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Dal mare alla terraferma: quando gli uomini avevano le pinne

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Fra i più interessanti passaggi che hanno caratterizzato l’evoluzione della vita, quello dal mare alla terraferma fu forse il più importante.
Anche se, a guardar, bene si tratta di un processo non ancora concluso.

Ci fu un tempo in cui la vita acquatica decise di vedere come si stava sulla terraferma e ci fu un essere vivente che tentò il primo approccio adattando il proprio organismo alle nuove leggi di vita. Poi sono successe molte cose, la vita sulle terre emerse si è sviluppata in mille forme, qualcuno ha pensato che dopo tutto in mare non si stava poi tanto male ed è tornato sott’acqua, mentre qualcun’altro è rimasto indeciso sul da farsi e continua ancor oggi ad aggirarsi nei nostri oceani con il suo affascinante status di fossile vivente.

L’equipe di Neil Shubin al lavoro nell’isola di Ellesmere.

Ma quando e dove tutto è cominciato?

Sul quando non si può essere precisi più di tanto, considerando che l’orologio del tempo scorre in questo caso lungo miliardi di anni; sul dove possiamo invece essere un po’ più precisi, dato per certo, salvo imprevisti, che si parla comunque di acqua.

Che poi fosse acqua salata o meno, parlando di un brodo primordiale, difficile dirlo. Così come non è facile tracciare il percorso evolutivo che ha portato da quella prima cellula a George Clooney, una lunga storia che diventa più chiara (ma non poi tanto) nella sua ultima fase, dove, nel passaggio per altro da molti contestato dalla scimmia all’uomo, siamo ancora alla ricerca dell’anello di congiunzione. Fermo restando che tutto sommato potremmo considerare l’uomo una specie evoluta di scimmia.

In ogni caso sul fatto che la vita sia nata in acqua e dall’acqua ci sono pochi dubbi, anche se a capirlo prima delle più sofisticate scoperte dei nostri giorni fu già un famoso filosofo greco, Anassimandro di Mileto, allievo di Talete, che già nel V sec. a.C. affermò in senso quasi darwiniano che l’uomo deriva dai pesci.

Neil Shubin con un modello plastico del Tiktaalik.

In principio fu una cellula?

Il segreto di quell’”ultimo antenato universale comune”, ovvero quella cellula che la scienza ha battezzato con l’acronimo LUCA (Last Universal Common Ancestor) e che ci riporta a 3,6 miliardi di anni fa, fu un programma genetico che consentiva di riprodursi, cosa che oggi ci riesce abbastanza facile, ma che in quel primo caso pose problemi giganteschi derivanti anche da una diversa conformazione fisica. Senza entrare nel complesso mondo della scienza molecolare o di quella famosa zuppa primordiale che creò il palcoscenico adatto per la nascita della vita e che la scienza considera oggi più un insieme di pozzanghere che un vero e proprio oceano, limitiamoci a titolo di cronaca a ricordare che i primi organismi fossili che evidenziano la capacità di riprodursi sessualmente risalgono a 1,25 miliardi di anni fa.

L’analisi del nostro processo evolutivo trova sulla sua via un primo ostacolo nella diatriba fra creazionisti ed evoluzionisti, dove nel primo caso ci si rivolge alla fede, nel secondo alla scienza. Nel contesto di queste righe noi più semplicemente ci rivolgeremo al mare, essendo questo il DNA della nostra passione e l’argomento che ci è più familiare. E dato che non possiamo tenere un corso universitario pluriennale, stringeremo ancor più l’argomento su un punto cruciale della nostra storia, quel passaggio in cui la vita marina stanca di vivere in un ambiente tutto sommato un po’ monotono, decise di uscire dall’acqua e vedere come si stava sulla terraferma.

