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Come navigavano gli antichi, l’uomo e il mare

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Navigare necesse est, dicevano i Romani, ma che fosse la ricerca di nuove prede o solo la voglia di avventurarsi nell’ignoto, la storia dell’uomo si è legata al mare fin dal passato remoto della sua esistenza.

Difficile immaginare l’emozione e il timore di quel primo uomo che, probabilmente a cavallo di un tronco d’albero, si staccò dalla terraferma per avventurarsi sia pur di pochi metri in un mondo a lui del tutto sconosciuto. Tanto più che, poverino, probabilmente non sapeva neanche nuotare.

Eppure qualcuno nella notte dei tempi l’ha fatto: qualche primitivo, in modo altrettanto primitivo, ha dato il via alla storia della navigazione, progredita poi nei secoli passando dalle piroghe scavate nel legno ai sottomarini atomici. Lasceremo però che a occuparsi di questi ultimi – fermo restando il loro innegabile fascino – siano altri, preferendo in questo contesto fare un piccolo viaggio in quel mondo della navigazione antica che dai primordi dell’età del legno arriva alle navi onerarie e militari dell’epoca romana. Un’età, quella del legno, non contemplata nella suddivisione epocale della preistoria ma, nauticamente parlando, comunque imprescindibile dato che in quel passato remoto né la pietra, né il rame, né il bronzo né il ferro erano di qualche utilità per affrontare il mare.

L’antico porto di Ostia, nella ricostruzione qui sopra, era lo scalo naturale delle flotte commerciali e militari di Roma con cui era in diretto collegamento fluviale.

Le difficoltà

Oggi che con i moderni chartplotter poco ci manca che si possa fare anche il caffè, è difficile immaginare quali difficoltà ponesse la navigazione in tempi in cui le uniche certezze erano il sole e la luna, oltre al vento che con la sua irregolarità poneva non pochi problemi.

Ecco perché se da un lato possiamo sorridere di quei primi antichi approcci al mare, dall’altro dobbiamo ammirare il coraggio e l’abilità di quei primi navigatori che si trovarono a fronteggiare non solo le difficoltà pratiche ma anche quelle psicologiche generate dall’affrontare l’ignoto. Tutto ciò che era inspiegabile si trasformava infatti, nell’immaginario collettivo, in qualcosa di mostruoso.

Ecco allora Scilla e Cariddi, che come racconta Omero “…del mare inghiottiva l’onde spumose”. Più a Nord c’era il Maelstrom, il Cariddi del Baltico, uno spaventoso vortice che conduceva direttamente alla terra dei morti, mentre a Est si temevano passaggi orlati di scogli che potevano chiudersi drammaticamente come un’immensa porta, stritolando le navi di passaggio. Così almeno Ovidio descrive il Bosforo.

Un’immagine delle paludi della bassa Mesopotamia (Hor-al-Hammar) alla confuenza del Tigri e dell’Eufrate, dove da oltre 5000 anni sopravvive una popolazione che, adattatasi all’ambiente, costruisce barche del tutto simili a quelle di migliaia di anni fa.

Quando l’uomo, pur ignorando la legge di Archimede, scoprì che certi materiali e certe forme potevano vincere la liquidità del mare, nacque la preistoria della navigazione di cui l’archeologia ci da ampie testimonianze fin dalle fasi finali del paleolitico superiore, come testimonia l’immagine di una barca intagliata in un corno di renna e rinvenuta ai confini fra Germania e Danimarca.

Il primo passaggio fu quello che portò dall’occasionale tronco d’albero alle prime piroghe monoxili scavate nel legno, più adatte ad acque lacustri che al mare, anche se pare che con simili “imbarcazioni” ci fu chi dalle coste tirreniche raggiunse la Sardegna. Poi, per avere maggior stabilità, si unirono due piroghe a formare il primo catamarano della storia, o si costruirono zattere, ma la storia è lunga, antica e inevitabilmente ricca di lacune.

1947: il Kon Tiki di Thor Heyerdhal attraversa il Pacifico in 101 giorni dal Pacifico alla Polinesia.

