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Questioni d’ormeggio, ferma e sicura in porto

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Apparentemente banale, la sistemazione della barca all’ormeggio richiede invece una serie di attenzioni mirate sia alla sua sicurezza sia a renderne funzionale l’utilizzo.

È sicuramente uno dei momenti più imbarazzanti per il diportista, con un range di tensione che può andare dalla leggera preoccupazione per i più esperti al forte imbarazzo per il principiante, con la possibilità di trasformarsi in terrore puro se al momento di entrare all’ormeggio in un marina ci si trova preda di qualche forte raffica di vento.

Capita a tutti, non c’è da vergognarsi e, se serve, nessun problema a chiedere l’aiuto del gommone degli ormeggiatori o, se presente, dell’equipaggio delle barche vicine. Poi finalmente con la barca ben salda e sicura, sistemate le cime, si tira un sospiro di sollievo: tutto a posto, fine dei giochi…o no?, Beh, forse anche no, perché per essere tranquilli all’ormeggio e vivere sereni anche quando saremo a qualche centinaio di chilometri dalla nostra barca, ci sono da considerare un po’ di cose, manovre e attrezzature che possono in realtà essere utili in molte altre circostanze ma che di certo non possono essere ignorate nella considerazione generale del nostro ormeggio.

“San” parabordo

Partiamo allora dall’inizio, ovvero dal momento in cui presa la direzione per entrare nel nostro posto barca avremo preso anche quell’abbrivo che ci concederà maggior controllo di manovra, pronti a naturalmente a smorzarlo con un colpetto di marcia avanti. E’ il momento in cui entrano in gioco i parabordi, un ingombrante ma benedetto accessorio destinato a salvaguardare le fiancate (e non solo) della nostra barca. Quanti ne servono? Quanto devono essere grandi? Come devono essere fissati? Dove riporli in navigazione? Le domande non si esauriscono certo qui, per cui andiamo per gradi.

Poiché il loro scopo è quello, come dice la parola stessa, di proteggere lo scafo da eventuali errori di manovra, la prima domanda da porsi è sul numero necessario che, ovviamente è anche funzione delle dimensioni dell’imbarcazione. Poiché non stiamo parlando ai comandanti di megayacht ma ai meno esperti diportisti d’ogni giorno, parliamo anche di imbarcazioni medie che possano andare dagli 8-10 ai 13-15 metri, con un’ulteriore distinzione fra vela e motore. In quest’ultimo caso, infatti, le manovre d’ormeggio sono notevolmente semplificate dalla doppia motorizzazione, se presente, mentre elica di prua (utilizzata anche su molte barche a vela) e joystick possono facilitare ulteriormente la manovra.

Di norma l’ideale sarebbe avere tre parabordi per lato, che posizionati a prua, sul baglio massimo, e in prossimità della poppa dovrebbero essere sufficienti a proteggere qualche errore di manovra. Certamente meglio, nel caso di ormeggi difficili, magari sotto raffica, se coadiuvati dalle volenterose braccia dei parabordi umani, alias qualche membro dell’equipaggio in grado di “parare” la barca prima che strusci la fiancata della barca vicina.

E’ un compito a cui l’equipaggio va preparato perché bisogna sapere dove mettere mani e piedi, sia per la salvaguardia delle proprie estremità sia per evitare di storcere candelieri, pulpiti e accessori vari di coperta, propri e altrui. Ragion per cui non deve meravigliare se in certe circostanze nel novero dei parabordi umani entrano anche, per propria tranquillità, gli equipaggi delle barche vicine. E sempre per tranquillità si può anche arrivare ad avere quattro parabordi per lato, se non addirittura cinque nelle barche più grandi, laddove i più esperti, forse esagerando, ne montano solamente due a tutto vantaggio dello stivaggio in navigazione, che spesso è un vero e proprio problema.

Estetica e funzionalità

Il problema è in effetti estetico e strutturale. Sulle barche a motore si sfruttano (a volte) i gavoni appositamente concepiti, ammesso che siano sufficientemente spaziosi perché i parabordi di spazio ne prendono molto, mentre alcuni cruiser montano griglie portaparabordi, generalmente a prua, che risolvono brillantemente il problema.

Quando lo spazio non è sufficiente si assiste al triste spettacolo di barche che navigano con i parabordi appesi, o eventualmente ammucchiati a prua o a poppa.