Un passaggio di non poco conto, che in primis doveva fare i conti con quella forza di gravità che se in acqua, circa 800 volte più densa dell’aria, poteva essere facilmente vinta, sulla terraferma necessitava di un passaggio critico ma fondamentale. Perché se in acqua le pinne offrivano il massimo dell’efficienza propulsiva, sulla terraferma servivano a poco o niente, così i vertebrati di allora dovettero inventarsi le gambe. E non fu facile. Anche in questo caso il processo evolutivo dovette trovare un anello di congiunzione, ma stando a quanto ci dice la scienza, qualcuno lo ha trovato. Risale infatti a non molti anni fa, per l’esattezza al 2004, l’eccezionale scoperta di un fossile nell’Artico canadese da parte di un’equipe di scienziati che, sotto la guida di Neil Shubin e Edward Daeschler, conduceva questa ricerca da oltre dieci anni.

Il disegno offre una chiara immagine dell’aspetto che poteva avere un Tiktaalik.

Non un fossile qualunque perché, dopo averlo liberato dai sedimenti, quello strano essere del passato remoto rivelò di possedere qualcosa di molto simile a un collo e a delle mani, pur essendo di base un organismo acquatico dotato di branchie, di squame…ma anche di polmoni e di una cassa toracica atta a proteggerli.
I fossili – vale la pena ricordarlo – sono le pagine più importanti per leggere il libro della vita fin nelle sue più profonde radici. A Shubin è comunque spettato il diritto di dare un nome scientifico alla sua creatura, battezzata in lingua Inuit Tiktaalik roseae, e da questa prima scoperta ad approfondire il discorso alla ricerca di altri indizi che identificassero l’anello di congiunzione a testimonianza del passaggio dal mare alle terre emerse, il passo fu breve.

Il primo fossile della specie recuperato da Shubin

Evoluzione in corso

Shubin, paleontologo nonché professore di anatomia presso l’Università di Chicago, ha studiato a lungo i resti del Tiktaalik, scoprendo in primo luogo che l’evoluzione della nostra specie è ancora in atto, dato che presenta ancora non pochi problemi. Come Homo erectus ci siamo infatti alzati su due sole gambe, ma le nostre ginocchia fanno ancora fatica a reggere il peso del corpo, così come il sistema circolatorio disegnato da madre natura per sostenere il perenne movimento dei pesci non sembra adatto al tipo di vita che oggi ci contraddistingue. Anzi, tanto per citare lo stesso Shubin a cui non manca una certa verve ironica: “Il nostro sistema circolatorio è stato progettato per un costante movimento, ma abbiamo lo stile di vita delle patate”.

Una ricostruzione dell’ambiente in cui viveva il Tiktaalik.

Del resto se volessimo trovare legami con le nostre più antiche radici basterebbe guardarsi dentro. L’evoluzione è ancora in atto, dice Shubin, eppure conserva gelosamente tracce della sua storia esaltando la nostra familiarità con un ambiente liquido. Che poi sia il brodo primordiale o il liquido amniotico, che comunque non è acqua di sorgente, poco conta: fatto sta che passiamo in apnea i primi nove mesi della nostra vita e che, fra la quinta e la nona settimana di permanenza nell’utero, l’embrione sviluppa delle fessure branchiali che nel prosieguo della crescita tendono poi a regredire e a trasformarsi in altre strutture fisiologicamente a noi più utili. In altre parole, nei primi stadi di sviluppo, l’embrione di un essere umano e quello di un pesce sono estremamente simili.

Il pesce alligatore (Atractosteus spatula) – una presenza comune nel Nord America – ci ricorda invece che l’evoluzione non ha dimenticato il Tiktaalik.

Ma dove ci porterà questa evoluzione? E in quanto tempo? Non è che ci verrà la tentazione di tornare in mare, dove dopo tutto la situazione potrebbe essere più tranquilla e accogliente? La comunità scientifica, che aveva ritenuto che l’evoluzione umana si fosse fermata 10.000 anni fa o giù di lì, si è dovuta ricredere. “Se la velocità con la quale stiamo evolvendo fosse sempre stata quella di oggi”, ha affermato il prof. Henry Harpending dell’Università dello Utah, “le differenze genetiche con gli scimpanzè sarebbero almeno 160 volte superiori a quelle reali». E in effetti sembra che il 7{2e3577d2bd6aebaa150c85c33fcd353783f1aa6c690283591e00ef60b3336fc8} dei geni umani si stia oggi evolvendo molto rapidamente, ma resta da capire quale direzione stia prendendo.