La descrizione omerica della flotta greca nell’Iliade, storia o leggenda che fosse con le sue 1186 navi, registrò la prima testimonianza entrata nella tradizione popolare offrendo anche qualche dettaglio tecnico, senza dimenticare che in quel tempo si navigava già lungo le coste del Mediterraneo, e non solo: abbiamo detto di quel che accadeva nei mari del Nord, ma saltando a Oriente si può anche ricordare che già nel neolitico i giapponesi si spingevano in mare aperto, ovviamente con scarso controllo sulle proprie imbarcazioni, tanto che si hanno testimonianze del fatto che alcune barche giapponesi, dopo aver superato indenni una tempesta, furono spinte da venti e correnti fino ad approdare in Equador. E qualcuno, probabilmente nelle stesse condizioni, arrivò dall’America del Sud alla Polinesia. Impossibile? Nel 1947 Thor Heyerdhal e il suo Kon Tiki, percorrendo la stessa rotta su una zattera costruita in balsa secondo le antiche tecniche, dimostrarono che l’ipotesi non era affatto immaginaria. E se è per questo non va sottovalutata l’ipotesi, per altro ben sostenuta da validi argomenti, che i Romani siano sbarcati in America, anche se nessuna di quelle navi tornò mai indietro.

La ricostruzione di un’antica nave oneraria romana.

Verso nuovi orizzonti

Navigare necesse est, dicevano gli antichi, e non solo per soddisfare l’eterna fame di conoscenza dell’uomo, ma anche per alimentare scambi commerciali e attività produttive. Noto fin dalla più profonda antichità è il commercio dell’ossidiana, di cui si avevano ampi giacimenti nelle isole Eolie, così come testi egiziani della IV dinastia ci raccontano come già nel 2650 a.C. fu organizzata una spedizione di 40 navi per raggiungere il Libano e approvvigionarsi di legno di cedro, utilizzato peraltro anche nella costruzione navale.

E quando nei millenni successivi si scoprì il bronzo, una lega di rame e stagno, nacquero una nuova esigenza e nuove rotte. Il rame era ampiamente presente nel Mediterraneo orientale (Cipro, l’antica Cuprum, ovvero rame, ne era particolarmente ricca), mentre molto meno facile da recuperare era lo stagno. Perciò, nuove rotte commerciali legarono l’Asia Minore alla Spagna, dove questo minerale era invece abbondante, sfidando gli attacchi dei pirati già allora molto attivi. Senza dimenticare, anche se confuso fra mito e leggenda, Giasone e i suoi 52 Argonauti partiti alla ricerca del Vello d’Oro, di cui però si ignorano rotte e destinazioni salvo che puntavano al Mar Nero.

Nell’antichità, il mare è stato indubbiamente fonte di grandi scambi culturali e commerciali ma anche di sostentamento. Se la pesca, o almeno un certo tipo di pesca, ha origini che si perdono nella notte dei tempi, può sorprendere che per Greci e Fenici la pesca del tonno rosso era pratica abituale e basata sulla conoscenza delle migrazioni lungo rotte fisse di questi pesci, che furono ben studiate da Aristotele. C’erano quindi tonnare fisse, non molto dissimili da quelle odierne, e c’erano barche costruite appositamente per la pesca di questo principe del mare.
Anche se il traffico marittimo era indubbiamente minimo, il Mediterraneo era un incrocio di rotte che andavano dalle coste fenicie, ovvero quelle libanesi, a quelle spagnole. E lì si fermavano, perché le Colonne d’Ercole, ovvero lo Stretto di Gibilterra, costituirono a lungo un limite invalicabile: al di là di esse c’era il grande ignoto, dove Ulisse aveva appena messo il naso e Platone aveva immaginato Atlantide. Invalicabili, quindi, ma non per tutti.

