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Tecniche di vela, al timone con mare formato

tecniche di vela

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Onde che spingono all’orza, acqua turbolenta sul timone, mare che frange.

Timonare con mare grosso richiede concentrazione e tecnica. E un bel po’ di esperienza.

Il cattivo tempo in mare ha ben poco a che vedere con la pioggia e il freddo. Più correttamente, non sono sufficienti questi due elementi per definire una situazione di difficoltà. Una giornata piena di sole e spazzata da una forte maestralata sarà meravigliosa per chi se la gode sorseggiando un the ai tavolini di un bar; la vivrà diversamente chi in mare dovrà fronteggiare una burrasca forza 8 con onde di 4 o 5 metri al largo del Golfo del Leone, seppure innondato di sole. Il cattivo tempo, per chi naviga, è definito da una situazione in cui la navigazione diventa dura per la barca e il suo equipaggio.

Anche la sola intensità del vento, per quanto sia un’informazione indispensabile per navigare in sicurezza, non indica necessariamente una condizione di estrema difficoltà. Navigare con un forza 9 vicini a una costa sopravvento, è profondamente diverso dal farlo con molto fetch, ossia con un’ampia distanza di mare su cui il vento soffia senza trovare ostacoli alzando onde alte e, quando i fondali si abbassano, anche frangenti.

Infine, seppure oggettivamente ci si trovi in condizioni di burrasca, il tipo di imbarcazione su cui ci si trova e la preparazione del comandante e del suo equipaggio fanno la differenza sul grado tensione con cui si affrontano le varie manovre. In tutti i casi, l’elemento di maggior rischio e difficoltà che ci si trova di fronte, in caso di cattivo tempo, è il mare formato.

Fatta questa premessa e ricordato come le più precise previsioni meteorologiche espongano oggi i navigatori a minori rischi di incappare in burrasche inattese, resta il fatto che le mutazioni climatiche e le variabili meteo, soprattutto in Mediterraneo, non azzerano i rischi di trovarsi in condizioni difficili. Sul numero 691 di Nautica, abbiamo dato indicazioni su come preparare la barca e l’equipaggio. Ma una volta che ci troviamo in mezzo, quali tecniche deve mettere in atto il timoniere?

Fuggire la burrasca

Una buona tattica da adottare, anche se non sempre possibile, è quella di fuggire alla burrasca, ossia navigare con andature portanti, tenendo il vento e il mare al giardinetto. è una scelta a volte obbligata dalla durezza delle condizioni, quando queste sono tali da impedire la possibilità di risalire vento e mare; in ogni caso è comunque preferibile a una bolina, che sottopone equipaggio e attrezzature a stress molto più elevati. è un’andatura che si può assumere a condizione che sottovento ci sia acqua libera, con tratti di costa sufficientemente lontani da non rappresentare un rischio. In previsione certa o molto probabile di cattivo tempo, è quindi prudente scegliere una “rotta meteorologica” che permetta, quando la situazione si fa dura, di poggiare e fuggire al mare grosso.

Abbiamo descritto una situazione di questo genere raccontando il nostro long test del Sun Odyssey 409 lungo la rotta Scarlino-Barcellona (Nautica n. 681, gennaio 2019). In quella occasione, avevamo valutato che dopo poche ore dalla partenza le condizioni meteo sarebbero andate progressivamente peggiorando fino a raggiungere un vento oltre i 35 nodi e mare da Nord con onde di altezza significativa superiore ai 3 metri. La scelta è stata dunque quella di seguire una rotta – meteorologica, appunto – che ci consentisse nella prima giornata di tenere una bolina per quanto possibile stretta, in modo da recuperare acqua verso Nord per poi avere lo spazio per poggiare e tenere il mare più formato in poppa. Qualche decina di miglia in più ma una maggiore condizione di sicurezza nelle ore di maggior difficoltà.

Fuggire alla burrasca, anche quando non è una scelta obbligata, comporta il grande vantaggio di risparmiare fatica a equipaggio e ad attrezzature. Lo svantaggio è dato dall’andatura tendenzialmente più instabile. Le onde che colpiscono la barca al giardinetto imprimono alla poppa una pressione che spinge lo scafo all’orza. Una tendenza molto accentuata su barche classiche, con poppe più strette e slanci pronunciati.

Il lavoro del timoniere, in questi casi, è incessante e la sua efficacia dipende dall’esperienza di navigazione con mare formato e dalla sensibilità con cui riesce ad anticipare e correggere le spinte all’orza impresse alla barca dalle onde. Nel caso in cui si faccia sorprendere, il rischio è che perda completamente – per alcuni lunghissimi secondi – il controllo della barca, che finisce per straorzare esponendo pericolosamente le fiancate al mare.

Non farsi sorprendere significa anticipare l’azione sul timone per mantenere l’andatura e contrastare la spinta impressa dall’onda. Il timoniere deve quindi gradualmente orientare alla poggia il timone quando avverte – quasi intuisce – l’arrivo dell’onda sul giardinetto. Successivamente, quando la barca inizia a scendere nel cavo, deve riportare la barra all’orza, realizzando un continuo gioco di poggia-orza per mantenere andatura e rotta.

L’importanza della velocità

Quando si fugge al maltempo, la corretta velocità è un elemento fondamentale della sicurezza. Se si è troppo veloci e il periodo dell’onda è breve, il rischio è quello di infilare la prua nell’acqua. Viceversa, se si è troppo lenti, l’onda risulta più veloce della barca e la spinta che ne deriva determina una condizione di instabilità e di difficoltà di governo; se poi si tratta di frangente, ovvero della cosiddetta onda di traslazione, può succedere addirittura che il flusso d’acqua sulla pala del timone (o su parte di essa) si inverta, cioè non più da prua verso poppa ma contrario, determinando un effetto evolutivo opposto a quello desiderato.