È un fatto incontestabile che l’ambiente, in senso globale, sia oggi assai diverso da quello anche solo di un secolo fa, ed è altrettanto incontestabile che stia evolvendo in peggio, o almeno in qualcosa di ben poco adatto alle nostre esigenze fisiologiche. Magari seguendo l’evoluzione in senso darwiniano, a forza di yoghurt e merendine finiremo per perdere i denti, nati per azzannare e masticare cibi ben più solidi ma diventati poi inutili; o forse i nostri piedi diventeranno simili a ruote per facilitare il movimento nelle grandi città; o forse ancora, come accennato, torneremo a sviluppare branchie e pinne per andare a far compagnia ai delfini.

Uno strano antenato

Ma torniamo al nostro Tiktaalik e alle ricerche di Shubin, tese a dimostrare quante similitudini fisiologiche ci leghino ancora al nostro passato di pesci di cui conserviamo molte caratteristiche anatomiche: i geni che controllano lo sviluppo dei nostri occhi e delle orecchie, ad esempio, sono riscontrabili con funzioni differenti anche nei primitivi pesci cartilaginei, mentre la struttura delle nostre mani ricorda quella delle pinne fossili e le nostre teste sono organizzate come quelle di pesci privi di mascelle, da lungo tempo estinti.

Un lungo cammino perfettamente scritto nel nostro DNA, che ci lega a un pesce vissuto alla fine del Devoniano, 375 milioni di anni fa, che a un certo punto decise di mettere il naso fuori dall’acqua – per l’appunto Tiktaalik – e di cui sono stati poi recuperati in ottimo stato di conservazione diversi esemplari. Il primo, quello che scosse gli scienziati di tutto il mondo, fu scoperto da Shubin nell’isola di Ellesmere, in Canada, a Nord del circolo polare artico, un’area che alla fine del Devoniano era parte del continente Laurentia, posizionato all’equatore, e aveva un clima caldo e umido.

Considerato un transitional fossil, Tiktaalik era una creatura d’acqua dolce che condivideva le caratteristiche dei pesci e dei futuri anfibi: era dotato di polmoni, per quanto primitivi, di un collo mobile, di strutture ossee simili alle nostre braccia, dita e polso inclusi, di una cassa toracica e abitava paludi e acquitrini. Come rilevato dai primi esemplari recuperati, misurava fra 1,20 e 1,75 metri e ed era un carnivoro a metà strada fra un pesce e un coccodrillo, come dimostra la sua inquietante dentatura.
Se guardiamo però alla sua struttura scheletrica, troviamo impressionanti somiglianze con quella dell’attuale Homo sapiens: le ossa delle due pinne frontali sono simili a quelle delle nostre spalle e delle braccia, inclusa una primitiva versione del nostro polso.

Pinne che in realtà erano qualcosa di più, perché assecondavano il nuoto, ma erano anche in grado di sostenere l’animale sulla terraferma, consentendogli un limitato movimento, certo non paragonabile alla destrezza che aveva in mare. Al caro vecchio “Tikta” spetta quindi il privilegio di aver dato inizio alla conquista delle terre emerse, che ebbe poi luogo in tempi geologicamente brevi: tutti gli organismi che vivono oggi sulla terraferma si svilupparono nei successivi 550 milioni di anni. Incluso qualcuno rimasto ancorato alle vecchie tradizioni genetiche e arrivato senza troppi cambiamenti fino ai giorni nostri.

Una straordinaria immagine subacquea del celacanto.

Il fossile vivente

Se la storia del Tiktaalik ha indiscutibilmente il suo fascino, cosa dire di quel crossopterigio più noto semplicemente come celacanto, altro pesce che mostra chiari segni di “gambizzazione” ma rimasto poi indeciso sulla sua evoluzione? Viene considerato vivente già una decina di milioni di anni prima di Tiktaalik e lo si riteneva estinto da almeno 60 milioni di anni, quando si scoprì che era ancora vivo e vegeto e nuotava felicemente nei nostri mari.