Quando si diffuse la notizia che i paesi del grande Nord erano ricchi di oro e di ambra, ci fu chi verso la fine del IV secolo a.C. partì da Massalia (Marsiglia) per raggiungere le terre baltiche. Si chiamava Piteas, ma di lui e della sua nave sappiamo assai poco, anche se dal suo viaggio riportò interessanti osservazioni scientifiche: fu infatti il primo a descrivere il sole di mezzanotte dei paesi iperborei e a collegare il movimento delle maree alla luna. Ad ampliare la conoscenza geografica verso Sud pensarono invece gli Egiziani nel VI secolo a.C., quando – come riferisce Erodoto – il faraone Necao mise esperti marinai fenici al comando di una spedizione che, partendo dal Mar Rosso, doppiando il Capo di Buona Speranza e rientrando in Mediterraneo da Gibilterra, dopo aver valutato la diversa posizione del sole nelle albe e nei tramonti, testimoniò che l’Africa è circondata dal mare (oggi, con l’apertura del canale di Suez è geograficamente un’isola). Ma di certo queste non sono le uniche testimonianze dell’insopprimibile desiderio d’avventura di chi contribuì già allora a diffondere le conoscenze di quel mare in cui oggi navighiamo tranquilli. Chissà quante altre incredibili avventure si sono perse nei secoli senza che la storia ne prendesse atto.

Come si navigava

Ma come si navigava in quei lontani secoli? Sicuramente dopo la pagaia delle antiche piroghe vennero remi più strutturati, spesso utilizzati in serie per imbarcazioni di maggiori dimensioni. Tuttavia, per quanto la forza umana potesse rendere, per compiere navigazioni più impegnative era necessario un qualcosa che assicurasse una spinta costante, necessaria anche per tempi e distanze impensabili per una pur nutrita e atletica serie di rematori.

Alcune riproduzioni di antiche navi egizie e romane; queste ultime costituirono un punto di forza per l’espansione dell’aquila imperiale, immortalate in innumerevoli bassorilievi.

E nacque la vela, necessariamente quadra, dato che quella cosiddetta latina fu in realtà inventata dagli arabi molti secoli dopo (a titolo di curiosità “latina” era solo una corruzione di “alla trina”, ovvero triangolare). Erano in ogni caso navigazioni lente, visto che si è stimato che in tempi omerici le navi potessero viaggiare a una media di 5-6 nodi e che solo con vento e mare formato in poppa potessero arrivare a sfiorare i 10.

Bassorilievo.

All’inizio, e non solo, le prime navi a vela dovettero vincere i capricci di venti e correnti, ma fino all’avvento del vapore fu questo l’unico mezzo di propulsione utilizzato, anche se occasionalmente per esigenze specifiche era necessario chiamare alla voga i rematori.

I remi restarono in realtà l’unica possibilità sia per governare le navi in battaglia – quando spesso si rendevano necessarie manovre repentine per sfuggire a un attacco o al contrario per attaccare con il rostro le navi nemiche – sia per le manovre all’interno dei porti. Far muovere le proprie navi non era però l’unico dei problemi se poi non si sapeva dove indirizzarle.

E la cartografia fu il successivo problema da affrontare in un tempo in cui l’unica bussola disponibile era quella rappresentata dal sole e dalle stelle a cui, con i primi astrolabi, si cercava di dare un senso. Purtroppo di quelle che sarebbero state straordinarie testimonianze storiche non ci è arrivato nulla: la frequenza dei naufragi e la facile deperibilità di papiri e pergamene esposte a difficili condizioni ambientali ne ha cancellato ogni traccia.

La manovrabilità delle antiche navi militari era scarsa e per questo, nei momenti cruciali della battaglia, le vele venivano ammainate e le manovre tattiche erano interamente affidate ai remi. L’importante era infatti riuscire ad affiancare la nave nemica per poter scatenare l’arrembaggio oppure speronarla con il rostro, causandone il rapido affondamento.

Tanto che la prima carta nautica di cui abbiamo concreta conoscenza è la cosiddetta “Carta Pisana”, risalente alla metà del 1200. è tuttavia certo che, sulla base dei resoconti dei viaggiatori e dei comandanti delle antiche navi, venissero tracciate delle mappe che, per quanto primitive e approssimative, davano un’idea del come muoversi.

