Questioni d’equilibrio, come ottimizzare le prestazioni veliche di una barca
Far correre la barca a vela
Ottimizzare le prestazioni di una barca non è un obiettivo esclusivamente sportivo. Anche in crociera è un piacere sentire che tutto è in equilibrio. Per arrivare prima ma soprattutto meglio.
La barca sbandata, l’acqua che scorre veloce sotto lo scafo e molto vicina alla falchetta, l’adrenalina a mille. Sono le condizioni in cui spesso si fa strada un’idea completamente sbagliata: stiamo portando la barca al massimo della sua velocità. In realtà ci troviamo spesso nella condizione di fare tanto rumore per nulla o per molto meno di quello che potremmo ottenere. Scarroccio, eccessiva angolazione della pala del timone, invelatura non adatta alle condizioni di vento e di mare sono gli ingredienti di una cattiva conduzione. Che di bolina è molto più evidente rispetto ad altre andature in cui comunque si possono commettere gli stessi errori. L’ottimizzazione delle prestazioni di una barca non dipende solo da come la si governa alle varie andature, ma anche dalle condizioni in cui si trovano vele, scafo, attrezzature, dal tipo di elica che si sceglie, dalla disposizione dei pesi. Portare al meglio la barca significa, in sintesi, renderla più marina e quindi più sicura e spesso più veloce.

L’importanza del peso in barca
“Questa barca non viraaa…”, urlò l’allievo al timone con la prua che dirigeva dritta sulla costa sud del golfo di Arzachena. Dal gommone degli istruttori fu sufficiente condurlo a riconsiderare la posizione delle tre persone a bordo del Laser 16, spostando tutti in avanti, per vedere la piccola deriva virare magicamente. Su una barca da crociera, che disloca qualche tonnellata, lo spostamento delle persone non ha la stessa determinante influenza sulle manovre, ma la disposizione dei pesi ha ugualmente una fondamentale importanza per la sua stabilità. Fatta salva la bontà del progetto della barca in cui la disposizione degli elementi fissi, come ad esempio quella dei serbatoi, è stata ben ponderata, all’armatore compete l’onere di non alterare la stabilità dello scafo e, se possibile, ottimizzarla a seconda delle condizioni in cui si trova a navigare. Un principio fondamentale cui riferirsi è quello di mantenere i pesi quanto più possibile in basso e in posizione simmetrica. Prendiamo ad esempio la scorta di acqua potabile in bottiglia.
Per un equipaggio di 6 persone impegnato in una crociera di una settimana, il peso imbarcato può ammontare a un centinaio di chili. Stivare le bottiglie in sentina, distribuendole possibilmente al centro, è molto meglio che collocarle negli stipetti a murata. La scorta d’acqua dolce che esce dai rubinetti influisce ancora di più sulla stabilità dello scafo. I serbatoi sono normalmente collocati sotto le sedute in dinette e sotto le cuccette. Quando si parte per una crociera, si tende a salpare con il pieno d’acqua che idealmente sarebbe da consumare passando quotidianamente da un serbatoio all’altro.

Visto che si tratta di un’incombenza improponibile, una buona abitudine è quella di alleggerire la prua consumando per prima l’acqua del corrispondente serbatoio. In questo modo, con mare formato di prua, si attenuerebbe una delle cause di aumento del beccheggio, che influisce molto negativamente sulla velocità.
Altro peso importante che abbiamo a bordo è la zattera di salvataggio. Per motivi di sicurezza l’ideale sarebbe avere un alloggiamento dedicato in modo da poterla raggiugere e armare velocemente. Spesso finisce invece in fondo a uno dei due gavoni in pozzetto, sbilanciando la barca su uno dei lati, con differenti prestazioni in navigazione a seconda delle mure su cui si naviga. Certamente è da evitare la sua collocazione sulla tuga, pratica molto diffusa fino a qualche anno fa.
Per verificare l’assetto della barca prima di salpare la si deve osservare ferma in banchina, senza cavi di ormeggio in tensione. Per essere certi che possa navigare sulle sue linee d’acqua non deve avere inclinazioni laterali né essere appoppata o appruata.