Un po’ come se ci ritrovassimo un Tyrannosaurus rex a spasso nella pineta di Ostia. Ritenuto estinto, come detto, da tempo immemorabile, anche il celacanto mostra un tentativo di trasformare le proprie pinne in arti più adatti alla vita sulla terraferma. Qualcosa deve però essere andato storto, tanto che il celacanto è rimasto quello che era, ovvero un abitante – per quanto anomalo – dell’ambiente marino.

Un’equipe di biologi che esamina un esemplare appena pescato.

Come molte scoperte scientifiche, la sua storia è legata al caso e ci riporta a Majorie Courtenay-Latimer, curatrice del piccolo East London Natural History Museum della cittadina portuale di East London, in Sud Africa. Per arricchire il suo piccolo museo, Marjorie aveva stretto amicizia con numerosi pescatori del luogo, che la chiamavano in caso di catture particolari. Quel 23 dicembre del 1938, Marjorie era scesa al molo per portare i suoi auguri agli amici di un peschereccio, il Nerine, ma arrivò tardi e tutti i pescatori se ne erano già andati a casa.

Ritrovamento di un fossile dl celacanto (Latimeria chalumnae)

Il capitano Hendrik Goosen aveva però messo da parte per lei, in un angolo del peschereccio, un mucchio di razze, scorpenidi e squaletti vari nel caso potessero interessarla. In realtà in quel mucchio di pesci non sembrava esserci niente di particolare, senonché, in mezzo a quel disordinato ammasso di pesci non commerciabili, spuntava una strana pinna blu che incuriosì la nostra biologa, la quale, liberato il pesce restò senza parole. “Era il più bel pesce che avessi mai visto”, dichiarò in seguito (de gustibus potremmo aggiungere noi), “era una strana creatura lunga circa un metro e mezzo, con una livrea blu-viola iridescente e sprazzi d’argento sul corpo, qualcosa di mai visto prima”. Nessuna meraviglia per tanta meraviglia, dato che la Courtnay si era ritrovata fra le mani un essere proveniente dal più lontano passato della Terra: un coelachantus.

La giovane biologa sudafricana Marjorie Courtneay Latimer ha scoperto quasi per caso il celacanto.

La scoperta causò un vero shock nel mondo scientifico e, naturalmente, Marjorie ebbe il diritto di aggiungere il proprio nome alla denominazione scientifica del celacanto, che divenne così la Latimeria chalumnae Smith, dove “chalumna” ci riporta all’estuario dell’omonimo fiume al largo del quale fu catturato il pesce, mentre Smith è il biologo che studiò a lungo l’esemplare e si impegnò poi in modo quasi maniacale nella ricerca di altri celacanti. Il suo ragionamento era lineare: il celacanto non era adatto a vivere sui fondali fangosi dai quali, alla profondità di 70 metri, era stato pescato dal Nerine.

Le sue squame mostravano infatti anelli di crescita che, oltre a determinarne l’età in 22-25 anni, dimostravano un alternarsi delle stagioni incompatibile con quell’ambiente e quelle profondità. Smith era quindi certo si trattasse di un pesce vagabondo arrivato in Sud Africa spinto dalle correnti provenienti da Nord e in quella direzione iniziò ricerche durate per 14 anni, finché lo ritrovò nel 1952 sui fondali delle Comore dove i pescatori locali, che lo chiamavano “gombessa”, lo consideravano una preda occasionale ma non rara e comunque del tutto immangiabile: comprensibile dopo 60 milioni di anni!