Parliamo di carte poco più che locali ma effettivamente utili alla navigazione, sicuramente più di quelle immaginate da personaggi più celebri: Anassimandro di Mileto, il primo cartografo propriamente detto, elaborò un’immagine della Terra che la riproduceva come un immenso disco piatto completamente circondato dal mare, dentro il quale si trovavano tre continenti che a loro volta circondavano un mare interno (il Mediterraneo). Anassimandro, fra l’altro, era un filosofo e parliamo del 541 a.C. Ma se consideriamo che ancora oggi esistono i terrapiattisti!

In compenso anche nell’antichità la conoscenza correva rapida e già nel terzo secolo a.C. Eratostene di Cirene esibiva una cartografia del mondo antico – Mediterraneo compreso – più che credibile, tanto da destare assoluta meraviglia: ma come ha fatto a immaginare il disegno di mari e continenti senza neanche un satellite a dargli una mano? Era forse un alieno? Non basta tuttavia ritenerlo un genio (fra altre notevoli cose fu anche il primo a misurare la circonferenza della Terra, sbagliando di appena 250 stadi: ovvero 46.250 km contro i circa 40.000 calcolati oggi. È che del mondo antico sappiamo ancora poco e quel poco è spesso sottovalutato.

Nel mondo antico le ancore erano alquanto rudimentali e per la loro scarsa tenuta furono causa di molti naufragi: come queste utilizzate dai Romani.

Il pericolo dietro l’onda

Come navigavano quelle antiche navi? Sicuramente male e, se non fosse stato così, l’archeologia subacquea nata e cresciuta sulle migliaia di relitti sparsi per il Mare Nostrum non avrebbe avuto storia. Se già le possibilità di navigazione in mare aperto erano limitate dai capricci del vento e delle correnti, quando poi ci si trovava in prossimità delle coste con possibilità di manovra estremamente limitate, i naufragi erano all’ordine del giorno. E in alcuni punti talmente puntuali che, come ad esempio a Yassi Ada, in Turchia, esiste un reef quasi affiorante formato da cocci d’anfora accatastati e saldati l’uno sull’altro nei secoli dalle concrezioni marine, come meglio non potrebbero fare i polipi del corallo.

Ancore rudimentali della civiltà ittica.

Agli affondamenti causati dalle secche, si univano poi anche quelli dovuti alla scarsa tenuta delle ancore, considerando da un lato che la loro forma non offriva il massimo della tenuta e dall’altro che il peso non poteva essere eccessivo: dopo averle calate, infatti, dovevano anche essere recuperate a mano. E non era certo uno scherzo.
Dire che la navigazione era stimata appare un vistoso eufemismo: tutto quello che poteva fare un comandante, oltre ad affidarsi al movimento degli astri, era commissionare a un membro dell’equipaggio, specializzato nel suo compito, la misura della profondità – in nodi, proprio come la velocità – utilizzando una cima e un peso. Per le previsioni meteo ci si affidava agli aruspici e alla loro lettura delle viscere di qualche animale sacrificato per l’occasione: chissà se erano più precise di certe previsioni odierne?
In sostanza, trovandosi sottocosta in condizioni avverse, una nave era in pratica condannata. Prive di derive e con un armamento velico fin troppo essenziale, le navi dell’antichità non erano in grado di risalire il vento e, pertanto, restavano sottoposte ai suoi capricci.

Resti di navi giunte fino a noi, conservate nel Museo delle Antiche Navi di Pisa (sopra) o nel Museo Navale di Fiumicino (sotto).

Di conseguenza non era possibile prevedere la durata del viaggio né, men che mai, i pericoli che poteva nascondere una navigazione imprevedibile, considerando anche i frequenti attacchi dei pirati. Insomma, non esistendo assicurazioni, ci si affidava al benvolere degli dei. In compenso esisteva già all’epoca una discreta rete di segnalamenti luminosi. Viene spontaneo citare quello di Alessandria che, sorgendo sull’isola di Pharos, dette nome a questo genere di ausilio alla navigazione. Con i suoi 134 metri di altezza e oltre 26 miglia di portata, fu una delle sette meraviglie del mondo antico.

