati che permettano di impostare fin dall’inizio il progetto in modo corretto.
La figura sopra rappresenta un esempio di come, in modo rapido ma sufficientemente preciso, l’ingegnere Ausonio riesce a compiere quelle scelte preliminari sulle quali poi costruisce il progetto. Nel dettaglio, le formule e diagrammi permettono di prevedere, con l’approssimazione di qualche punto percentuale, quale potrà essere il rendimento di un’elica conoscendo solo pochi elementi, che sono:
V: velocità di progetto (in nodi) e quindi Va, la velocità di avanzo dell’elica (in m/s)
R: resistenza della carena e quindi T, la spinta richiesta alla singola elica (in kN)
D: diametro dell’elica (in m)
Case 1: Da questi elementi è possibile ricavare CT: coeff. di “carico” dell’elica e σo: indice di “cavitazione” dell’elica (dove p: pressione atmosferica + battente idrostatico (in kPa); pv: pressione di vapore dell’acqua alla temperatura ambiente (in kPa).
Case 2: Entrando nel grafico, con il valore di CT e posizionandoci fra le curve in base a σo, otteniamo un valore di rendimento che l’elica potrà raggiungere, a condizione di disporre di un rapporto di riduzione che le consenta di ruotare ai giri ottimali (i giri ottimali dovranno essere valutati con appositi calcoli).<p style=”text-align: center;”></p>