Il velista, di solito amante di un certo stile marinaro, normalmente aborrisce certe situazioni, ma certo anche lui ha i suoi problemi. Perché se i gavoni sono spesso pieni delle mille cose che servono su una barca a vela, incluse quelle inutili per acclamazione, gli resta a disposizione la battagliola lungo la quale, se sapientemente fissati, i parabordi non solo restano pronti all’uso, ma non creano neanche forte disturbo estetico. Il problema è che una barca a vela sbanda e rolla per antonomasia e se qualche parabordo può essere tenuto a freno da un candeliere, altri sono destinati a finire fuoribordo alla prima sbandata.

Ganci e cimette elastiche, sapientemente fissate all’occhiello terminale possono risolvere brillantemente il problema: montati obliqui con la stessa diagonale lungo la fiancata diventano quasi un elemento decorativo. A proposito di estetica, però, va tenuto presente che i parabordi, in certi ormeggi più che in altri, tendono a sporcarsi e su alcuni non si sa bene come arrivano a formarsi perfino dei denti di cane. Indimenticabile come in un marina di rinomata fama mi sia ritrovato la barca ritirata due giorni prima con la fiancata rigata dai parabordi pieni di incrostazioni del vicino, che aveva avuto il “buon gusto” di partire, o meglio sparire, all’alba.

Per la cronaca impossibile rintracciarlo data la scarsa disponibilità della marina, che ovviamente non si è assunta alcuna responsabilità. Tenere puliti i parabordi non è quindi solo un fatto estetico, pertanto la soluzione più semplice è quella di proteggerli con una “calza” che può essere facilmente lavata o sostituita. Varie in ogni caso le possibilità anche nella scelta del parabordo, che può avere diverse forme, anche se la più utilizzata in assoluto per le fiancate è quella cilindrica, in grado di assecondare meglio lo scorrere delle fiancate stesse nelle fasi terminali dell’ormeggio, mentre il classico “pallone” resta utile piazzato nelle zone più svasate dello scafo e soprattutto nella plancetta poppiera, per la quale esistono tuttavia parabordi specifici. Parliamo comunque di parabordi gonfiabili in PVC, ma esistono anche parabordi piatti in espanso, generalmente di forma rettangolare, che però a modesto parere personale offrono meno protezione anche se poi hanno l’indiscutibile vantaggio di poter essere stivati con maggior facilità.

Nell’ambito dei parabordi “fuori ordinanza” vanno poi considerati anche quelli dedicati alla prua, figli della moderna architettura navale che ha eliminato gli slanci prodieri in favore di prue dritte come un fuso a tutto vantaggio di abitabilità e velocità dell’imbarcazione, che creano però non poche difficoltà al momento di salpare l’ancora. Anche se qualcuno non disdegna di ormeggiare di prua, la funzione principale di questi parabordi, purtroppo esteticamente poco gradevoli, è in effetti quella di proteggere la prua di queste barche dai rimbalzi dell’ancora nel momento in cui esce dall’acqua, quasi inevitabili durante il salpamento del ferro in presenza di onde. Tanto che queste barche a prua dritta hanno generato una nuova specializzazione nautica: quella dell’”anchor man”, che non è un grande comunicatore, ma quel membro dell’equipaggio che dopo lunga esperienza e dopo aver massacrato diverse prue è ora in grado di gestire magistralmente l’ancora nei suoi ultimi metri di catena a colpi di telecomando…evitando disastri.
L’utilità di un parabordo dipende anche dal suo posizionamento in altezza, che sarà necessariamente variabile a seconda delle circostanze, ma per il quale vige la regola generale di posizionarlo in modo che la testa sia all’altezza del bottazzo. Una buona lunghezza della cima consente di regolarlo nel caso in cui ci si trovi affiancati a barche fuori dimensione o a banchine molto basse, come a volte capita ai distributori di carburante, quando fidarsi dei parabordi del pontile – spesso sporchi e molto duri – è sconsigliabile. Naturalmente perché il parabordo svolga il suo ruolo è necessario che stia al suo posto, il che equivale a fare un nodo sicuro, ma anche facile da sciogliere perché spesso capita di dover cambiare posizione o altezza.