Come erano costruite

La prima piroga fu figlia del fuoco, nel senso che nacque dalla scoperta che proprio con il fuoco era possibile scavare un grosso tronco d’albero per adattarlo alla navigazione, anche se personalmente mi sono sempre chiesto come facessero, a quel tempo, data l’indisponibilità di motoseghe, ad abbattere tronchi d’albero con circonferenze di due o più metri. Il problema di queste prime imbarcazioni era indubbiamente l’instabilità e immaginiamo il terrore di cadere in acqua per gente che aveva problemi a restare a galla, tanto che furono inevitabilmente destinate a navigare unicamente nei laghi o nei fiumi, o in condizioni di mare assolutamente calmo.

Rostro

La soluzione, nauticamente parlando, avvenne prima con le zattere formate da più tronchi, poi con le barche realizzate con armature di legno e scafo costituito da una serie di pelli d’animale cucite fra loro intorno a un’ossatura; poi subentrò la tecnica del fasciame portante in cui, anziché modellare lo scafo sull’ossatura di chiglia e ordinate, come in fondo fa ancora oggi chi costruisce in legno, si collegavano direttamente le tavole attraverso incastri e legamenti, ovvero mortase e tenoni. Il timone era invece costituito da una coppia di grandi remi posti a poppa, uno per lato.

Un discorso a parte meritano le barche di papiro realizzate dagli antichi Egizi, che però, nel corso del III millennio, incominciarono a utilizzare il legno. Una straordinaria testimonianza di questo periodo è costituita dal ritrovamento della nave del faraone Cheope, “smontata” ma praticamente integra. Per questo motivo, le dedichiamo un riquadro a parte.

I Romani furono i primi ad introdurre l’abbordaggio, ovvero un tipo di combattimento a loro particolarmente favorevole: il corpo a corpo.Dopo aver affiancato la nave nemica, veniva calata di forza una sorta di passerella che agganciava il ponte del vascello nemico, consentendo il passaggio dei soldati.

Le decorazioni pittoriche rinvenute nell’isola di Santorini (peraltro una delle papabili location di Atlantide) già testimoniano nel XVI secolo a.C. la presenza di grandi navi in grado di affrontare il mare aperto. Del resto, la talassocrazia imposta da Minosse nell’Egeo, storia o leggenda che sia, dimostra già un’intensa rete di commerci marittimi. Cosa del resto più che comprensibile in un paese e in un mare punteggiato da centinaia di isole.
Pur bypassando le navi omeriche, è certo che già nel III secolo a.C. le tecniche di costruzione navale fossero piuttosto avanzate. Note, anche se purtroppo solo per tradizione letteraria, sono ad esempio le caratteristiche della Syracusia, una nave di ben 1.700 tonnellate di stazza progettata da Archimede. In pratica una megacorazzata dell’epoca: armata con tre alberi e dotata di un’immensa capacità di carico, era strutturata su tre ponti, aveva lo scafo rivestito di piombo per resistere agli speronamenti, era dotata di una gigantesca balestra, di bagni, biblioteca, e perfino di un piccolo tempio dedicato ad Afrodite.

Ma la cosa più divertente è che era dotata di un sistema a “vite di Archimede” per svuotare l’acqua della sentina. In porto, un mostro del genere aveva certamente serie difficoltà di manovra e, quando fu chiaro quanto fosse ingestibile, Gerone di Siracusa – che ne era l’armatore – la regalò a Tolomeo III d’Egitto. Primo esempio, in termini volgari, di una colossale fregatura.