Mantenere la carena pulita
Una carena sporca oppone una resistenza idrodinamica infinitamente più alta di quanto non ne faccia una pulita. Senza investire quantità mostruose di denaro in antivegetative con nanocapsule autoleviganti dal costo di qualche migliaio di Euro per ogni decina di litri, è sufficiente mantenere pulita l’opera viva. L’ideale sarebbe alare la barca, lavare la carena e dare l’antivegetativa quando l’acqua del mare è più calda e di solito più aggressiva, quindi nel pieno della bella stagione quando è il momento di godersi la barca.
Un buon compromesso è quello di “fare carena” il più possibile a ridosso della primavera per poi effettuare qualche pulizia in acqua, magari incaricando del compito un sub prima di partire per una crociera.
L’elica
Anche il tipo di elica incide molto sulle prestazioni a vela. A pale fisse, abbattibili e orientabili, a passo fisso e variabile, due o tre pale: la possibilità di scelta è davvero molto ampia e adattabile al tipo di navigazione in cui la barca è più a lungo impiegata.
Fra tutte le eliche a disposizione quella a pale fisse è anche quella intorno alla quale si sviluppa l’annosa questione: navigando a vela, è meglio lasciarla libera di ruotare o bloccarla innestando la marcia?
Sulla scelta in un senso o nell’altro influiscono fattori diversi, spesso frutto di imperscrutabili convincimenti più che di un’analisi tecnica dei pro e dei contro. C’è chi sostiene che la rotazione libera usuri gli ingranaggi e crei più resistenza, chi afferma che invece sia l’elica bloccata a opporsi maggiormente all’avanzamento. Altri non sopportano troppo a lungo il rumore dell’asse che gira, e altri ancora sono certi che ingranare e togliere la marcia a motore spento sforzi gli ingranaggi.
Insomma, le motivazioni per fare una cosa o il suo contrario sono tante e nessuna sembra prevalere. Ai fini delle prestazioni, possiamo fare una prova sperimentale e, tenendoci sulle stesse mure di bolina, verificare in quale situazione la barca sviluppi più velocità.

Anche se a mettere pace in questa diatriba è la fisica che, senza troppi giri di parole, ci dice che i corpi liberi di muoversi assumono sempre un comportamento tale da minimizzare la resistenza. Classico è l’esempio della bandiera che, investita dal vento, si orienta sempre in modo da ottenere questo effetto. E così fa l’elica che, girando passivamente, si mette in condizioni di opporre la minima resistenza. Chiarito questo punto rimane però il problema del rumore dell’asse che gira e, in tal caso, non è tanto la fisica a poterlo risolvere quanto piuttosto il livello di sopportazione del nostro orecchio. Sul piano degli effetti meccanici, una parola chiara la dicono i produttori di trasmissioni, che sui loro manuali invitano immancabilmente a non bloccare l’invertitore.

Governare con le vele
Qualunque discorso ora si faccia sulla regolazione delle vele parte dal presupposto che l’usura non le abbia trasformate in sacchi informi, stracci appesi sui quali nessuna regolazione di fino può sortire alcun reale effetto.
La prima regolazione alla ricerca delle migliori performance riguarda la quantità di vela da esporre al vento in funzione dell’intensità, dell’andatura e dello stato del mare. Sì, anche l’altezza dell’onda e la direzione con cui raggiunge o colpisce lo scafo determina scelte sulla quantità di tela da tenere a riva. Un esempio: con mare al mascone avremo bisogno di potenza a prua per superare l’onda ma non in eccesso per non esasperare il beccheggio che contribuisce a ridurre la velocità della barca.
Se essere sottoinvelati riduce ovviamente le prestazioni della barca, esserlo troppo le penalizza ugualmente. In che modo dunque capire quale sia la superficie di vela corretta da esporre al vento? A parte le indicazioni delle velerie, che fissano normalmente l’intensità massima di vento che può sopportare una vela, siamo noi velisti che dobbiamo accendere i sensi e ascoltare la barca. L’obiettivo da raggiungere è una situazione di equilibrio, dove le prestazioni non siano penalizzate e la barca sia sotto controllo.