Il nodo più pubblicizzato è il classico “parlato”, che nella sua versione classica ha però il difetto di non sciogliersi con rapidità e facilità, mentre nella versione “ganciata” può essere sciolto tirando semplicemente l’avanzo della cima corrente. In questa versione, decisamente più pratica e veloce, e quindi più marinaresca, bisogna solo fare attenzione quando la cima è nuova e ha quindi poco attrito, poiché potrebbe sciogliersi. Per l’attacco della cima al parabordo, invece, un’impiombatura sarà sicuramente più elegante, ma per semplificarsi la vita basta un semplice nodo di bolina. Prima di chiudere il discorso sui parabordi, vale la pena accennare a qualche possibile uso alternativo. In caso di caduta in mare, ad esempio, prima di sciogliere e lanciare in acqua il salvagente d’ordinanza, manovra non sempre velocissima, può risultare molto più rapido lanciare a mare un parabordo. Lo stesso parabordo, collegato al diamante dell’ancora, può servire a segnalarne la posizione in una rada affollata, o anche a evidenziare una lunga cima di tonneggio, utilizzata per stabilizzare lo scafo. Senza contare che appoggiato nell’angolo del pulpito di poppa un parabordo a pallone risulta un ottimo appoggio per la schiena durante la navigazione.

Una cima per amica

A questo punto se avete già posizionato il corpo morto, si può perfezionare l’ormeggio regolando al meglio le cime. Già, le cime. Si fa presto a dire cima! Perché in effetti si presta sempre la massima attenzione a scotte, scottine, drizze e via dicendo, mentre per le cime da ormeggio va bene tutto…il che in linea di massima è anche vero, però qualche approfondimento non guasta. Anche in un marina sicuro e ben sorvegliato, è intuibile che per la sicurezza della barca la qualità dei cavi da portare a terra sia fondamentale, così come la loro maneggevolezza che è necessaria a dare volta con rapidità, fermo restando che non c’è cima che garantisca sicurezza se mal posizionata.

Cominciamo allora col dire che una cima di diametro contenuto, lunga, morbida e leggera, magari da passare velocemente a doppino, può servire grazie alla sua maneggevolezza per un ormeggio temporaneo, come quello per la messa a punto del corpo morto. Poi occorre passare a una cima più seria che, per capirci, per una barca dai 10 ai 15 metri non può essere inferiore ai 14-16mm di diametro e, soprattutto, deve essere coadiuvata da un ammortizzatore d’ormeggio, spesso volgarmente chiamato “mollone”.

Un marina offre nella maggior parte dei casi un ormeggio sicuro, ma nessun ormeggio può essere del tutto tale quando mare e vento diventano pura violenza. Senza arrivare ad alcuni devastanti episodi del recente passato, va detto che all’interno di un porto si possono creare situazioni di forte risacca in cui la sicurezza della barca è affidata alla qualità dell’ormeggio. Un primo punto da considerare, per evitare lo sbandieramento a volte pericoloso della barca sotto raffica, è la tenuta del corpo morto, che per le barche di una certa dimensione impone l’uso dei cosiddetti “baffi”, ovvero la doppia cima da fissare a entrambe le bitte di prua. Se possibile, in caso di previsioni fosche è inoltre buona norma mettere un paio di traversini, così come, negli ormeggi all’inglese, ricorrere a un paio di spring.

A poppa, oltre alla doverosa distanza dalla banchina e a un corposo parabordo specifico, a garantire un buon ormeggio saranno i già citati molloni (o ammortizzatori alternativi), purché siano proporzionati e di una qualità su cui non sarà il caso di lesinare. Appare infatti ovvio che, pensando alla difesa della barca, sarebbe poco intelligente risparmiare qualche decina di Euro su cime e ammortizzatori, perciò, mai come in questo caso…melius est abundare quam deficere!

La varietà delle cime d’ormeggio offerte dal mercato è come detto varia, anche se molti velisti finiscono spesso per adattare alla bisogna vecchie scotte, che per altro svolgono egregiamente il loro lavoro. L’importante è ricordare che cima vecchia non fa buon brodo, per lo meno se non integra, mentre – anche se suona un po’ come legge di Murphy – meglio una buona cima vecchia che una pessima cima nuova.