Il passo più importante nell’antica cantieristica avvenne quando le navi, fino a un certo punto utilizzate per scopi prevalentemente commerciali, divennero importante strumento bellico. Tornando a citare Omero, potremmo ricordare quale portata aveva la flotta che partì alla conquista di Troia, che con ben 1.186 navi costituiva decisamente, come diremmo oggi, una bella potenza di fuoco. E poco cambia ricordando che parliamo di navi di piccolo tonnellaggio, peraltro destinate a trasportare non solo soldati, ma anche carri, cavalli, armi, cibo, vasellame, attrezzature da cucina e via dicendo.
Non c’è dubbio che i Greci furono i primi dominatori del Mediterraneo e la prima vera e possente nave da guerra – la trireme – nacque infatti a Corinto nel VII secolo a.C. trovando la sua prima grande affermazione nella battaglia di Salamina contro i Persiani.

Quando però le ali dell’aquila romana cominciarono ad allargarsi anche sul Mediterraneo non ce ne fu più per nessuno e i cantieri della città eterna fecero un po’ come i giapponesi dell’era moderna: cominciarono a copiare, migliorando tutto quello che c’era in giro, forti anche delle grandi riserve di legno fornite dalle provincie romane. E presto il Mediterraneo divenne il Mare Nostrum, non solo militarmente, ma soprattutto commercialmente. Via mare si trasportava di tutto, dalle più preziose opere d’arte (i famosi bronzi di Riace erano a bordo di una nave naufragata nei bassifondali calabresi) alle merci di scambio, dal marmo richiesto per le costruzioni più nobili alle spezie, dagli schiavi ai generi alimentari come il grano, l’olio e il vino per i quali nacquero navi specifiche, dette onerarie, nelle cui stive venivano impilate con grande maestria le anfore contenenti i prodotti, mentre i grandi dolia potevano contenere fino a 3.000 litri di vino.

Diverso il discorso per le navi da guerra, alle quali i Greci, come poi i Romani, richiedevano soprattutto velocità e manovrabilità, dato che la principale arma d’offesa era il rostro con cui si speronavano le navi nemiche. Erano quindi imbarcazioni leggere, dove la presenza di soldati armati era contenuta, considerando che l’abbordaggio era un’eventualità remota. Cosa che non fu invece per i Romani, che dell’abbordaggio fecero un’arte, affiancando con manovre perfette la nave nemica e agganciandola poi con i rampini per portarla murata contro murata e poi scatenare i propri milites navales (in pratica i marines dell’epoca) in un inferno di frecce, gladi, lance e probabilmente anche calci e cazzotti. Peraltro non si trattava di una tecnica casuale: i rostri affondavano la nave nemica causandone la perdita totale, l’arrembaggio consentiva invece di conservare la nave, catturarne l’equipaggio e incamerare le merci. Antica saggezza dei nostri progenitori.

Fra i più straordinari ritrovamenti archeologici, quelli della battaglia delle Egadi, conservati a Favignana, mostrano la dimensione delle navi e il rostro che ne costituiva l’arma letale.

Guerra e pace

Se il Mediterraneo è sempre stato riconosciuto come culla di civiltà, è anche vero che ogni civiltà nasce da due antitetici parametri: la guerra e la pace, in continua alternanza dall’età della pietra a oggi. Fermo restando che, se ieri come oggi il commercio non si è mai fermato anche in tempi di guerra, dal punto di vista cantieristico le differenze furono notevoli. Se i Fenici furono maestri del navigare ma senza mai diventare una potenza egemone, Roma, a partire dalla Prima Guerra Punica, spiegò nei secoli la più potente flotta mercatile e militare del mondo antico.

Le navi militari romane, costruite per essere leggere, veloci e soprattutto maneggevoli in modo da assecondare gli spostamenti tattici nel corso della battaglia, erano curate in modo particolare. I legni erano sceltissimi e tagliati solo durante certi periodi dell’anno: andavano dal pino al larice, dall’abete al cedro e alla quercia e venivano uniti con chiodi di bronzo per evitare la ruggine. Erano navi dal baglio relativamente ridotto rispetto alla lunghezza, armate a prua con un grosso rostro che costituiva la principale arma d’offesa, avevano un pescaggio ridotto che consentiva di avventurarsi anche su bassi fondali e montavano uno o due alberi armati a vele quadre.