Bolina – Risalendo il vento, l’eccesso di vela causa una serie di problemi che si concatenano gli uni agli altri. Innanzitutto si ha un maggiore sbandamento che causa la necessità, per correggere la tendenza orziera, di spingere il timone alla puggia trasformandolo da organo di direzione a freno, abbassando così la velocità con un conseguente aumento dello scarroccio. Ridurre vela è indispensabile per ristabilire il corretto equilibrio, ossia una condizione in cui il lavoro alla barra sia minimo e si riesca a mantenere un angolo ottimale rispetto alla direzione da cui proviene il vento.
Mantenere l’angolo migliore di bolina è questione di sensibilità e di osservazione di quanto accade sulle vele, che iniziano a “pungere”, ossia a flettere verso l’interno, quando si stringe la bolina oltre il limite avvicinandosi all’angolo morto. Solitamente è il fiocco che per primo invia il segnale che qualcosa non va. Strumento molto utile è rappresentato dagli indicatori di flusso, ossia quei filetti posti specularmente sui due lati e a diverse altezze a poca distanza dall’inferitura della vela, che in condizioni ottimali devono disporsi paralleli fra loro e rispetto alla coperta.
Quando l’angolo al vento diminuisce, il filetto sopravento andrà in turbolenza, “chiedendo” di poggiare o di cazzare la vela; viceversa, quando l’angolo aumenta, ossia abbiamo poggiato troppo, sarà il filetto sottovento a finire in turbolenza, urlando a gran voce di lascare o di orzare.
Importantissima è la forma che diamo alle vele. Se abbiamo poco vento, dobbiamo “ingrassarle”, riducendo la tensione sulle drizze e sulla base, portando in avanti il carrello della rotaia del fiocco e magari un po’ sopravvento quello del trasto di randa. Viceversa, con vento forte dovremo smagrire le vele, cazzando base e drizze, e si dovrà anche ridurre lo svergolamento, arretrando il carrello del fiocco e portando sottovento quello del trasto della randa per scaricare la pressione del vento sulla parte più alta. Se il rinforzo è tale da rendere troppo ardente la barca, dovremo prendere una mano di terzaruoli e sostituire o rollare un po’ il fiocco. Riducendo la superfice di tela, e ricostituendo un buon equilibrio, spesso si assisterà, oltre che ha una migliore e più agevole conduzione della barca, anche ad un aumento della velocità.

Traverso – Generalmente, se si naviga con randa e fiocco, quindi solo con le cosiddette vele bianche, il traverso è l’andatura in cui la barca sviluppa maggiore velocità. Questo perché il vento apparente si “allarga” rispetto all’asse della barca, le vele possono essere più lasche e più potenti, anche in considerazione del fatto che lo sbandamento è minore rispetto a quello che si ha in bolina. Con vento forte, si ha comunque una forte tendenza orziera perchè con le vele più lasche il centro velico è maggiormente sottovento rispetto alla posizione che assume con andatura stretta al vento. È questa un’andatura in cui si lavora molto con il vang, per controllare lo svergolamento e il grasso della randa. Se si desidera depotenziarla, la si potrà smagrire cazzando la ritenuta del boma. Inoltre, si può agire sul trasto, spostando il punto di scotta sottovento, ottenendo l’effetto di ridurre lo svergolamento e di conseguenza gli effetti della pressione del vento sulla vela. In questa andatura, per ridurre la tendenza orziera della barca, è possibile tenere il fiocco più potente, ricordando sempre, quando si poggia e si lasca la sua scotta, di portare in avanti il carrello osservando bene gli indicatori di flusso, che devono essere paralleli. Viceversa, se abbiamo bisogno di depotenziare il fiocco, potremo smagrirlo arretrando il carrello.