A ciò si può aggiungere l’effetto che, in linea di principio, si produce per la diversa esposizione della velatura al vento, a seconda che lo scafo si trovi sulla cresta o nel cavo d’onda, dove peraltro aumenta il rischio che un frangente possa rompere in pozzetto.

Ridurre al massimo la tela a riva mentre si fugge al cattivo tempo non è in assoluto la scelta migliore, poiché occorre comunque averne a sufficienza per mantenere la barca veloce e manovriera. Quanta vela dare? Non esistono formule, perché le variabili riguardano, oltre che le condizioni meteo, anche le linee d’acqua dello scafo e il tipo di armo. Navigare solo con una vela di prua ridotta abbassa la componente di spinta all’orza quando sopraggiunge l’onda al giardinetto e anche lo sbandamento nelle rollate sottovento; il rischio è però quello di essere troppo lenti e quindi di avere poca potenza per uscire dal cavo dell’onda.

Nulla ci vieta di farci aiutare dal motore, lavorando con la manetta quando serve più spinta, consapevoli del fatto che il forte rollio ci espone a problemi con la messa in circolo di morchia nel serbatoio con conseguente ostruzione del filtro del carburante.

Risalire la burrasca

Durante il già citato long test, avevamo scelto di risalire con una bolina quanto più possibile stretta per poter poggiare quando le condizioni, come previsto, si sarebbero fatte più dure. Una scelta ragionata che ci ha portato a navigare per tutta la notte e parte della mattina successiva mure a dritta con vento e mare via via più forti. Fino al punto di riuscire a mantenere una bolina larga risalendo una burrasca forza 8. Una scelta consapevole, dettata dalla ragionevole certezza che le condizioni sarebbero peggiorate e sarebbe stato molto più difficile, se non impossibile, risalire la burrasca facendo rotta su Barcellona nelle ore successive.

Anche in questo caso è di fondamentale importanza avere un assetto corretto dal punto di vista della superficie velica esposta. È, come sempre, la barca a dirci che cosa le serve. Se il timoniere si accorge che deve tenere costantemente la barra alla poggia per mantenere l’andatura, deve scaricare pressione dalla rada, riducendola ulteriormente o ammainandola. Navigare di bolina larga solo con un piccolo fiocco, pur pagando un prezzo in termini di angolo e scarroccio, non significa infrangere un tabù. Si può fare. Anzi, con vento teso e onde non troppo alte e corte, può essere una buona soluzione per mantenere la velocità e ridurre la fatica e lo stress sulle braccia del timoniere e sull’attrezzatura.

Se navighiamo con fiocco e randa, dobbiamo riuscire a raggiungere il miglior equilibrio possibile, tenendo conto che la vela di prua è importante per avere giusta potenza e buona manovrabilità, ma anche che, se esposta in eccedenza, può contribuire ad aumentare il beccheggio. Spesso, sulle barche da crociera non si hanno a disposizione fiocchi più piccoli né tantomeno una tormentina. Ci si deve quindi limitare a ridurre rollando il genoa, ottenendo una vela che non è più regolabile sulla tensione della drizza e che, chiudendosi, porta più in alto il centro velico richiedendo una maggiore riduzione rispetto a quanto sarebbe necessario, per non accentuare lo sbandamento.

Con la barca in equilibrio, il timoniere deve “lavorare” l’onda con la stessa alternanza orza-poggia che abbiamo considerato prima. La necessità è quella di orzare salendo sulla cresta e poggiare velocemente, anche di 10/15 gradi, scendendo nel cavo, per evitare che lo scafo ricada sull’acqua con un impatto violento e molto dannoso. Per fare in modo che le continue poggiate, più accentuate rispetto alla conduzione all’orza che si realizza quando si sale sull’onda, non ci spingano troppo sottovento, dovremo cercare di stare sempre leggermente sopra alla rotta ideale. Anche in questo caso si tratta di un lavoro continuo, fisico e mentale, che richiede esperienza e concentrazione.

Onde: cosa è l’altezza significativa

È l’altezza dell’onda che viene indicata nei bollettini ed è calcolata come media di un terzo di una certa quantità di onde più alte (più frequentemente 40 su 120). Nella pratica, si mettono in scala crescente le altezze misurate dalle boe in una determinata area, si fa la media del terzo più alto e si individua l’altezza significativa. Semplificando si dice che è l’altezza media delle onde in quel tratto di mare.

È il valore significativo, appunto, perché il più stabile, ed è molto diverso dall’altezza massima di un’onda che può essere anche il doppio di quella significativa. Se navighiamo in un tratto di mare in cui sono previste onde di 3 metri, dobbiamo quindi essere consapevoli che potremo incontrare anche onde di altezza fino a 6 metri.

Per misurare a occhio l’altezza di un’onda, possiamo posizionarci in un punto della barca di cui conosciamo l’altezza sul livello del mare, possibilmente un punto protetto se c’è mare mosso. Se stiamo in piedi, sommiamo la nostra altezza a quella della barca e la rapportiamo all’altezza della cresta. Una misurazione molto empirica, soggetta a errori grossolani, indotti soprattutto dal rollio e beccheggio della barca, ma che se ripetuta più volte, si avvicina alla misura corretta.<p style=”text-align: center;”></p>

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