Ma se le vele costituivano il motore sulle lunghe distanze, nel corso delle battaglie venivano ammainate per lasciare il compito ai rematori, che consentivano il posizionamento tattico e l’attacco diretto. Rematori che, contrariamente alla credenza popolare, non erano schiavi ma uomini liberi scelti per la loro prestanza fisica. Ed erano tanti: sulle grandi triremi lunghe fino a 40 metri per 6 di larghezza, che costituivano la vera forza della flotta romana, si arrivava ad avere 180 rematori suddivisi – lo dice la parola stessa – su tre ordini di remi. Da notare che la flotta romana annoverava però anche navi a quattro e a cinque ordini di remi, specie di corazzate dell’epoca, più adatte per la scarsa maneggevolezza a fungere da supporto ai lunghi assedi che alle vere e proprie battaglie navali. Alquanto diverse, le navi onerarie erano destinate al trasporto commerciale (o a volte militare) e avevano un diverso rapporto fra lunghezza e larghezza. Erano in pratica un po’ più tozze e navigavano prevalentemente a vela utilizzando i remi solo in fase di manovra o in caso di bonaccia.

Erano anche navi di grandi dimensioni (la Isis descritta da Luciano era lunga 53 metri, larga 14 e dalla chiglia al ponte misurava ben 13 metri), esteticamente goffe, lente nelle manovre, ma con grandi capacità di carico: non a caso, fu una di queste onerarie che portò a Roma dall’Egitto, adagiato su un letto di grano, l’obelisco che domina oggi Piazza San Pietro.

Erano anche navi molto lente che non potevano risalire il vento, perciò, a volte, viaggi che in andata con la spinta favorevole del vento potevano richiedere una settimana, al ritorno potevano richiedere mesi. Pur essendo suddivise in varie tipologie, le antiche onerarie romane avevano caratteristiche costruttive simili. Lunghe in genere, salvo eccezioni, 20-25 metri, avevano una carena molto tondeggiante con un forte pescaggio (circa 3 metri a pieno carico), con un baglio generoso per consentire grandi volumi di carico, ed erano armate di base con un albero a vele quadre e con un albero di prua inclinato, quasi fosse un bompresso, con una piccola vela anch’essa quadra. Il timone, come sempre all’epoca, era costituito da due cosiddetti “timoni latini” collegati tra loro, così che potessero essere gestiti da una sola persona, mentre la carena era rivestita da lastre di piombo o di rame per proteggerla dall’azione distruttrice delle teredini.
Primo esempio, per quanto anomalo, di trattamento antivegetativo.

Il relitto del Mar Nero

Il relitto del Mar Nero

L’hanno ribattezzata un po’ enfaticamente la “Nave di Ulisse” ma, al di là della suggestione di una tale ipotesi, non esiste alcuna certezza.
Quello che è certo, invece, è che la nave, sicuramente greca, ritrovata a oltre 2.000 metri di profondità sul fondo del Mar Nero, è il più antico relitto integro mai scoperto al mondo.

E se non bastasse, il suo incredibile stato di conservazione ne fa una vera miniera di informazioni storiche, anche se parliamo di una miniera che deve ancora svelare i suoi tesori, se non altro perchè il recupero di un relitto a quella profondità non è certo una passeggiata.

Nel frattempo possiamo ricordare che il ritrovamento è avvenuto al largo delle coste bulgare, nel corso di una spedizione del Black Sea Maritime Archaeology Project (MAP), e che il suo straordinario stato di conservazione (albero e timone sono ancora al loro posto) è dovuto alla totale mancanza di ossigeno – e quindi di batteri – che caratterizza le alte profondità del Mar Nero.

Scoperta con l’aiuto di due ROV, che ne hanno tracciato anche il profilo con la tecnica della fotogrammetria, la “Nave di Ulisse” è lunga 23 metri e la datazione al carbonio-14 la fa risalire a circa 2400 anni fa.