In ogni caso da evitare le pur economiche cime ritorte in nylon o polipropilene (quelle arancioni, per capirci, per altro galleggianti); migliori ma non splendide quelle in poliestere a tre legnoli, incluse quelle vendute come ”elastiche”; ottime quelle pur sempre in poliestere ma a doppia treccia, morbide, maneggevoli…e belle. Per la lunghezza inutile eccedere rendendo poi poco maneggevole la manovra della cima, ma neanche essere di braccino corto rischiando poi di mettere sulla bitta della barca un solo giro di cima. Diciamo che, prendendo come esempio una barca intorno ai 10 metri, possiamo calcolare 5-6 m. di lunghezza, cui va aggiunta la catena di collegamento al mollone, oltre al mollone stesso.

Per lo spessore possiamo invece ricordare una consolidata regola che recita che per calcolare lo spessore di una cima d’ormeggio basta tradurre in millimetri i metri di lunghezza della barca e aggiungere 4: in pratica su una barca da 10 metri servirebbero così cime da 14 mm, il che considerando sempre che abundare non è mai male potrebbe anche andar bene, ma l’importante, come detto, è la qualità della cima, ovvero il suo carico di rottura. Da non dimenticare poi che anche le cime hanno bisogno di un minimo di manutenzione, ovvero di essere ogni tanto sciacquate con acqua dolce per togliere il salino accumulato.

L’accessorio irrinunciabile

Belle certe barche d’epoca, che per evitarne l’usura su bitte e anelli proteggono le proprie cime d’ormeggio con manicotti scorrevoli in pesante tela o addirittura in pelle. Bello ma poco pratico. Un’immagine del passato sostituita oggi dagli ammortizzatori o compensatori d’ormeggio di cui esistono varie versioni. Oltre ai classici molloni di acciao inox, il mercato offre ammortizzatori in elastomero di varie forme: quelli cosiddetti “a labirinto”, i più economici.

La scelta è personale ma, come detto, considerando che anche ad essi affidiamo la sicurezza della nostra barca, meglio non risparmiare, poichè mai come in questo caso prevenire è meglio che curare.

Senza contare che, oltre alla sicurezza, nel caso si volesse dormire a bordo, considerando che non c’è marina che in certe condizioni non subisca un po’ di risacca, subire gli strattoni causati da una cima non ammortizzata è tutt’altro che piacevole, né per chi sta a bordo né per la barca stessa. Magari ai fini del comfort acustico si può considerare che con il tempo i molloni d’acciaio in fase di compressione e rilascio possono produrre dei fastidiosi cigolii, per altro amplificati dallo scafo come cassa di risonanza, ma un po’ di grasso e di CRC sono in genere sufficienti a eliminare il problema.

Insomma, quale ammortizzatore d’ormeggio scegliere? Sempre bene fare i conti fra portafoglio e prestazioni e scegliere il miglior compromesso. I più cari in assoluto sono quelli idraulici di ultima generazione, che nella loro versione inox sono riservati ai grandi yacht, e poiché parliamo di varie centinaia di Euro possiamo lasciarli a quei pochi che possono permetterseli.

Ottimi, e più a portata del diportista medio, quelli che uniscono la robustezza dell’acciaio alla flessibilità degli elastomeri, che risultano oltretutto molto silenziosi. Le molle d’acciaio classiche sono più economiche, svolgono comunque bene il proprio compito, ma per quanto resistenti vanno periodicamente sostituite per evitare il pericolo di rotture.

A questo proposito, considerando che l’ammortizzatore d’ormeggio viene in genere connesso alla bitta di banchina con uno spezzone di catena, è sempre bene mettere una sicurezza fra catena e redancia della cima d’ormeggio. E sempre a proposito di sicurezza, è vero che la maggior parte delle connessioni fra mollone e catena (o cima) è costituita da un grillo, ma i grilli a volte possono svitarsi e a scanso sorprese (parere personale) meglio utilizzare un moschettone in acciaio inox, magari, sovradimensionato, che è oltretutto più pratico in caso di ormeggio intorno a un anello. I vari modelli di ammortizzatori in materiale plastico, decisamente più economici, svolgono altrettanto bene il loro compito, ma meglio riservarli a barche non troppo grandi, anche perché con il tempo pagano il peso dell’azione del sole e del salino.