Per chi fosse interessato a seguire l’affascinante storia di questo primo celacanto, ricordo l’avvincente libro di Keith S.Thomson (La storia del celacanto) che ne traccia meticolosamente la vicenda. Smith aveva in realtà ragione e, negli anni successivi, si scoprì che quel ritrovamento non era poi una rarità, mentre in epoca più recente è stata scoperta un’altra popolazione di celacanthus a Sulawesi, in Indonesia, oggi una delle più ricercate mete del turismo subacqueo. E di certo nuotare con un pesce che già nuotava allegramente al tempo dei dinosauri è una bella emozione, ma vale la pena di ricordare che queste immersioni, che avvengono normalmente oltre i cento metri di profondità, sono riservate a subacquei di provata esperienza nell’uso delle miscele, e richiedono l’apporto di attrezzature adatte e di una qualificata assistenza.

Ritorno al futuro

In questa lunga storia che nel nome della vita unisce il mare alla terraferma, c’è anche chi ci ha ripensato. Perché dopo tutto la terra emersa non sembra essere piaciuta a tutti, tanto che alcuni mammiferi, dopo un soggiorno reputato insoddisfacente, hanno deciso di tornare al mare, senza alcuna intenzione di ripensarci, tanto da aver perfezionato capacità fisiologiche assolutamente sorprendenti come quella di poter restare in apnea fino a più di un’ora (nel caso dello Zifio quasi due) e di immergersi fino a 3.000 metri di profondità sfidando pressioni idrostatiche che nessun mammifero terrestre potrebbe sopportare. Meno chiaro è perché, uscendo dall’acqua, la vita non sia riuscita in milioni di anni a trovare una forma esteticamente e funzionalmente decente, mentre tornando in acqua i mammiferi hanno assunto forme perfettamente integrate all’ambiente e, per quanto possa contare, di notevole eleganza, dando origine ai cetacei. Viene quasi il dubbio che in mare la vita sia più facile.

L’analisi scientifica fa in ogni caso risalire l’antica origine dei cetacei ad antenati terrestri apparentemente impensabili, vale a dire gli artiodattili, alias stambecchi, capre, cervi, ma anche ippopotami e cammelli. Strane parentele, ancor più sorprendenti se si considera la ricostruzione iconografica del Pakicetus, considerato il primo cetaceo mai apparso sulla Terra, una sorta di protobalena più simile a uno strano cane dotato di denti triangolari come quelli di alcuni squali che ad un essere marino.

Mammiferi a parte, sempre considerando questo interscambio terra-mare, non manca poi chi, nell’indecisione, abbia scelto l’ambivalenza, come le tartarughe, rettili passati dalla terraferma all’acqua pur mantenendo un piede a terra per deporre le uova (come fanno le tartarughe propriamente dette), mentre le testuggini, loro congiunte di primo grado, sono rimaste a terra ma non hanno ancora capito bene come muoversi con un po’ di destrezza. Del resto l’evoluzione ha le sue leggi, è spesso lenta, ma mira sempre nel giusto, per cui fra qualche milione di anni non è detto che non vedremo testuggini correre come gazzelle nelle nostre pianure.

Dolomiti un reef sulle montagne

Che la roccia possa aver conservato in un’immagine di morte una testimonianza di vita che ha attraversato milioni di anni per arrivare fino a noi, è una delle cose più affascinanti che ci regala la paleontologia. E a tale proposito, ci sia concesso un breve excursus che ci riporta a una situazione a noi geograficamente molto vicina, anche se oggi molto diversa dall’originale.

Poco meno di 300 milioni di anni fa, cioè prima che i vari movimenti tellurici ne stravolgessero la morfologia, le Dolomiti non si ergevano verso il cielo con le loro spettacolari cime innevate, ma erano piuttosto un piccolo mare tropicale con tanto di reef annesso in cui si aggiravano pesci, alghe e invertebrati non molto diversi da quelli attuali. A darcene straordinaria testimonianza sono i giacimenti fossili creati dai depositi sedimentari accumulati fra le rocce e nell’area prealpina. Una spettacolare testimonianza del fenomeno si può vedere nella Pesciara di Bolca e nell’attiguo Museo dei Fossili o meglio ancora nel Museo di Storia Naturale di Verona la cui collezione di 9.400 esemplari merita sicuramente una visita.

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