La nave di Cheope

La Nave di Cheope

Nella primavera del 1954, nell’ambito di un’estesa campagna di scavo sulla piana di Giza, l’archeologo egiziano Kamal al-Mallakh scoprì una grande fossa sigillata in prossimità della base della piramide di Cheope. Al suo interno, quelli che subito apparirono come gli elementi costruttivi di una nave completa: tavole di cedro del Libano, cavi di varie forme, cesti, remi eccetera, per un totale di ben 1.224 pezzi – circa la metà dei quali preassemblati – disposti su tredici strati. Occorsero circa dieci anni per completare il lavoro di restauro e montaggio e ben ventotto per presentarlo al pubblico nella sua forma attuale.

Il Museo della Nave di Cheope, che infatti fu inaugurato solo nel 1982, si trova lungo il lato sud della Grande Piramide, esattamente sulla verticale della fossa del ritrovamento. Con la sua lunghezza di 43,60 metri fuori tutto e un baglio massimo di 5,95 metri, essa costituisce un unicum assoluto. La prima domanda che ci si pone, osservandola nel suo sbalorditivo stato di conservazione, è se originariamente sia stata costruita per navigare oppure se si tratti di un modello al naturale destinato esclusivamente agli scopi magici e rituali legati al mondo dell’aldilà.

Ebbene, si può affermare che la nave non soltanto sia “vera”, ma che porti addirittura i segni di un suo utilizzo effettivo sulle acque del Nilo. Sulla base del peso misurato di ciascun suo componente, si può stimare che il dislocamento in acqua dolce a pieno carico fosse di circa 50 tonnellate e che il bordo libero – perfettamente a mezzanave – fosse di poco inferiore al metro. Sotto il profilo costruttivo siamo di fronte a uno scafo che potremmo definire sostanzialmente “autoportante”, in quanto, come voleva la tradizione più antica, ancora basata sull’esperienza delle imbarcazioni di papiro, manca una vera e propria ossatura composita, che incomincerà timidamente a comparire circa 1000 anni più tardi.

Infatti, le due vistose “pernacce” che si stagliano alle estremità dello scafo non sono affatto il prolungamento di dritti di prora e di poppa (come invece si riscontra nella maggior parte delle barche di legno dotate di chiglia); al contrario, sono elementi aggiunti a puro scopo decorativo. Ecco perché le tavole di fasciame sono fissate tra loro mediante cavicchi e caviglie, cavi di canapa intrecciata e bende di cuoio, al fine di ottenere nello stesso tempo una discreta compattezza d’insieme e un effetto impermeabilizzante paragonabile a quello del calafataggio.

La nave di Cheope

Mancando del tutto un’attrezzatura velica, la propulsione era affidata unicamente a cinque coppie di remi della lunghezza di circa 6,50 metri, mentre un’altra coppia, questa volta della lunghezza di 8,50 metri, era destinata a fungere da doppio timone. Di certo, lo scafo non poteva navigare se non sulle placide acque del Nilo: in linea di principio, tra il Delta e la prima cateratta, come a dire tra Menfi e l’isola di Elefantina.

Tuttavia, la semplicità dell’armamento in rapporto alla massa complessiva dello scafo suggerisce un impiego ancor più circoscritto, destinato allo svolgimento di cerimonie formali: utilizzando i remi per risalire la corrente verso Sud, con il modesto aiuto del vento; lasciandosi portare dalla corrente verso Nord, governando con i lunghi timoni a mo’ di pertiche, proprio come si fa tutt’oggi con le feluche che solcano il Nilo lungo tutto il suo percorso.

Considerando l’imponenza e la ricchezza di questa meravigliosa nave, non si può escludere che essa sia stata utilizzata anche per l’ultimo viaggio del suo regale armatore: quello che, dopo il lungo rituale della mummificazione, lo condusse dal suo palazzo fino alla necropoli di Menfi dove, ad attenderlo, c’era la più prodigiosa sepoltura mai costruita dall’uomo.
c.co.

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