Problema passerella

Ora che la nostra barca è ben ormeggiata in banchina, possiamo anche scendere a terra, per andarcene a casa, o per un semplice ma gradito aperitivo. E qui cominciano (per molti anche se non per tutti) i dolori. Se si prevede di restare fermi per giorni o settimane, è della massima importanza che l’ormeggio mantenga la barca, a cime tirate, a una distanza dalla banchina non inferiore a due metri. In questo caso, poichè persino gli skipper più atletici desistono dal tentare il salto…serve necessariamente una passerella.

Ricordandoci che parliamo di barche di media dimensione e a diportisti che non possono o non vogliono mettere in crisi il portafoglio (una passerella non costa meno di svariate centinaia di Euro), va detto innanzi tutto che molti, soprattutto su barche di 9-10 metri, della passerella cercano di fare a meno. Il che può comportare la gentile richiesta al vicino più attrezzato di poter scendere attraverso la sua barca (cosa per lui odiosissima) o, meno frequentemente, anche l’eventualità di prendere in prestito temporaneamente una delle passerelle che spesso sembrano abbandanate in banchina ma che, invece, nella quasi totalità dei casi, appartengono a qualcuno. Ciò suggerisce che, con le cifre che si pagano nei marina, non sarebbe male se questi si dotassero di una certa quantità di passerelle “pubbliche”.

Nella speranza e nell’attesa che questo velato invito si trasformi in realtà, può comunque convenire di cercare la soluzione tra le tante proposte del mercato.
Dunque vediamo. Le passerelle possono essere realizzate nei materiali più svariati (esistono anche quelle gonfiabili della Plastimo), con costi che possono diventare preoccupanti quando si parla di carbonio: leggerissimo, robustissimo, elegantissimo e quindi costosissimo. Nulla da dire però circa le sue qualità, che sono decisamente notevoli, tanto da essere apprezzate anche su barche di gran classe.

Ci sono poi la vetroresina, l’acciaio inox combinato con il legno, la lega leggera e via dicendo. Così come si può passare dai modelli più lineari a quelli pieghevoli, da quelli semplicissimi a quelli – particolarmente eleganti – con gli inserti in carabottino.

Quale scegliere?

Dipende ovviamente dalla barca…e pure dal suo equipaggio. Per scendere a terra o per risalire a bordo non si dovrebbe mai essere particolarmente atletici, anche se, soprattutto in certe situazioni, questo genere di passaggi richiede pur sempre un minimo di agilità. Senza contare che gli anni passano, le articolazioni scricchiolano e pure l’equilibrio e la prontezza di riflessi tendono a diminuire. Per questo insieme di motivi, il piano di transito deve sempre essere sufficientemente largo (non meno di 35-40 cm) e la struttura deve essere perfettamente rigida, robusta e stabile (attenzione soprattutto ai modelli pieghevoli).

È dunque preferibile che sulla barca ci sia un bicchierino di fissaggio di acciao inox o, nel caso di un appoggio diretto, che l’estremità interna della passerella presenti un cuscinetto terminale in gomma antiscivolo che, tra l’altro, protegga la vetroresina dagli sfregamenti. Meno consigliabile, anche se largamente utilizzato, uno strato di moquette. Le rotelline che spesso si trovano all’estremità esterna hanno il compito di evitare che il movimento impresso dalla risacca provochi uno sfregamento sulla banchina, ma funzionano solo quando, rispetto ad essa, l’estremità opposta – quella che poggia sulla poppa della barca – è alla stessa quota o più alta.

Manco a dirlo, soprattutto tra i velisti, c’è un’ampia gamma di soluzioni fai-da-te, non sempre all’altezza dell’affidabilità richiesta. La più economica in assoluto – e perciò anche la più diffusa – è ovviamente quella costituita dalla classica palanca di legno, lasciata così com’è o “ingentilita” ed elaborata mediante qualche aggiunta, come per esempio il rivestimento in moquette del quale abbiamo già detto. Decisamente più evoluta è la modifica di una normale scala di alluminio, acquistabile presso un qualunque ferramenta, nella quale gli spazi tra un gradino e l’altro vengono colmati mediante l’applicazione di inserti in legno. Insomma, fantasia a briglia sciolta. Quale che sia la soluzione adottata, l’importante è non dimenticare che, statisticamente parlando, la maggior parte dei traumi sofferti dai diportisti avviene proprio in occasione dell’imbarco/sbarco.

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