Portanti – A vele bianche, soprattutto con venti leggeri, accade spesso di dover fare bordi né più né meno come accade di bolina. Man mano che ci si avvicina alla poppa piena, il vento apparente cala fino al punto di annullarsi quando quello reale è molto leggero. Oltre alla necessità di orzare per fare bordi che a volte possono avere fra loro un angolo anche di 90 gradi, occorre lavorare sulle vele per renderle il più grasse possibile. Drizze, tesabase, paterazzo, vanno lascati, il carrello del genoa va avanzato per approfondire il grasso della vela e per portarlo il più possibile in avanti. Anche in questa situazione, con la scotta della randa lasca, occorre lavorare con il vang, per impedire al boma di sollevarsi troppo e causare un eccessivo svergolamento della vela maestra, senza perdere di vista gli indicatori di flusso posti sulla balumina, che devono sventolare paralleli al boma per indicare un’uscita corretta dei flussi dalla randa. Alle andature portanti, con il vento apparente molto basso, è facile farsi sorprendere da un rinforzo i cui effetti vengono avvertiti in ritardo rispetto a quanto non accada in bolina. Intervenire per tempo riducendo o, in alcuni casi, ammainando la randa, ci mette al riparo da rischi di rotture.

Governare con il timone
“Il timone è soprattutto un freno”. “La barca si governa con le vele e non con il timone”. Sono frasi ampiamente ripetute in tutte le scuole di vela e rispondono a una profonda verità. In estrema sintesi, se tutto ciò di cui abbiamo parlato sino ad ora è fatto in modo corretto, la nostra barca dovrebbe navigare con la barra al centro. In caso contrario, ossia se non abbiamo colto il tanto agognato punto di equilibrio lavorando correttamente su pesi e vele, dovremo impiegare il timone per correggere la tendenza orziera o, meno frequentemente, quella puggera. Maggiore sarà l’angolo di barra impresso per mantenere un’andatura, minore sarà il rendimento della barca. La pala del timone lavora come qualsiasi superficie immersa in un fluido, come ad esempio l’ala di un aereo.

E così come accade che un’ala subisca uno stallo quando, all’aumento dell’angolo di incidenza con il flusso, i filetti fluidi si staccano dalla superficie e si perde la portanza, anche la pala del timone può subire uno stallo se l’angolo di barra è eccessivo. Esasperando l’angolo di barra oltre i 35-40 gradi, la faccia anteriore del profilo della pala funziona quasi esclusivamente come freno, mentre quella posteriore non genera più alcuna portanza perché il fluido si stacca dalla sua superficie, lasciandola praticamente “asciutta” come in una bolla di cavitazione.


Questo fenomeno fa crollare la portanza della pala e impennare la resistenza. Nelle immagini A e B, in alto, si vede cosa accade nel tunnel di cavitazione dell’Istituto di Ingegneria del Mare del Consiglio Nazionale delle Ricerche. Durante le prove sul timone di un’imbarcazione veloce, al minimo variare dell’angolo, da 3 a 6 gradi, i vortici sulla faccia posteriore aumentano in modo esponenziale, dissipando energia e abbattendo l’efficienza del profilo.
Su una barca a vela meno veloce, questi fenomeni si creano ad angoli maggiori, superiori ai 15 gradi.
I progettisti dedicano molto del loro tempo per ridurre questi vortici intorno alle appendici. Se navigassimo sempre piatti, senza inclinazione e scarroccio, i vortici su deriva e timone sarebbero minimi e la loro efficienza massima.
Visto che non è sempre così, spetta a noi velisti trovare gli assetti e governare la barca per trovare il miglior equilibrio possibile.
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